I voti a perdere…

I voti a perdere…

di Giovanni Fioravanti

 

I

Il dibattito ferragostano sui voti che ha interessato la stampa nazionale meriterebbe di tradursi in un’occasione vera per avviare una riflessione più seria rispetto a uno scambio di opinioni estive destinato a lasciare le cose come stanno, affidandone semmai le sorti alla routinaria didattica quotidiana di ogni singolo insegnante.

Ricordo una collega che a proposito di mio figlio un giorno ebbe a dichiararmi che non aveva bisogno di interrogarlo perché bastava guardarlo negli occhi per capire che era sempre attento e, dunque, non poteva che sapere tutto. Per non dire di quei colleghi che alla faccia della trasparenza e della tempestività della valutazione, sancite dalla legge, informano gli allievi circa i voti conseguiti nelle interrogazioni  non prima di almeno una settimana dopo (non è dato sapere da quali profonde riflessioni accompagnata) e solo se richiesti dallo studente.

Chi è di scuola e ha frequentato le sale professori e gli scrutini è testimone di come l’aneddotica sui voti nella scuola italiana non si esaurisca certo in quei segni meno o più che, diversamente numerosi,  intervallano i voti tra un range e l’altro. Per non parlare delle medie tra i voti conseguiti nelle diverse prove, senza preoccuparsi di verificare se alle valutazioni insufficienti conglobate nelle somme corrisponda un reale recupero dei saperi a suo tempo non acquisiti, per cui ne sortiscono valutazioni sufficienti di preparazioni che sono come il formaggio svizzero, con i buchi, come i recuperi dell’ultima ora volti a scongiurare il tre o il quattro in pagella o il giudizio in sospeso.

Basterebbe questo quadro per indurre ad agitare la bandiera bianca sul sistema dei voti della scuola italiana, far gettare la matita rossa e blu a terra e dichiarare la resa.

No! Il fiume della prassi, il fiume dell’indolente abitudine è sfociato nel mare magnum del Regolamento gelminiano, parto di uno Stato scolasticamente sovrano e dove la tradizione del moralismo educativo italiano, quello stesso per cui d’estate si discute se è bene, per la formazione dei nostri giovani,  appioppare voti al disotto del quattro (così impara!! così si forma alla vita! così si esercita a superare le frustrazioni! ecc.) ha preso il sopravvento.

Condotta, profitto, attenzione, partecipazione, e chi più ne ha ne metta, concorrono a costruire i voti, se mai contrattati in sede di scrutinio tra docenti e tra docenti e dirigente. Ma il capolavoro di tutto questo è la bocciatura senz’appello con una sola insufficienza o per il cinque in condotta; ti comporti male a scuola per cui ti boccio, certificando che non sai anche se invece il tuo profitto è buono. Ma nel moralismo educativo scolastico italiano non può essere che chi ha tenuto una condotta così grave da conseguire il cinque in  comportamento possa poi avere un profitto scolastico brillante!

E’ straordinario, ma significativo della confusione che regna in materia, come il dibattito ferragostano su quanto sia legittimo precipitare negli abissi dell’insufficienza, abbia del tutto ignorato l’altro dibattito con cui si è aperta l’estate valutativa, se è bene o male bocciare i bambini in prima elementare a seguito di quanto accaduto all’Istituto “Giulio Tifoni” di Pontremoli, riportato dalla stampa.

Di fronte ad un’Europa che ormai ci chiede a gran voce di certificare le competenze, noi ci trastulliamo con la tombola dei voti e, per non tradire le nostre radici umanistiche, continuiamo a interrogarci sulle competenze come fossero un oggetto misterioso.

Il sistema dei voti pretenderebbe d’essere l’espressione di un’organizzazione scolastica che verifica se quello che ha insegnato è stato appreso e in che misura è stato appreso, un sistema cattedra-centrico, un sistema che verifica comportamenti virtuosi (diligenza, attenzione, studio, condotta, ecc…)  anziché perfomance socialmente produttive, appunto: competenze. Del resto il repertorio dei “non si impegna”, “si distrae”, “potrebbe fare di più” ancora fa da costellazione nel terzo millennio dei saperi dopo Cristo agli incontri scuola-famiglia.

