Futuro confuso

Futuro confuso

di Stefano Stefanel

La scuola italiana vive da molti anni un periodo estremamente confuso, con troppe riforme mal gestite e peggio realizzate e una costante turbolenza su qualsiasi argomento. La ricerca e l’innovazione sono diminuite, i risultati Ocse-Pisa rimangono deludenti, l’Invalsi certifica un’Italia scolastica a troppe velocità. Non c’è accordo su quasi nulla ed ogni provvedimento è costretto a defatiganti azioni di convivenza con quello che c’era prima e che viene difeso a qualunque costo. La scuola è però viva, piena di ottimi professionisti, disorientata ma non rassegnata, stanca di riforme ma in attesa di nuove riforme. Insomma una situazione difficile da governare, dove l’autonomia convive con il centralismo e le tendenze manageriali con l’assemblearismo. Alcuni dati però sono certi e inoppugnabili: l’Italia è uno dei paesi col più basso tasso di Pil investito nella scuola e gli investimenti italiani nella scuola sono diminuiti negli ultimi anni. Non sembra difficile ritenere che questa tendenza deve essere invertita e gli investimenti sulla scuola sono necessari e fondamentali, anche come semplice dato di civiltà.

         Il problema sorge quando ci si deve mettere d’accordo su dove e come investire e la somma di tutte le proposte ascoltate nella recente campagna elettorale finisce per rendere necessari almeno una mezza dozzina di punti di Pil. Siamo di fronte ad una “missione impossibile”. Durante la recente terribile campagna elettorale si sono lette queste proposte:

–       stabilizzare circa 300.000 precari

–       assumere neo laureati (50 mila circa)

–       mettere in sicurezza tutte le scuole (40 mila circa)

–       dotare studenti e docenti di tablet o smartphone a spese dello stato (8 milioni di pezzi circa)

–       generalizzare il tempo pieno nelle scuole primarie

–       trasferire i residui attivi accertati dalle scuole ma non confermati dal Miur

Ho citato solo alcune voci, ma chi conosce un po’ la scuola sa che non siamo di fronte a qualcosa di realistico. E, infatti, a campagna elettorale conclusa della scuola non si parla più, i “saggi” di Napolitano non mi pare l’abbiano neppure nominata e il Sistema Nazionale di Valutazione si appresta a partire sulla scuola così com’è.

 

QUELLA FRASE NASCOSTA E SIGNIFICATIVA

         Il rapporto Eurydice Funding of Education in Europe. The Impact of the Economic Crisis  (http://eacea.ec.europa.eu/education/eurydice/documents/thematic_reports/147EN.pdf) mette in evidenza in modo indiscutibile il calo della spesa dell’Italia per l’istruzione in rapporto con la crescita o la stabilizzazione della stessa spesa in tutti I paesi dell’area Ocse. Ad un certo punto del rapporto troviamo però questa frase: “the noticeable decrease in total public expenditure in Italy after 2008 is mainly due to the decision (Law 133/2008) to make national public spending more efficient, and to retrospective payments made in 2008, which did not corresponded to that fiscal year”. Il rapporto Eurydice sostiene dunque che l’Italia ha tagliato la spesa sulla scuola solo per poter tagliare gli sprechi. Non entro nel merito della polemica, che ormai ha più di cinque anni, poiché da una parte si sostiene che questi tagli sono stati “selvaggi” e hanno impoverito il sistema, dall’altra si sostiene che erano necessari per tenere in piedi il sistema Italia e che hanno toccato solo evidenti sprechi. Mentre dunque è certo che c’è stato un decremento della spesa, non è altrettanto certo se questi tagli abbiano indebolito la scuola, visto che i risultati nel complesso rimangono negativi. Certa è invece la reazione della scuola ad ogni sollecitazione: mantenere il più possibile inalterato il sistema nel suo complesso. Si chiedono riforme, ma poi appena ne arriva uno si cerca di conservare tutto.

 

FINLANDIA LONTANA

Un recente articolo apparso su La Repubblica (Helsinki, la scuola perfetta. Libri gratis e nessun bocciato, 3 aprile 2013) ha cercato di evidenziare gli elementi più caratterizzanti della scuola finlandese, modello planetario di buona scuola. Il problema è che la scuola finlandese ha alcuni elementi così lontani dalla nostra organizzazione che paradossalmente mostrano che se loro sono primi noi non possiamo che essere ultimi. Prendendo spunto da quell’articolo (che conferma quanto ho potuto vedere di persona durante una Studyvisit a Jyväskylä nella Finlandia centrale) possiamo isolare questi elementi della scuola finlandese:

–       7,2% è la percentuale di Pil investito nella scuola

–       la Finlandia è al 1° posto in tutte le prove Ocse-Pisa (che lassù nessuno contesta)

–       in Finlandia non si boccia (è lo studente che può chiedere di rimanere un anno in più a scuola)

–       in Finlandia si incomincia scuola a 7 anni e si finisce a 18 anni

–       3.000 ore so quelle che i bambini/ragazzi finlandesi fanno in meno di quelli italiani nel segmento 7-14 anni

–       le tasse scolastiche sono di circa 80 euro l’anno per tutti

–       le classi non sono rigide fino a 14 anni, poi non ci sono più

–       gli insegnanti vengono scelti, assunti e licenziati da chi dirige la scuola

–       le scuole possono attivare e sopprimere materie

–       tutti gli studenti studiano secondo un piano personalizzato

–       tutte le scuole sono ipertecnologizzate, ma gli studenti possono utilizzare i propri strumenti multimediali per studiare

–       i libri sono gratuiti per tutti (ma sono pochi)

–       non c’è il personale ata, ma strutture di servizio definite dalle singole scuole.

Mi fermo qui perché il ragionamento che ritengo sia necessario fare riguarda proprio i due elenchi che ho fatto in questo articolo. Gli investimenti sulla scuola italiana devono ripartire perché un paese serio, ma in difficoltà, non può non capire che solo la scuola può fargli risalire la china. Ma le due agende non sono compatibili: quella finlandese racconta di una scuola che vuole essere servizio, quella italiana che vuole essere posto di lavoro. Su questo punto bisogna decidere.