Conoscere oltre il dolore

Esperienze *

Conoscere oltre il dolore

di Patrizia Donzella

 

Devo decidere, siamo oramai alla scadenza del termine ultimo per la presentazione delle istanze per l’utilizzazione.

Mi suggeriscono “Scuola in Ospedale”. Ci rifletto un po’ su.

L’idea di fare un’esperienza nuova, completamente diversa da quelle fatte nel corso dei miei già più di venti anni di insegnamento nella scuola secondaria di secondo grado, mi alletta, mi incuriosisce, mi interessa ma, al tempo stesso, mi intimorisce, mi preoccupa, mi rende insicura.

Tuttavia, mi convinco e accetto.

Voglio mettermi alla prova. Voglio scoprire cosa può significare e come può cambiare il ruolo di insegnante in un contesto tanto diverso da quello abituale.

 

L’avventura comincia il 17 settembre 2012 con l’avvio del nuovo anno scolastico, che in realtà, come per tutti i docenti in servizio, è iniziato il 1° settembre con il Collegio dei Docenti, in una scuola che non era più quella che per sei anni è stata la mia:

l’Istituto di Istruzione Secondaria Superiore “L. Scarambone”, scuola capofila della Rete di Istituti per Scuola in Ospedale, con l’Istituto Comprensivo“ Dante Alighieri -Armando Diaz” di Lecce, presso il quale c’è la sezione ospedaliera.

 

Tra i punti all’ordine del giorno:  Progetto Scuola in Ospedale.

 

Stupore e curiosità tra i colleghi, soddisfazione per chi ci ha creduto e lavorato per circa tre anni.

Il progetto è la risposta alla richiesta di attivazione del servizio scolastico ospedaliero per gli alunni della scuola primaria e secondaria di primo e secondo grado, degenti per lungo, medio o breve periodo avanzata in data 22 giugno 2010, da:

 

  • l’azienda ASL della città di Lecce, Ospedale “ Vito Fazzi, rappresentata dal Direttore generale Guido Scoditti
  • il responsabile dell’U.O di onco-ematologia Pediatrica Dott.ssa Assunta Tornesello
  • il Primario del reparto di Pediatria, Dott. Silvio Pozzi
  • il tavolo monotematico pediatria ed onco-ematologia Pediatrica, rappresentato da Rita Masciullo
  • l’associazione genitori onco-ematologia pediatrica “Per un sorriso in più”, rappresentata da Antonio Giammarruto .

 

Un progetto per Lecce, una realtà consolidata per altre province e regioni d’Italia.

Infatti, il servizio scolastico è presente presso l’Ospedale Infantile Regina Margherita di Torino dal 1967, anno in cui fu avviata la prima sperimentazione da parte della Scuola primaria “Vittorino da Feltre”. Nel 1994 fu istituita la prima sezione di scuola secondaria di primo grado, seguita nel 1999 dalla scuola secondaria di secondo grado e nel 2005 dalla scuola dell’infanzia.

La scuola in ospedale è oggi diffusa in tutti gli ordini e gradi di scuola presso: il San Gerardo di Monza, l’Azienda Ospedaliera , Ospedali Riuniti, di Bergamo, molte delle province della regione Piemonte, il Gaslini di Genova, il Meyer di Firenze ed ancora  Brescia, Bologna,…

Essa assolve un’importante funzione, come esplicitato nella C.M. n. 43 del 26/02/01:
«Il servizio scolastico diviene parte integrante del processo curativo che non corrisponde solo freddamente a un diritto costituzionalmente garantito, ma contribuisce al mantenimento o al recupero dell’equilibrio psicofisico degli alunni ricoverati tenendo il più possibile vivo il tessuto di relazioni dell’alunno con il suo mondo scolastico e il sistema di relazioni sociali e amicali da esso derivante».

La sua presenza nelle strutture ospedaliere garantisce  ai bambini e ai ragazzi ricoverati il diritto all’istruzione come diritto a conoscere e ad apprendere in ospedale, nonostante la malattia. In molti casi essa permette ai ragazzi e alle loro famiglie di continuare a sperare, a credere e a investire sul futuro. Inoltre, tale particolare offerta formativa, opera nel campo della prevenzione e del contrasto della dispersione scolastica.

