Sì ai cellulari in classe La svolta «fai da te» della scuola americana

da Corriere della sera

Sì ai cellulari in classe La svolta «fai da te» della scuola americana

di CARLO FORMENTI

Fino a poco fa all’ingresso di molte scuole americane era affisso il seguente avviso: vietato introdurre cellulari. Al suo posto campeggia ora la sigla BYOT — bring your own technology — che sarebbe scorretto tradurre con «portate pure i vostri gadget», perché non si tratta di una concessione, bensì di una direttiva: agli studenti viene esplicitamente prescritto di entrare in classe corredati di smartphone, tablet e, nel caso — improbabile, vista l’enorme diffusione di questi dispositivi fra i giovanissimi — ne fossero sprovvisti, sono ammesse perfino le play station. Perché questa svolta di centottanta gradi? La ragione di fondo è — banalmente ma non troppo, visti i tempi di crisi in cui viviamo — economica: molte scuole non hanno fondi sufficienti per ottemperare alle nuove direttive didattiche, le quali prevedono che ogni studente sia dotato di dispositivi per potersi connettere, fare ricerche in rete, interagire con i docenti e i compagni, ecc. Com’è noto, questa conversione della scuola alle tecnologie digitali ha suscitato vivaci polemiche (non solo negli Stati Uniti, dove la svolta è in atto da tempo, ma anche da noi, dove si prospetta imminente) fra favorevoli e contrari. I primi si dicono convinti che non abbia senso affliggere i giovani con metodi di apprendimento obsoleti e del tutto estranei al loro modo di interagire e comunicare. I contrari — che fra gli insegnanti sono la maggioranza, secondo due ricerche condotte qualche mese fa dalle società Pew Internet Project e Common Sense Media — sostengono che la massiccia immersione dei ragazzi in ambienti digitali ne ha drasticamente ridotto le facoltà di memorizzazione e concentrazione e, quel che è peggio, la capacità di analizzare criticamente e in profondità la realtà. Molti si sono lamentati del fatto che, ormai, per riuscire a catturare un minimo di attenzione dai propri allievi, sono costretti a compiere vere e proprie performance attoriali. Gli ottimisti ribattono che, in compenso, grazie all’uso dei nuovi media, gli studenti hanno enormemente potenziato la capacità di cercare e trovare autonomamente le informazioni e le conoscenze necessarie a risolvere i compiti e i problemi che vengono loro assegnati. Tenuto conto di quest’ultima considerazione, l’idea di delegare al «fai da te» di ragazzi e famiglie il compito di aggiornare gli strumenti tecnologici della didattica sembrerebbe destinata a incontrare non solo l’approvazione degli amministrativi — attenti ai problemi di bilancio — ma anche quella del corpo docente. Invece le cose non stanno così; al contrario: questa novità genera non poche perplessità anche da parte dei fautori dell’innovazione. Una cosa, hanno argomentato alcuni docenti universitari di computer science e scienze della formazione intervistati dal New York Times, è far lavorare gli studenti su programmi di apprendimento standard, appositamente studiati per consentire di misurare e mettere a confronto i risultati, altra cosa è lasciare che si arrangino usando strumenti e applicazioni diverse. Ne potrebbero derivare non poche insidie: sconvolgimento dei curricula, difficoltà di appurare se gli obiettivi vengono raggiunti, possibilità che l’uso di tecnologie differenti generi sperequazioni, per tacere del rischio che il gioco si sostituisca del tutto all’apprendimento, invece che agevolarlo. Il succo di questi ammonimenti è che l’imperativo a risparmiare a ogni costo può causare pesanti effetti negativi, quando sono in ballo interessi vitali come la formazione delle nuove generazioni; una lezione che le università italiane, sottoposte a ripetuti tagli di risorse, hanno imparato a loro spese.