La politica scolastica e i proclami elettorali

La politica scolastica e i proclami elettorali

di Gian Carlo Sacchi

Il rapporto sulla sicurezza in Europa (Demos 2013) rileva i (due) più importanti problemi per gli italiani: la disoccupazione al 49%, la situazione economica al 42% (l’istruzione al 2%), mentre per i tedeschi al primo posto c’è la disoccupazione e al secondo l’istruzione.

Basterebbero questi dati a far capire come l’economia non sia tutto per un popolo ed anche i risultati conquistati in questo campo vengono consapevolmente preparati prima, con adeguati investimenti, a partire dalla sensibilità sociale. Si capisce altresì come nel regno delle cicale nel prendere atto delle difficoltà in cui il Paese versa non si cerca di capitalizzare i processi formativi, ma anzi si continuano a tagliare risorse.

Avvicinandosi il momento elettorale, senza curarsi che molte promesse fanno parte di quelle non mantenute dalle legislazioni precedenti, le forze politiche, vecchie e nuove, continuano a formulare lunghi elenchi di titoli dietro ai quali si nascondono spesso ambigue ipotesi di soluzione, fino  far sembrare il tutto la solita questione interna ad un pur  grande numero di addetti-elettori più desiderosi di rassicurazioni che di stimoli innovativi, che peraltro le forze politiche non hanno elaborato preferendo ritornare su parole d’ordine del passato, senza sforzarsi di intercettare il cambiamento.

Se solo il 2% degli italiani ritiene importante la formazione, non ci si lamenti che in una campagna elettorale fatta sui sondaggi la si consideri poco o nulla e quello che viene riportato dalla stampa non siano che segnali per una comunicazione alla ricerca del consenso. Ma per rimotivare i nostri cittadini occorrono proposte di lungo respiro, che di certo vanno oltre il tempo di una competizione, in cui le riforme non siano vendette tra le opposte fazioni politiche, ma il risultato di verifiche relative alla capacità di rispondere e di indirizzare la domanda sociale, tra tradizione e innovazione.

La politica scolastica viene ancora considerata al traino delle ideologie o di stereotipi  economici e non le si riconosce l’autorevolezza (magari fa pure poco per essere riconosciuta) di essere lei a trainare lo sviluppo o comunque a prenderne parte attiva.

Perché si dovrebbe oggi desiderare la scuola ? E’ la domanda alla quale si deve rispondere prima di entrare nelle tecnicalità ormai del tutto autoreferenziali, dal momento che ogni sguardo sulla capacità delle stesse di sperimentare nuovi percorsi  è stato quasi completamente oscurato. La scuola non può servire al futuro, non favorisce la mobilità sociale, non orienta le persone di fronte ad una sempre più generalizzata disoccupazione; sembra conferire scarso significato alla crescita personale: vedi le situazioni di disagio giovanile in aumento; subisce la concorrenza di un sapere diffuso veicolato attraverso strumenti che producono una nuova “descolarizzazione”.

Una ricerca del 2009 fatta tra i genitori degli alunni di scuola superiore della provincia di Bologna (rivista di sociologia) tende a dimostrare l’inutilità di tale tipo di scuola. Coloro i quali hanno in mente per i loro figli gli studi lunghi sono già concentrati sull’università e chi vuole introdursi precocemente nel mercato del lavoro desidera che finisca presto (si veda peraltro il fallimento del prolungamento degli istituti professionali, che riscontriamo ancora nelle proposte elettorali). Dietro queste due opzioni c’è una forbice sociale che si amplia sempre più e condiziona le scelte. La scuola opera il decondizionamento ? Parti uguali tra disuguali non si possono fare, diceva don Milani, ma come questo in concreto può avvenire ? L’equità va misurata a livello di istituto o di sistema ? A queste domande si risponde con una nuova governance ed una maggiore libertà e professionalità dei docenti.  Tutti i contendenti si pronunciano a favore dell’autonomia scolastica ma senza compromettersi troppo. La recente proposta di legge sul riordino degli organi collegiali di istituto ha costituito un bersaglio mobile. E’ la dimostrazione di cosa voglia dire passare dalle parole ai fatti.

Successo scolastico e dispersione, i due corni del dilemma; una cultura generale incarnata anche senza precoci specializzazioni ed una formazione professionale arricchita, con standard di qualità, pur attraverso un “plicentrismo formativo”. In passato la scuola era un autobus sul quale si era invogliati a salire (emancipazione), oggi si tende a scendere (demotivazione).

L’ultimo rapporto CENSIS si compiace del ritorno all’istruzione tecnica e professionale, ma l’abbandono dei licei tende a fare il pari con il progressivo assottigliarsi degli studi universitari, mentre l’istruzione superiore nel settore professionalizzante stenta a decollare. Questo ci riporta a nuove o vecchie elite; se poi si considera che negli istituti tecnici e professionali la qualità degli apprendimenti non è che brilli, il risultato è la scarsa competitività del sistema.