Entrare in un ospedale fa sempre un certo effetto. Si sa che qui ci sono persone che non stanno bene e la salute, anche se a volte lo dimentichiamo, è una cosa seria.

Varcare la soglia di certi reparti è ancora più difficile. Reparti come Pediatria, dove a confrontarsi con la malattia sono i bambini, e come Onco–Ematologia Pediatrica, dove si comincia sin da tenera età ad imparare ad apprezzare la vita.

E’ un mondo a parte. Tutto ciò che è al di fuori di esso sembra lontano e non appartenerti più.

La sofferenza cambia, emargina e talvolta rende migliori. Può farci chiudere in noi stessi ma può anche aprirci agli altri, rendendoci generosi e pronti al sorriso.

Già. Il dolore non si manifesta dove ce n’è tanto!

Il dolore e la disperazione di un genitore che accompagna il proprio figlio lungo un percorso di attese, risposte, ansie, preoccupazioni, speranza, dubbi, impotenza. Questo dolore lo cogli solo nel bisogno di scambiare una semplice parola, nel confidarti alcune cose come se ti conoscessero da tempo o nel guardarti diritto negli occhi rimanendo in silenzio.

Ma negli occhi dei bambini, dei ragazzi malati, dei protagonisti di questa realtà, tu leggi la gioia di vivere da cui traggono forza per se stessi e per chi li ama.

Sottoposti a cicli di terapie più o meno lunghi, più o meno pesanti, stanchi, ti accolgono nel loro mondo con un sorriso disarmante e tu devi entrarci in punta di piedi. Ti chiedono la “normalità”, quella che vivrebbero fuori e che tu puoi portagli da fuori.

Per questa ragione, qui non è consentita alcuna debolezza.

Ma le emozioni sono tante.

Quotidianamente, a turno (siamo tre docenti di scuola secondaria di secondo grado, due di secondaria di primo grado e tre maestri a lavorare per la scuola in ospedale), ci informiamo sulle presenze in day hospital e sui ricoveri per poter di volta in volta organizzare la nostra attività didattica.

Spesso mi è capitato di dover presentare ai ragazzi ed ai loro genitori  il servizio che eroghiamo, spiegando: a chi è rivolto, come e quando funziona, come aderire, quali opportunità e quali vantaggi offre, quale impegno è richiesto, quali rapporti si tengono con la scuola di appartenenza.

Sono lì, in attesa di un responso o di sottoporsi ad un esame clinico oppure ad un prelievo, in sala d’attesa o in ludoteca.  Sono assorti nei loro pensieri e riempiono il tempo leggendo, giocando al computer o con la play-station. A volte non hanno voglia di stare a sentire, ma con un sorriso e una battuta piano piano si aprono all’ascolto e al dialogo. Ti raccontano brevemente la loro storia, quale scuola frequentano, se ne frequentano una. Alcuni sono sorpresi che anche in ospedale si possa fare lezione, altri ne conoscono l’esistenza, per esperienza diretta o per sentito dire, ma in altre province.

Tutti,  ragazzi e genitori, apprezzano l’idea della scuola in ospedale ma non tutti, soprattutto all’inizio, accettano di farne parte quasi a scongiurare ulteriori visite e controlli. Molti, invece, sono quelli che aderiscono subito con interesse scoprendo che, alla fine, quello della scuola rimane l’unico tratto di normalità in una vita a volte radicalmente stravolta.

Come si lavora, dunque, in reparto? Come e che cosa si insegna a bambini e ragazzi catapultati in un mondo di estranei, di dolore fisico, di esami e terapie anche molto difficili da sostenere?

La didattica ospedaliera è diversa da quella normale: non c’è una classe, non sempre c’è uno spazio disponibile per svolgere la lezione che in genere è individuale, a partire da una prima funzione specifica di accoglienza. Manca la continuità del rapporto con gli studenti: non si sta con loro per qualche anno, ma per qualche mese o anche solo per qualche settimana o giorno, magari non continuativi; infatti, spesso si  alternano regimi di day-hospital a ricoveri e a  periodi di degenza a casa in cui, quando possibile, sono seguiti con istruzione domiciliare.

