Tecnologie e metodologie nel mondo che cambia

Tecnologie e metodologie nel mondo che cambia

di Stefano Stefanel

         Due recenti interventi apparsi su educationduepuntozero.it hanno messo l’accento sull’utilizzo delle tecnologie nella didattica ordinaria della scuola italiana. Sia Cellulari per l’apprendimento di Daniele Pauletto (18 marzo 2013), sia La sfida dei nativi digitali di Arturo Marcello Allega (6 marzo 2013) vanno nella stessa direzione che in più parti ho avuto modo di evidenziare (a cominciare da Chi paga le classi 2.0 pubblicato su Dirigere la scuola n° 12/2012), ma che  continua a rimanere minoritaria nonostante l’evolversi tumultuoso dei tempi. Credo non sia più in  discussione l’importanza di armonizzare nelle scuole italiane l’utilizzo della carta con quello delle tecnologie, ma sta diventando sempre più necessario velocizzare il rapporto organico con le tecnologie. Sia pure con lentezza le scuole si stanno adeguando all’evolversi dei tempi, molto tumultuosi anche per l’estrema velocità con cui le trasformazioni travolgono le tecnologie. Tutto diventa obsoleto in fretta ed il commercio fa scendere i prezzi per far salire la domanda. In tutto questo muoversi della tecnologia diventa difficile tenere immobile la metodologia.

Il punto cruciale del percorso che stiamo vivendo è un punto che in Italia non vogliamo affrontare in  forma sistematica e che sta penalizzando il nostro sistema dell’istruzione rispetto a quelli di altri paesi dell’area Ocse. Riguarda l’utilizzo della tecnologia di proprietà dello studente o del docente in forma ordinaria nell’ambito dell’attività didattica. Su questo argomento ci si sta interrogando in varie parti del mondo perché propone problematiche non da poco in relazione all’influenza che le tecnologie non controllate possono portare ad ogni corretta metodologia di apprendimento.

Le forme persecutorie sull’utilizzo personale dei messi di comunicazione durante l’orario scolastico spesso sfociano nel patetico tentativo di fermare il tempo e di contrastare l’espandersi dell’uso della tecnologia nella vita sociale attraverso meccanismi di controllo che da un certo momento storico in poi non sono stati più padroneggiati neppure dalla Stasi o dal Kgb o dalla Cia. Il sorvegliare e punire applicato alla tecnologia mostra la sua debolezza, perché la massa di azioni (twet, post, sms, ecc.) che sfuggono ad ogni controllo è proporzionale all’assoluta mancanza di interesse di moltissime di queste. Perché controllare tutto quello che viene scritto e lanciato nel web se quasi sempre è privo di alcun interesse? Il mondo della comunicazione è diventato una sorta di pattumiera delle frasi fatte e dei messaggi privi di lettori, in una sorta di quaderno generale dei sentimenti esercitati senza mediazione. Tutto questo incide e si intromette con l’apprendimento dei ragazzi, ma sta fuori dall’insegnamento. Ed è un problema grave, perché l’insegnamento troppo lontano dalla realtà è un apprendimento non efficace.

Quello che stupisce è constatare come venga ritenuto normale utilizzare quaderni, diari o altra carta di proprietà personale, mentre venga ritenuto pericoloso organizzare una forma ordinaria di utilizzo della multimedialità di proprietà. Per far diventare la Scuola 2.0 lo stato dovrebbe acquistare almeno otto milioni di tablet o smartphone diventando proprietario di tecnologia di dare in comodato che dopo poco sarebbe già obsoleta.  Ritengo che la soluzione più semplice sia quella di prendere atto che i nativi digitali hanno bisogno di imparare a utilizzare il web in forma didattica e a gestire un archivio on-line. In questo momento, infatti, la cosa che stupisce maggiormente è questo “statalismo di ritorno” che unisce docenti e studenti, per cui si ritiene che sia lo stato a dover acquistare e distribuire tecnologie che già ognuno possiede. Anche il ragionamento sulle disparità sociali che nascono dalla tecnologia ormai non può più avere cittadinanza, perché un soggetto che non è in grado di connettersi sempre e con facilità ha problemi di socialità elevati, che non possono non ripercuotersi sul suo curricolo scolastico. La mancanza di connettività è un grave ostacolo anche per il mondo del lavoro, sia quello che già c’è, sia quello che deve essere inventato. Come può la scuola far credere che al giorno d’oggi si può vivere ed avere delle possibilità lavorative anche senza potersi connettere? Sarebbe importante stimolare le connessioni positive, far capire ai ragazzi gli spazi del web, cementare una vera cultura archivistica, costruire strutture solide di dati e conoscenze. E tutto questo rende ancora più necessaria la scuola, ma proprio quella 2.0.

Il rapporto tra tecnologia e metodologia non può essere considerato come un elemento extra-curricolare o addirittura extra-scolastico, in quanto quel rapporto condiziona tutto il meccanismo degli apprendimenti. Non siamo di fronte a semplici opzioni metodologiche, ma al tentativo implicito di ritardare l’avvento delle tecnologie nella didattica attraverso metodi repressivi inefficaci e privi di consistenza. Invece di insegnare a utilizzare lo strumento, se ne vieta il “possesso” durante una parte della giornata, creando un’altra scissione tra la vita e la scuola. Con esiti sempre più deludenti. E’ necessario integrare tecnologia e didattica dentro il curricolo ed evitare che il mare di carta da cui siamo sommersi si trasformi a breve in PDF illeggibili perché troppo dilatati. Nell’ambito della tecnologia utilizzata per l’apprendimento diventa fondamentale l’ambiente, che non è mai neutro e che con l’ingresso del web nella scuola assume connotazioni sempre più complesse. Franco De Anna ha redatto di recente un rapporto molto interessante sui primi tre anni di esperienza italiana di classi 2.0 (Monitoraggio progetto cl@ssi 2.0. 2009-2012). Credo che il rapporto della sua esperienza di ispettore sia ancora anonimo, mentre penso dovrebbe essere letto da tutti quelli che stanno lavorando in questa direzione.