Dall’altro lato c’è il rapporto con il mondo del lavoro che qualcuno vuole in maniera più stringente fino ad arrivare ad una precoce selezione degli alunni; costoro però non conseguono risultati nelle competenze generali pur necessarie all’impresa (uno per tutti la lingua inglese, sempre più richiesta ma appresa con maggiori difficoltà). Chissà perché le discipline in lingua straniera sono previste solo nei licei.

C’è invece chi insiste su un’ampia preparazione di base prima di affrontare le specializzazioni, ma senza un profondo rinnovamento della didattica e delle organizzazione, che nessuno propone in concreto, sappiamo generare abbandoni. La formazione professionale in particolare rischia di consolidare fenomeni di esclusione sociale.

E che dire del tanto propagandato quanto poco attuato “apprendistato formativo” se non per confermare la distanza che ancora esiste tra formazione e lavoro (è infatti un palliativo quello di pensare a questo dispositivo per l’assolvimento dell’obbligo scolastico), con tutte le difficoltà di proporne una nuova pedagogia, ma anche da parte dell’azienda occorre investire maggiormente sulla formazione fino ad assumere i connotati di “impresa formativa”.

Un nuovo canale di istruzione e formazione professionale, tra Stato e Regioni, le reti di scuole, gli organici funzionali degli istituti: tutte cosa già ampiamente previste ma fin qui non realizzate. Manca da due legislature almeno (2001) l’applicazione del nuovo titolo quinto della Costituzione con l’annesso decentramento delle competenze istituzionali, e con esso un vero mutamento di prospettiva sul piano del governo del sistema stesso.

Autonomie territoriali, efficienza del servizio, diritti civili e sociali: allo Stato il compito costituzionale di definire i Livelli Essenziali delle prestazioni per garantire tutti i cittadini della Repubblica, consentendo ai territori (legislazione concorrente con le Regioni) di qualificare gli interventi in base alle necessità (il welfare del nord Europa prevede uguaglianza delle possibilità e flessibilità nelle realizzazioni, fino alla personalizzazione dei curricoli, ed i risultati si vedono), mentre da noi si preferisce tenere stretta le gestione a livello nazionale, creando, come si è detto, disequità e tollerando regioni che sulla base di incentivi economici tentano di privatizzare il servizio.

Un sistema integrato pubblico – privato nel nostro ordinamento è già in vigore dal 2000, ma gli aiuti vanno elargiti progressivamente in base alle necessità degli allievi e delle famiglie.

Privatizzare, è noto, non vuol dire fare qualità, forse serve a conservare alcuni stereotipi  sociali e culturali; la sfida della qualità si vince se “il dato medio” progredisce, facendo così innalzare l’eccellenza. Serve miglioramento continuo più ancora che valutazione (Paesi nei quali non esiste il sistema di valutazione conseguono le migliori performance nelle indagini internazionali). E la prima cosa da fare è sostenere i docenti, non solo dal punto di vista economico !

Chi aveva buttato la scuola ed i suoi operatori in pasto alla customer satisfaction oggi si ritrae, mentre c’è chi esce dall’egualitarismo e si muove verso la meritocrazia. Va sottolineato con soddisfazione che nessuno più crede che la qualità esca dalla competizione esasperata, e per i docenti, pur nella necessità di una carriera anch’essa più qualitativa, si può trovare un’intesa tra assunzione/concorso sulla base dei requisiti nazionali ed una gestione (anche diversificata economicamente) territoriale, superando ogni tentazione di “chiamata diretta”. Ma questo oltre ai predetti organici “funzionali” comporta la revisione delle classi di concorso e l’abolizione di numerosi vincoli in tema di graduatorie, supplenze, ecc., perché anche l’impianto culturale e didattico delle discipline venga rivisto mettendo al centro l’apprendimento dello studente.

La questione delle risorse finanziarie fa la parte del leone in tutti i proclami: basta tagli anche da parte di chi li ha pesantemente  attuati in questi anni. Sembrano un po’ i Giapponesi nella foresta che non sanno che la guerra è finita coloro che pensano ad un rifinanziamento delle scuole sulla base di “indici oggettivi e calibrati” (come ?) di valutazione, così come si propongono premi ai docenti che conseguono i migliori risultati (si sa che è tutt’ altro che oggettivo pensare ad un collegamento diretto tra insegnamento e apprendimento); di sicuro c’è da ripristinare un investimento “europeo”, ma bisogna anche capire come si reperiscono questi finanziamenti. Sappiamo infatti che la scuola è un parte di un più ampio sistema educativo e formativo presente sui territori e che le risorse possono avere una diversa provenienza, compresa la contribuzione dell’utenza anche attraverso il credito d’imposta. Occorre riprendere il federalismo fiscale, ivi compresi interventi compensativi per realtà a bassa capacità di riscossione, ma il tutto in relazione ai previsti quanto inattuati livelli essenziali. Tutto questo, come si è detto, va collegato ai processi di autonomia e di programmazione territoriale di competenza degli enti locali in un’ottica di sussidiarietà.