Non ricordo con precisione, ma un paio di anni fa, scorrendo gli item di matematica somministrati dall’INVALSI, a maggio, agli alunni di prima media, rimasi colpito nel constatare che un item, in particolare, era stato sbagliato dalla stragrande maggioranza degli undicenni italiani, quello che chiedeva loro di trasformare alcuni numeri decimali in frazioni, le percentuali nazionali dimostravano l’assenza di ogni competenza in materia da parte dei nostri studenti.

Confesso il mio scandalo di fronte a come la scuola tradisce i suoi alunni, ragazzine e ragazzini  che fiduciosi impegnano il loro  tempo di vita sui banchi di scuola, e come semmai scarica su di loro la responsabilità dell’errore. Ma nella scuola italiana, ancora prevalgono, fatte salve le nobili eccezioni, i saperi insegnati secondo la scansione per compartimenti stagni dei libri di testo, la distrazione intellettuale e didattica di docenti frettolosi di concludere l’ora di lezione, l’incapacità di educare alla problematizzazione, al pensiero reversibile, tutti ingredienti cognitivi, questi,  indispensabili per transitare dai saperi alle competenze.

E dunque è facile concludere che il dibattito estivo sul quantum dei voti, anziché proporsi come occasione di riflessioni serie,  rischia di costituire un distrattore molto forte circa i difetti del nostro sistema formativo, scaricando a valle ciò che non si intende affrontare a monte.

Voglio dire che il voto conseguito dagli allievi al termine di una unità didattica come al termine di un intero anno di scuola è sempre qualcosa in uscita, rispetto alla qualità della scuola, alla qualità dell’insegnamento che ne costituiscono le premesse in entrata.

A me sembra che occuparsi del sistema dei voti è come attardarsi sui sintomi di una malattia anziché ricercare i modi per rimuoverne le cause alla radice. Mi torna alla mente il testo di un metalogo di Gregory Bateson nel quale riporta il dialogo con sua figlia che gli chiede: – Papà quante cose sai? – e lui risponde: -….so circa un chilo di cose….-

Ecco, i voti funzionano circa allo stesso modo, gerarchizzano in una scala da zero a dieci la quantità di sapere posseduta da ogni alunno in ogni singola materia … salvo agli esami di Stato che si concludono sempre con un forfait valutativo.

Ma oggi a noi non interessano più né gli otia studiorum dei latini, né la ratio studiorum di gesuitica memoria, il sapere non può mai essere fine a stesso ma sempre transitare, comunque acquisito, formale, non formale, informale che sia, in competenze e in applicazioni.

Allora, se il sapere può essere gerarchizzato in una scala di quantità, la competenza è inesorabilmente binaria: più-meno, sì-no, c’è o non c’è. Una competenza da tre, quattro, cinque fa sorridere perché sarebbe davvero un non sense, perché comunque non esiste. Così come sarebbe un non sense una competenza da sette, otto, nove, ecc. Perché la competenza è semplicemente presente se posseduta, diversamente è nulla, è uguale a zero.

Il sistema di promozione e bocciatura che caratterizza il cursus studiorum delle ragazze e dei ragazzi che frequentano le nostre scuole certifica in modo premiale il loro “valore” rispetto al conformarsi a quanto richiesto dal sistema scolastico lungo l’asse programma-lezione-verifica, ma nulla ci dice delle loro capacità, delle loro competenze e soprattutto della riuscita e dell’efficacia di un simile sistema di apprendimento.

In questi ultimi tempi si va timidamente sussurrando, non ultima la sinistra tedesca, l’idea dell’inutilità delle bocciature. Bocciature che sono drastiche e totalizzanti, costringendo a ripetere un intero anno, a ripetere il programma anche di quelle materie per cui lo studente risulta sufficiente, con uno spreco irresponsabile della sua tempo di vita da parte degli adulti, per non dire dello spreco di spesa per lo Stato.

E’ giunto il momento, forse, di ragionare seriamente su come abolire definitivamente i voti e sostituirli, come l’Europa da tempo ci chiede, con una seria certificazione delle competenze. Su come rendere più flessibile, a vantaggio di tutti, in particolare del diritto individuale e universale all’istruzione, il sistema scolastico italiano, in modo da sostituire al marchio totalizzante della bocciatura il solo recupero delle materie per cui non si è conseguita la sufficienza o la competenza, certamente non seguendo l’esperienza degli attuali corsi di recupero previsti alle superiori per quanti hanno il giudizio sospeso.

