L’eredità del Governo tecnico per la scuola

da Tecnica della Scuola

L’eredità del Governo tecnico per la scuola
di Anna Maria Bellesia
Alla faccia (di bronzo) di chi in campagna elettorale metteva sul piatto nuovi investimenti nell’istruzione! Chiusa la parentesi elettorale, in cui si è fatto a gara nel promettere “mari e monti”, si ricomincia con l’austerity che ci chiede l’Europa.
Riassumendo le ultime news, queste sono le sorti magnifiche e progressive per la scuola italiana e per chi ci lavora.

Operazione n. 1
: avanti tutta con la spending review. Stipendi congelati fino al 2014 per gli oltre 3 milioni di dipendenti pubblici (le retribuzioni sono ferme dal 2010 mentre tutto il resto è aumentato); nessuna possibilità di recupero di incrementi contrattuali eventualmente previsti a decorrere dal 2011; nessun riconoscimento dell’indennità di vacanza contrattuale anche per gli anni 2013 e 2014; per il personale della scuola, confermato il blocco degli scatti di anzianità anche per il 2013. E qualora si arrivasse ad un rinnovo contrattuale, ci saranno da “assicurare” livelli di produttività e di qualità adeguati ai fabbisogni. Insomma dietro l’angolo si intravede solo l’incremento del lavoro, ma non del salario. Lavorare di più, prendendo di meno, per tutta la vita: è la formula della realpolitik dell’attuale governo tecnico, che ci dovremo forse tenere ancora un po’.
Operazione n. 2: l’autofinanziamento. La scuola italiana ha bisogno di risorse: è necessario ridurre/abbattere la dispersione, personalizzare la didattica, innovare, aggiornare, potenziare l’autonomia, garantire un minimo di organico funzionale. Prima si è provato con le riforme epocali rigorosamente a costo zero (l’ultima delle quali è il previsto sistema nazionale di valutazione, dalla cui attuazione “non derivano nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica”). Adesso però ci rende conto che qualche euro in più bisogna metterlo. C’è una sola soluzione possibile per trovare le risorse: ridurre di un anno il percorso degli studi.
L’ipotesi è indicata come “priorità” dal ministro Profumo nell’Atto di indirizzo per il 2013, pubblicato il 28/2/2013, con la motivazione di “adeguare la durata dei percorsi di istruzione agli standard europei”. A fine gennaio erano trapelate le prime indiscrezioni circa le proposte studiate dalla Commissione incaricata dal ministro per rendere fattibile l’operazione. Inutile obiettare che in Europa meno della metà dei Paesi pone la terminalità degli studi a 18 anni, né osservare che il taglio di un anno del percorso scolastico comporta per forza livelli di competenza inferiore per gli studenti.
Non c’è argomento che tenga di fronte a quella montagna di risparmi calcolati in 1.380 milioni di euro nel giro di qualche anno. Ancora una volta la scuola finanzia se stessa. Nell’Atto di indirizzo è scritto chiaro e tondo: “Occorre superare la maggiore durata del corso degli studi in Italia procedendo alla relativa riduzione di un anno in connessione anche alla destinazione delle maggiori risorse disponibili per il miglioramento della qualità dell’offerta formativa, ampliando anche i servizi di istruzione e formazione”. Liberare risorse è insomma l’unico modo per reinvestirle.
Missione incompiuta. Intanto, dopo oltre un anno di governo tecnico “salva-Italia”, il popolo italiano è sempre più stremato dalla crisi e pessimista. Di fronte ai numeri di chi mensilmente perde il lavoro (110mila unità nel solo mese di gennaio), avere uno stipendio pur bloccato dal 2010 è diventato un privilegio più che un diritto. I giovani, con o senza titolo di studio, il lavoro non lo trovano: il 38,7% è senza, gli altri si adattano a lavori a tempo determinato o a part time. Avere una laurea serve meno che avere il solo diploma.
Le indagini economiche e sociali (Censis – Eurispes) fotografano un Paese in cui il fronte ufficiale del disagio profondo è arrivato a coinvolgere circa 16 milioni di persone. I ceti medi, sui quali si fondava fino a qualche anno fa l’economia del nostro Paese, sono “in caduta libera” verso l’impoverimento e la proletarizzazione. Sta crescendo una “insoddisfazione senza precedenti nella storia recente italiana”, dicono gli analisti. E l’abbiamo visto nel voto. Una situazione sempre più difficile da governare.