E’ interessante vedere che la riforma degli ordinamenti non è più al primo posto, come in precedenza era accaduto, anche se si pone il termine degli sudi a 18 anni per maggiore simmetria con la situazione europea. Le “norme generali sull’istruzione” indicate dalla riforma costituzionale dovrebbero prevedere una struttura leggera (4+4+4 ?) che potenzi il momento più rischioso della preadolescenza, anticipi il passaggio alla vita attiva che oggi è  sempre più legata al “baccalaureato” internazionale, senza mettere in crisi da un punto di vista pedagogico-didattico il triennio della scuola dell’infanzia con un anticipo obbligatorio a cinque anni. La fase prescolare dei nidi non ha bisogno di una legge ad hoc (una situazione troppo lunga e faticosa sul piano parlamentare); basti sapere che tutte le norme che riguardano il riordino degli enti locali inseriscono tali servizi tra le “funzioni fondamentali”. Qui si dovrà ridiscutere l’obbligo di istruzione, da un lato difeso nelle sue caratteristiche scolasticistiche, e, dall’altro violato nelle sue prerogative sociali attraverso una serie di interventi molto diversi tra di loro. Alla stessa normativa occorrerà riferire le problematiche relative all’edilizia scolastica, se si vorrà mettere fine ai piani straordinari ed entrare nella normalità della manutenzione, sicurezza, ecc.

Compresenze, tempi scuola, possono essere derubricati a questioni di tipo organizzativo se ci fossero i livelli essenziali, l’autonomia gestionale e finanziaria e la valutazione. L’allungamento del tempo può essere “il migliore antidoto alle disuguaglianze sociali” se ne è verificata l’efficacia, al punto che già parecchi anni fa Sergio Neri lanciava l’interrogativo: tempo pieno, di che ? E ci si deve domandare perché dopo la scuola primaria, dove tale modello si rivela sempre più una esigenza delle famiglie, il tempo prolungato della scuola media cala vertiginosamente e non solo per colpa dell’amputazione degli organici. Allora le scuole potranno essere aperte tutto il giorno e tutto l’anno a seconda delle necessità, con risorse definite sul territorio, senza litanie propagandistiche.

Niente più ingegneria scolastica se si tratta di costruire un sistema flessibile, con norme appunto generali e autonomie locali e professionali: rappresentanze riconosciute alle scuole autonome con organi di tutela e di riconoscimento della “libertà di insegnamento”. Un istituto nazionale di valutazione indipendente dal ministero ed un riferimento nazionale per la ricerca didattica con articolazioni, d’intesa tra Stato e Regioni, che arrivi fino a quei “laboratori territoriali” per la documentazione la ricerca e la formazione in servizio del personale, già introdotti attraverso reti di scuole dal DPR 275/99.

Su quest’ultimo punto è indispensabile un collegamento stretto con le università dove si svolge la formazione iniziale dei docenti non tanto per differenziarla ad ogni età degli alunni (la “pedagogia di stadio” ormai è superata), quanto per collegarla strettamente con la realtà della scuola, delle altre agenzie educative e formative, delle associazioni professionali,  attraverso la pratica ed i tirocini.

La presenza delle tecnologie ci mette di fronte ad una nuova “descolarizzazione”. I servizi tecnologici sono utili, ma attenzione a nuovi autoritarismi. La diffusione di certi strumenti dovrebbe andare di pari passo con l’innovazione didattica, ma soprattutto con un curricolo scolastico in cui l’asse tecnologico non è ancora capace di esprimere un potenziale educativo adatto a comprendere tale cambiamento e a fornire ai giovani le necessarie competenze per  intervenire su di esse e non solo ad essere passivi esecutori di procedure.

Del tutto assente la problematica dell’educazione permanente e degli adulti; di questo scontiamo una notevole arretratezza nei confronti dell’UE anche per le ricadute sulla gestione dei curricoli. Se davvero si potessero valutare le competenze e fossero riconosciuti i crediti avrebbe anche meno senso gridare all’abolizione del valore legale dei titoli di studio.

Insomma da quello che si legge non ci sono proposte che debbano essere introdotte di nuovo. Ci aspettiamo dunque un parlamento ed un governo che diano “stabilità” alla scuola, che sappiano far uscire i vari segmenti formativi dal loro isolamento e da una difesa corporativa per costruire un sistema che possa generare sviluppo sul piano civile ed economico. La cosa più importante per realizzare tale sistema, è utile ribadirlo, è una nuova governance. Di questo si parla ampiamente, anche nei programmi elettorali, ma non è la prima volta e finora è rimasta lettera morta. Speriamo sia la volta buona.