C’ è qui un campo di riflessione e di approfondimento che dopo 150 anni di organizzazione scolastica pressoché identica a se stessa, incentrata sulla classe d’età anagrafica, richiederebbe urgentemente di essere seriamente affrontato.

Per troppo tempo la scuola italiana si è trastullata a rincorrere leggi da riscrivere a seconda del colore politico dei governi, con la grave responsabilità di aver trascurato i problemi veri della formazione dei nostri giovani, resi ancora più cogenti da un divenire della storia che ogni giorno sottrae porzioni  sempre più consistenti di futuro ai nostri figli.

E’ possibile che le prove INVALSI, somministrate in questi anni agli alunni delle nostre scuole, richiedano attente riflessioni, necessitino maggiormente del contributo della scuola militante, ma certo fino ad oggi costituiscono l’unico tentativo serio di orientare la didattica quotidiana verso le competenze, il saper applicare le conoscenze acquisite per evitare che possano divenire rapidamente sterili per chi le possiede.

Come tutte le medicine somministrate a corpi malati, poco reattivi alle cure, procurano il rigetto, in modo particolare perché, a me sembra,  sono state comunque utili a far emergere,  a segnare la cesura, a sottolineare  la distanza tra ciò che la scuola ancora oggi è e quello che invece sarebbe almeno opportuno che divenisse.

Certamente, se i discorsi non si fanno dialogo ma contrapposizione, la comunicazione ne risulta deformata e resta l’incomprensione tra gli attori che dovrebbero ascoltarsi per potersi capire reciprocamente.

Ma ancora una volta l’interesse che sembra prevalere è quello di uno Stato che agisce come l’unico sovrano dell’Istruzione contro l’interesse dei docenti che assurgono a difesa di una casta che si sente vigilata e giudicata nell’esercizio della propria professione.

Ciò che resta totalmente offuscata è la responsabilità della società degli adulti nei confronti delle giovani generazioni che investono tanta parte del loro tempo di vita sui banchi di scuola ancora con l’illusione che quell’impegno sia necessario per costruirsi il loro futuro sociale.

 

II

Allora è tempo che Stato e Scuola sentano tutto il peso e la portata della responsabilità che hanno nei confronti delle bambine e dei bambini, delle ragazze dei ragazzi di non sprecare, di non bruciare nulla di quel tempo di vita a loro sottratto e di rispondere pienamente di come esso a scuola viene impiegato e della qualità dell’istruzione che giorno dopo giorno viene loro impartita.

Assumere come prospettiva l’obbligo della Scuola e dello Stato di rendere conto di come consentono, dalla scuola primaria alla secondaria di secondo grado, ai  loro giovani utenti di capitalizzare in saperi e in competenze per il proprio futuro il tempo quotidiano trascorso sui banchi di scuola senza dequalificarlo o derubarlo di ogni possibile opportunità, ribalta drasticamente il modo in cui generazioni e generazioni, a partire dalla mia, hanno inteso il ruolo dell’istruzione pubblica. Innanzitutto muovendo dalla lezione deweyana per cui ogni educazione deriva dalla partecipazione dell’individuo alla coscienza sociale della specie che, per lo meno in tempo di globalizzazione e di comunità sempre più multietniche, richiederebbe di essere opportunamente rivisitata.

Temo che davvero sarebbe il fallimento dell’educazione, se oggi pretendessimo di concepirla come attività necessaria a preparare le nuove generazioni alla loro integrazione nelle società contemporanee o future che siano. Fallimento per la riuscita di una simile impresa, fallimento sicuramente irresponsabile per i destini dell’io personale di ogni umano, femmina o maschio che sia.

Il divorzio tra dove va il Mondo e dove va o vorremmo che andasse la nostra vita, indipendentemente dalle nostre personali fedi, convinzioni  o visioni escatologiche, è quotidianamente e platealmente sotto i nostri occhi, chi avrebbe il coraggio di affidare ciecamente a questo “mondo” la crescita e il futuro dei propri figli? Credo ben pochi, se non nessuno, e forse neppure i tanti disperati di questa Terra costretti ad essere ormai deprivati di tutto.