Come riferimento direttivo l’insegnante ha la Direzione didattica o la Dirigenza e gli organi collegiali, ma deve concordare la programmazione didattica con le figure responsabili dei reparti sanitari e selezionare con cura le attività adattandole alle singole situazioni, quali: patologie improvvise, temporanee, malattie croniche e, quindi, accertamenti o degenze fino alla costrizione a letto.

Inoltre, l’attività scolastica non può non tenere conto della presenza importante e costante dei genitori che , ancora una volta, affidano i propri figli ad altri: prima, ai medici per le cure mediche e poi ai docenti, per la “cura dello studio”. Attenti ad ogni attività proposta, scrutano con discrezione e senso di responsabilità l’operato del docente e le reazioni provocate nei loro ragazzi, che sollecitano nell’impegno e a cui portano libri e quaderni da casa. Generosi nel mostrare apprezzamento per il lavoro svolto, spesso si  congratulano per la sua ricaduta formativa e motivazionale e ne riconoscono la funzione terapeutica (i ragazzi riacquistano fiducia in se stessi e si sentono più forti nell’affrontare le difficoltà, la malattia).

Niente ore scandite dalla campanella.

Il tempo si trasforma: può dilatarsi, per esempio durante una lezione molto coinvolgente, oppure comprimersi tra terapie ed esami, che hanno sempre la precedenza come è giusto che sia.

Prima ancora di insegnare, i docenti ascoltano, sostengono, aiutano, costruiscono ponti con l’esterno.

Per ogni alunno, si cerca di costruire un percorso didattico integrato a quello della scuola di appartenenza, con la quale è sempre auspicabile un dialogo continuo, per rispondere ai suoi bisogni specifici, allo stato emotivo, alle condizioni fisiche, che cambiano in continuazione; dialogo che talvolta è reso difficile da una certa diffidenza probabilmente dovuta ad una scarsa conoscenza della tipologia di scuola che è la scuola in ospedale, del suo funzionamento e della sua funzione.

Così, a volte introduci un argomento più o meno impegnativo, altre è meglio ripassare qualcosa oppure puntare su un approccio più leggero e proporre un’ attività ludica.

Il gioco non dovrebbe essere dimenticato neanche nelle scuole “ordinarie” e in ospedale aiuta a vincere le paure legate a quel luogo di cura. Può avere spazio con qualunque fascia di età ci si trovi a lavorare, naturalmente adattandolo e adeguandolo alle caratteristiche specifiche dei soggetti che si incontrano.

Inoltre, il gioco contribuisce alla formazione di una “Testa ben fatta” che, come sappiamo, è meglio di una “ben piena”, che dispone quindi di: “un’attitudine generale a porre e a trattare i problemi e di principi organizzativi che permettono di collegare i saperi e di dare loro un senso”    (E. Morin, La testa ben fatta, Cortina, Milano, 2000).

Ancora, tra le funzioni del gioco troviamo il divertimento, il rilassamento, la libera espressione dei propri sentimenti e una via di uscita per le emozioni, la comprensione e la rielaborazione di quanto sta accadendo.

Oggi è anche possibile tenere in contatto gli alunni in reparto con le loro classi d’origine, fare lezione e incontri in videoconferenza, imparare quindi in un contesto aperto,  grazie alle nuove tecnologie della comunicazione, disponendo di una dotazione informatica e di una solida connessione Internet.

Non è una realtà adatta a tutti e però, spesso, ci si finisce per caso, magari per una richiesta di trasferimento sul territorio.

Il docente della Scuola in Ospedale deve:

  • avere la consapevolezza che il metodo dell’aula e la rigidità qui non sono possibili;
  • saper gestire relazioni di aiuto con il bambino/adolescente e la famiglia;
  • sentire la necessità di una “long-life-learning”, anche se non si può prescindere da una particolare attitudine, una comprovata sensibilità e una spiccata predisposizione, cioè deve possedere tutto ciò che fa la differenza tra l’essere insegnante e fare l’insegnante;
  • essere un facilitatore: insegnare ad apprendere, con competenza oltre che di didattica anche di counseling;
  • essere flessibile: essere capace di rinnovarsi, reimpostarsi continuamente.