L’incontro tra Io personale e Società, da sempre alla base dei sistemi formativi e di istruzioni degli Stati, qualunque ne fosse il regime e il governo, il patto formativo che stava alla base della divisione del lavoro e della mobilità o comunque della collocazione sociale di ognuno, ormai da tempo è venuto meno, ancora prima che tramontasse il millennio che ci siamo da poco lasciati alle spalle.

Se il secolo passato è stato il secolo dei principi dell’educazione deweyana, ora, voltandoci indietro, ne misuriamo il senso della distanza, di altro da noi, come di un anacronismo che da quella storia ci separa e, nello stesso tempo, cogliamo l’angoscia di un vuoto che ancora non abbiamo saputo colmare, spesso raccontandoci che i discorsi sull’educazione e sulla pedagogia hanno perso di rilevanza perché rimasti ormai sepolti come ricordi tra quelle pagine su cui ci siamo formati.

C’è la centralità dell’individuo oggi. Di ogni singolo individuo. Con cui dobbiamo fare i conti e alla cui sfida non possiamo sottrarci. La centralità degli individui che vengono al mondo in questo mondo, la centralità degli individui che trascinano e confondono le loro storie negli inusitati flussi dell’immigrazione.

E allora, la prima domanda che dobbiamo onestamente porci è quella che contiene la risposta a cui, fino ad oggi, quelli come me, sono sempre stati tanto affezionati.

Ma la scuola è al servizio della comunità e del territorio o deve essere al servizio primariamente dell’individuo e del suo progetto di vita?

La  Scuola pubblica è la scuola attraverso la quale lo Stato corrisponde al diritto universale e individuale all’istruzione.  La scuola privata corrisponde a un proprio progetto che non è prioritariamente la garanzia dell’esercizio del diritto individuale e universale all’istruzione, anzi questo diritto potrebbe non occupare il posto primario, ma cederlo alla priorità di una determinata visione del mondo e della vita. Lo Stato laico fortunatamente non ha una visione propria del mondo e della vita, suoi sono i valori universali dell’umanità, tra questi in cima alla piramide dei bisogni  vi è quello della conoscenza senza la quale non si è se stessi e non si può essere cittadini di alcuno Stato.

Lo Stato è per sua natura sociale, perché è la somma dei singoli individui che lo costituiscono e lo definiscono, tanto che, a rigore, l’assenza di uno solo o l’essere di uno solo, finirebbe per mutare la fisionomia e la natura di quello stesso Stato. Stati costituiti di una sola etnia sono una cosa, Stati in cui convive una pluralità di etnie sono un’altra cosa ancora.

E’ evidente che non ci può essere Stato se non c’è un  cum-cognoscere, se non si conosce insieme, se le conoscenze e i saperi non sono condivisi,  l’assenza di questo amalgama produce divisione e conflitto, disparità, differenze, forze opposte e debolezze.

Lo Stato, dunque, non è a prescindere dall’ individuo, ma dall’ individuo scaturisce e non può essere Stato di qualcuno, degli interessi più forti a scapito dei più deboli.

Allora non è il singolo individuo che deve servire lo Stato, ma lo Stato che deve servire il singolo individuo. E come fa uno Stato a servire il singolo individuo senza  creare conflitti tra gli stessi individui ?

Gli individui hanno interesse a farsi Stato quando questo consente di garantire a tutti benessere, là dove c’è chi è deprivato economicamente e chi ha troppo non c’è lo Stato degli individui,  bensì l’individuo dello Stato, come l’individuo della Religione o di questa o di quella confessione, di questo o quel partito, di questa o quella congrega, di questo o quel potere, allora tutte le scelte non sono più al servizio del singolo individuo, ma al servizio dello Stato al fine di piegare ad esso l’esistenza di ogni singolo che perviene inesorabilmente alla condizione di suddito.

E così accade per l’istruzione che da diritto universale, sancito nel 1948,  diviene diritto e dovere nella misura in cui lo Stato ha interesse ad essa, prescindendo dalla considerazione dei diritti dell’individuo in sé, per cui la sua natura e la sua organizzazione cambiano con il variare delle politiche dei governi che di volta in volta si impadroniscono degli Stati.

Esiste un interesse che è all’origine dello Stato democratico, quello, cioè, di  considerare ogni individuo che lo compone come una risorsa, per cui la piena realizzazione di quella “singola risorsa” non può che tradursi nel concreto interesse dello Stato stesso e della sua democrazia. Ogni individuo, quindi, costituisce di per sé una risorsa per la società e la fortuna di quella società dipende dal destino di ciascuna delle sue risorse umane.

Se il successo della società è pertanto affidato all’esito dell’apporto di ciascun individuo, in questa ottica gli individui non sono solo portatori di interessi, ma prioritariamente costituiscono le risorse su cui fondare l’esistenza democratica di uno Stato. Così l’individuo non può prevaricare la società come la società non può prevaricare l’individuo.

Presentata in questo modo la questione, accanto al diritto inalienabile all’istruzione di cui ogni individuo è portatore, non può che sussistere l’interesse dello Stato, quale espressione della comunità sociale, a investire in saperi sulle persone, su ogni singolo individuo che ne costituisce la preziosa  risorsa da cui muovere per progettare il futuro politico e sociale di quella stessa comunità, facendo in modo che il sapere, prima di essere considerato come un requisito, se mai da valutare con un voto, sia considerato un diritto da promuovere, tutelare e implementare al pari delle stesse libertà.

Per cui anziché porre l’enfasi sulla riuscita scolastica o meno di ogni singolo alunno e organizzare il sistema dell’istruzione in funzione di questa, l’enfasi viene prioritariamente collocata nella riuscita dello Stato e del suo sistema scolastico a perseguire il successo formativo di ogni singolo alunno, assunto come risorsa su cui investire per l’avvenire economico, culturale e sociale dello Stato stesso, facendosi pienamente carico del valore del tempo di vita di ogni bambina e bambino, di ogni ragazza e ragazzo, al contempo rispondendo della qualità delle conoscenze trasmesse e della qualità del futuro su cui ognuno può contare, avendo accanto uno Stato amico, portatore dell’interesse per l’istruzione di ciascuno come interesse generale e collettivo.

 

III

E’ il tema dell’apprendimento permanente, o meglio, dell’apprendere perenne, senza sosta, dove le molteplici opportunità di conoscenze oggi offerte possono giungere alla sintesi delle competenze nei luoghi dello studio deputati a far incontrare, riconoscere e valorizzare i saperi formali, come quelli informali e non formali.

Ogni individuo diviene scolasticamente titolare dei suoi percorsi di studio anziché di un’età anagrafica che lo colloca nella classe corrispondente o che lo respinge in dietro, rifiutando di riconoscerla, qualora  il profitto sia negativo, costringendolo a identificarsi scolasticamente con uno stato che non possiede già  più.

Una sfida molto alta per le capacità della nostra scuola e del suo sistema. Si tratta di passare dalla programmazione per contenuti ed obiettivi di apprendimento alla individuazione delle serie di competenze che è necessario acquisire, attraverso un sistema a somma di crediti, per percorrere in progressione i diversi step definiti dai singoli statuti disciplinari per giungere a quella competenza “disciplinare” così come interpretata, ad esempio, da Howard Gardner nel suo Cinque chiavi per il futuro.

In una carriera scolastica pensata e organizzata per percorsi individuali di studio, al fine di valorizzare e investire sulle specificità personali, non ci sono bocciature, ma semmai sbarramenti; verrebbero temporaneamente preclusi i soli percorsi disciplinari per i quali non si sono ancora acquisite le competenze necessarie a proseguire negli studi.

Ognuno avrebbe da spendere per i propri progetti di vita la quantità di crediti acquisiti relativamente alle competenze disciplinari, sia per proseguire negli studi del nostro sistema formativo, sia per competere sul versante del mercato del lavoro.

Viene meno l’idea di una formazione globale e totalizzante, per la quale  è necessario acquisire la sufficienza un tutte le discipline dalla ginnastica alla musica, dall’educazione tecnica al disegno al fine di poter proseguire negli studi senza dover tutte le volte star fermo un giro come nel gioco dell’Oca.