Senza discriminanti tra tipologie di docente, l’insegnante deve possedere le seguenti competenze:

  • correttezza e coesione linguistica nella comunicazione;
  • padronanza prettamente disciplinare;
  • inclinazione pedagogica;
  • equilibrio della personalità;
  • passione verso il mestiere, nonostante tutto;

come nella scuola “normale”, d’altra parte, solo che qui il rapporto è uno a uno; ed ancora:

  • curiosità, al fine di sondare prima il mondo emotivo e quello degli interessi extrascolastici per guadagnarsi il rispetto, la fiducia e la collaborazione per poter costruire insieme un’attività;
  • sentimento di vergogna quando si sbaglia e, non c’è dubbio, si sbaglia.

Tutto questo è ciò che, giorno dopo giorno, ora dopo ora,si definisce sempre più chiaramente grazie al confronto continuo con  colleghi più esperti, con operatori del settore raggiungibili anche attraverso il portale della scuola in ospedale del Ministero dell’istruzione e con la presenza in reparto, dove siamo stati accolti, con grande disponibilità e spirito di collaborazione da parte di tutti: medici, psicologi, infermieri e volontari. Supportati  nel sostenere una tensione emotiva da gestire e controllare, che sin dall’inizio presupponevamo ma, come si è via via  rivelato,  a cui non eravamo del tutto preparati; che una volta tornati a casa si scarica e ti fa sentire dolorante, con le ossa rotte, come bastonato, e che, comunque, neanche con l’esperienza potrà mai annullarsi perché non ci può essere assuefazione, non ci può essere abitudine. Devi solo affrontarla, concentrarti non su te stesso ma sugli altri e andare avanti.

E le emozioni sono tante.

Una grande emozione è sentire al 6° piano dell’Oncologico odore di frittelle alla pizzaiola, con i cipollotti, preparate dalle volontarie dell’associazione “Per un sorriso in più”.

Nata nel 1997 all’Ospedale “V. Fazzi” di Lecce dal desiderio di un gruppo di genitori di bambini affetti di tumore o leucemia di offrire tutto il sostegno necessario per affrontare il lungo iter della malattia, l’Associazione realizza attività di:

  • assistenza psicologica, sociale ed economica alle famiglie in difficoltà;
  • supporto all’Unità Operativa di Oncoematologia Pediatrica del “V. Fazzi” con acquisto di macchinari, formazione del personale, organizzazione di convegni, accoglienza ed animazione in reparto;
  • partecipazione a progetti di ricerca;

è, inoltre, attiva presso i reparti di Pediatria degli Ospedali di Lecce, Tricase e Galatina.

C’è odore di buono. C’è odore di bene. Sì, di bene. Quel bene che si vuole ad un bambino che te le chiede perché ha voglia di frittelle e non puoi dirgli di no.

Un bambino speciale. Un bambino che sta per addormentarsi per sempre.

E’ difficile pronunciare la parola “morte” riferendosi ad un bambino. Nell’attesa i maestri, ormai, possono solo raccontare fiabe, leggere racconti di paura che a lui piacciono tanto.

 

E, poiché siamo in autunno, colorare foglie e frutti per addobbare la sua stanza rendendola allegra, calda, accogliente perché loro, chi è molto malato, sente la vita fino alla fine. Si fa aiutare dalla mamma perché non ce la fa più, immobile in quel lettone ma  interessato,  partecipe e gioioso, pur sentendo venir meno sempre di più le forze;  in realtà è lui ad aiutarla a sopportare questa pena infinita per la quale non le è concesso piangere. Non ora. Il momento in cui versare tutte le sue lacrime arriverà e non basteranno.

 

Si fa fatica ad accettare la morte a qualunque età e si fa di tutto per allontanarla quanto più è possibile.

Così in certi casi, quando si è provata ogni cura e, nonostante tutto, c’è una ricaduta, si ricorre al trapianto del midollo. E’ l’ultima spiaggia e non c’è garanzia di successo, ma non ci si può arrendere e la lotta continua.

In prima linea fieri, nonostante qualche cedimento e la tentazione di arrendersi, combattono con i loro genitori, sostenuti, guidati, spronati da medici, infermieri, volontari. Un esercito contro un nemico: la leucemia.

 

Vanno avanti per anni e intanto crescono e non sono più bambini.

Cambia il loro mondo che non è più solo l’ambiente domestico- familiare; adesso è prevalentemente il gruppo dei pari,  delle amicizie, della scuola e della famiglia.

E’ il tempo delle problematicità, delle incomprensioni, della devianza, ma anche delle potenzialità, delle possibilità di adattamento.