Con ogni probabilità quell’idea di formazione è cosa di altri tempi. Occorre considerare che oggi i territori offrono opportunità di esperienze e di apprendimenti extrascolastici che occupano il tempo di vita dei nostri bambini e dei nostri ragazzi che non possono più a lungo essere ignorati nel computo degli apprendimenti e delle competenze individuali.

Non si capisce perché nella scuola italiana espressioni e strumenti come “Progetto di vita” e “Piano educativo individualizzato” debbano essere riservati ai solo alunni diversamente abili, come se ogni singolo individuo, a partire da noi stessi, non fosse di per sé diversamente abile e non avesse necessità per la sua piena riuscita di persone che lo affianchino e che gli assicurino sostegno.  Come se l’esperienza della migliore tradizione pedagogica non ci avesse già edotti, da Decroly alla Montessori, che ciò che è indispensabili per chi è certificato diversamente abile, tanto più lo è per chi è presumibilmente certificato come normo dotato.

Così come si procede, ancor prima dell’avvio dell’anno scolastico, negli incontri tra la scuola e i genitori alla redazione del PEI per gli alunni diversamente abili, altrettanto va realizzato per ogni singolo alunno  in modo da  procedere, tra la scuola e la famiglia, alla definizione del percorso scolastico in funzione dei crediti che si vogliono acquisire, attraverso la stesura di un compiuto piano di studi individuale, che si  traduca in un realistico contratto formativo, impegnativo per le parti che lo stipulano.

Non si tratta di tornare né alla personalizzazione né al portfolio di morattiana memoria, ma di tutelare il diritto all’istruzione, ad un’istruzione di alta qualità, di ogni singola ragazza e di ogni singolo ragazzo, di gestire i percorsi connessi ai loro progetti di vita in rapporto alle motivazioni, agli interessi e alle attitudini di ognuno, in relazione alle competenze già  acquisite e quelle ancora da acquisire, provvedendo ad un impiego ed a una organizzazione attenta ed efficace del loro tempo di vita quotidianamente investito sui banchi di scuola.

In questo quadro, la frequenza scolastica, la collocazione nella scuola di ognuno non sono più identificabili con la classe, ma esclusivamente dipendenti dal percorso di studi che ogni anno voglio portare a termine in funzione dei crediti disciplinari che per quell’anno scolastico mi sono prefissato di conseguire e che se non riuscirò a totalizzare nella loro globalità dovrò in parte mettere in conto nel piano di studi dell’anno successivo.

Ma se si perde la classe, architrave e perno di tutto il sistema scolastico italiano, che cosa succederà?

Non mi sembra che le nostre università, da sempre funzionanti attraverso la frequenza delle lezioni relative agli esami che si intendono sostenere, abbiano mai patito per l’assenza di classi.

Non credo neppure che ne patirebbe il nostro sistema scolastico, se decidessimo di organizzarne gli spazi per laboratori disciplinari e per crediti che si devono acquisire.

Certo assisteremmo ad uno spettacolo a cui nelle nostre scuole non siamo mai stati abituati,  vedere, cioè, spostarsi gli studenti, piccoli o grandi che siano, da un’aula all’altra, o meglio da un laboratorio disciplinare all’altro, in funzione dei crediti che devono acquisire come preordinato dal piano di studi individuale concordato tra la scuola e la famiglia.

Ma soprattutto si tratterebbe di una organizzazione del nostro sistema scolastico destinata a non porre più l’accento sui voti e sulle bocciature, sul fallimento dei singoli, bensì sul loro successo formativo, in quanto risorse preziose di uno Stato democratico che investe sulle giovani generazioni, avendo sempre di mira il proprio avvenire.

Uno Stato chiamato a rispondere alla sua comunità di come garantisce innanzitutto l’esercizio del diritto all’istruzione di ciascuno dei suoi giovani, qualunque sia la loro storia e provenienza, a rispondere della qualità del tempo scuola come tempo di vita di generazioni di bambine e di bambini, di ragazze e di ragazzi e, finalmente, della qualità delle competenze acquisite da ciascuno, certificandole attraverso un unico sistema nazionale  di misurazione e di valutazione.

 

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