Tutto ruota intorno a due temi principali: il corpo, la propria immagine su cui sono concentrati, e il controllo, in quanto soggetti abili in grado di prendere decisioni.

La malattia, però, li fa sentire insicuri ed in balia degli eventi, che non possono gestire, dei mutamenti del loro corpo, che sentono minacciato, e degli adulti, da cui stavano cercando di emanciparsi; e rispetto a ciò avvertono un regresso che difficilmente riescono ad accettare.

 

Questi sono i nostri ragazzi, i ragazzi che incontriamo e ai quali vogliamo dare quel poco di sapere che possediamo. Ma soprattutto, vogliamo ridare loro la giusta dimensione: quella di studente.

 

Le emozioni vanno come un’altalena.

 

Ci sono emozioni che danno la spinta giusta per andare avanti, motivandoti ancora di più, ed emozioni che, al contrario, ti danno il senso delle reali proporzioni e la consapevolezza che puoi dare solo frammenti di vita. Perché le tue lezioni sono gocce di normalità, gocce di speranza.

Vai con loro, ti muovi con loro al ritmo dello stato di salute che li porta dalla degenza al day- hospital e di nuovo alla degenza e poi all’isolamento e da questo ancora al day-hospital e talvolta a casa o lontano, perché i trapianti non si fanno a Lecce.

Segui il cambiamento repentino da una situazione all’altra, concedendoti il tempo necessario per indossare calzari e mascherina e, quando sulla porta della stanza c’è il cartello con su scritto “STOP”, anche camice e cuffia.

 

Ti accolgono, ti ascoltano, ti parlano attaccati ad una macchina, ad una flebo.

 

Sin dal primo momento non sei un estraneo.

 

Sei il docente che fa sì che la scuola continui, cosa che dà loro fiducia, che li proietta nel futuro.

Così quando saranno nuovamente in classe non si sentiranno spaesati, disorientati e serenamente potranno riprendere il loro percorso di studi forzatamente interrotto. Sentiranno di meno di non esserci stati e sentiranno di meno il motivo per cui sono risultati assenti.

Sei il compagno di banco con cui fare i compiti, che sa di matematica o italiano o inglese e può spiegargli ciò che non ha ben capito; il compagno di banco a cui poter esprimere perplessità e dubbi, confidarsi, confrontarsi; con cui poter scherzare e a cui poter dire “oggi proprio non me la sento, non mi va”.

Un compagno di banco con qualche anno in più, ma a cui anche lui ha tanto da insegnare e che deve essere pronto ad imparare:

ad arrabbiarsi solo per le cose veramente importanti, a vivere ogni momento intensamente, a trovare sempre qualcosa da condividere, a non aspettarsi niente, a saper chiedere aiuto, a guardare sempre avanti, ad essere dignitosi in ogni situazione.

 

La mia avventura è appena cominciata!

 

Leggo. Mi informo. Cerco notizie che mi possano sostenere, indirizzare nelle scelte migliori,  pur nella aleatorietà di ogni realtà e di questa in particolare.

Osservo, faccio tesoro dell’esperienza altrui, ma sono consapevole che tutto ciò non sarà mai abbastanza.

Sono convinta che

 

“…Quando un bambino entra in ospedale, è come   se fosse entrato nel bosco, lontano da casa.

Ci sono bambini che riempiono le tasche di sassolini bianchi, e li buttano per terra, in modo da saper ritrovare la strada anche di notte, alla luce della luna.

Ma ci sono bambini che non riescono a far provvista di sassolini e lasciano delle briciole di pane secco come traccia per tornare indietro.

E’ una traccia molto fragile e bastano le formiche a cancellarla: i bambini si perdono nel bosco e non sanno più tornare a casa.”

(da “I bambini che si perdono nel bosco”  La nuova Italia, Firenze, Ristampa 1995)

 

Dobbiamo aiutarli ad uscire dal bosco, ma senza mai dimenticare i loro bisogni di bambini, di adolescenti, di persone.

Noi possiamo farlo attraverso l’insegnamento.

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* articolo pubblicato su Scuola&Amministrazione, mensile di cultura e informazione per la gestione tecnico-amministrativa della scuola – N. 11 Dicembre 2012 – Carra Editrice.

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