I paradossi del referendum bolognese

I paradossi del referendum bolognese

di Giancarlo Cerini [1]

 

Se la somma continua a fare “zero”

Gli esiti del referendum bolognese sui finanziamenti pubblici (comunali) alle scuole dell’infanzia paritarie lascia le cose (quasi) come prima. E’ probabile che il Comune di Bologna mantenga il proprio (modesto) sostegno alle scuole private (1 milione di euro, rispetto ai 36 investiti nelle proprie strutture pubbliche), che “pesa” meno del 10% del costo pro-capite di un alunno della scuola paritaria). E’ possibile che restino le liste d’attesa dei bambini che chiedono invano un servizio statale o comunale (paradosso di una regione che già oltre 30 anni fa aveva raggiunto la piena scolarizzazione per la fascia di età tra i 3 e i 6 anni). Infatti è quasi certo – a meno di svolte negli indirizzi politici nazionali – che lo Stato non interverrà per “sanare” un deficit di offerta di servizi educativi statali.

I referendari potranno gioire pensando di aver vinto una battaglia (almeno) di principio, ed è certo così; ma lo schieramento “avverso” potrà dire che il 28% dei votanti non è tale da poter sconvolgere una linea politica e pedagogica (quella del sistema integrato pubblico-privato) che trova ampio consenso di opinione pubblica e consente di garantire elevati standard di qualità, assicurando comunque la centralità del servizio pubblico, che a Bologna veleggia sul 77% di copertura, rispetto al 68% nazionale, proprio in virtù dello storico intervento del Comune.

Eppure qualche scricchiolio si avverte nel sistema locale e nazionale della scuola dell’infanzia. I vincoli di bilancio non consentono di far fronte alla domanda crescente di scuole per i piccoli. I costi, anche per gli utenti, si stanno elevando ed allontanano famiglie e bambini da un servizio che ormai consideravamo un diritto universale…

 

La scuola materna statale: “vorrei ma non posso”

Lo Stato da alcuni anni non ha più un proprio piano di sviluppo di nuove istituzioni (ed il caso è clamoroso anche a Bologna) e quando estende il servizio assegna solo metà del personale necessario per far funzionare a pieno tempo una sezione: sono centinaia le sezioni a turno antimeridiano in Emilia-Romagna, Toscana, Marche, che riducono l’ampiezza del servizio e costringono ad organizzazioni stiracchiate anche ricorrendo ad apporti esterni (finanziamenti locali, cooperative, ecc.). Manca una regia nazionale della scuola dell’infanzia statale, dopo la stagione gloriosa del “Servizio scuola materna” operante presso il MIUR nel trentennio 1970-2000; langue la formazione del personale docente e non è detto che le pur meritevoli Indicazioni per il curricolo/2012 siano capaci di accendere la scintilla di un rilancio pedagogico della scuola dell’infanzia statale.

Tab. 1 – Scuole dell’infanzia e alunni per tipo di gestione. A.s. 2009-2010

  Totale Scuole

statali

% Scuole paritarie pubbliche % Scuole

paritarie

private

%
Scuole      24.221   13.553 56,0     1.841     7,6     8.094    33,4
Alunni 1.680.987 993.226 59,1 153.031     9,1 501.668    29,8

Fonte: MIUR, La scuola in cifre 2009-2010, Sistan, Miur, 2010.

 

Le antiche virtù della scuola comunale

Per i Comuni gli scenari non sono migliori. La legge non considera le specificità del settore educativo, per cui il personale docente soggiace ai vincoli di bilancio ed alle ferree regole del patto di stabilità (che, ad esempio, impediscono di sostituire i dipendenti in pensione e di stabilizzare il personale precario). E’ però evidente che la scuola non è equiparabile ad un mero servizio amministrativo e questo vincolo (se non rimosso) potrebbe costringere molti Enti Locali a dismettere la gestione diretta delle scuole, considerandole un onere improprio e non la testimonianza di un patrimonio storico-pedagogico di inestimabile valore, come dimostra -ad esempio – l’esperienza di Reggio Emilia.

Occorrono decisioni legislative conseguenti, per evitare che i Comuni siano piegati obtorto collo verso soluzioni e istituzionali (come il passaggio dalla gestione diretta municipale a quella tramite “istituzioni” o “aziende di pubblico servizio”, che lasciano l’amaro in bocca e a molti appaiono  l’anticamera della privatizzazione, con la possibile trasformazione degli enti gestori in Fondazioni o addirittura in Società per Azioni.

La presenza di un segmento comunale (che oggi è pari a circa il 9,1% del settore con 1.841 scuole) è indice di pluralismo e di vitalità, anche per mantenere aperte interessanti orientamenti pedagogici, come quelli legati alla prospettiva “0-6 anni” di forte attenzione ai temi della cura educativa, della relazione, dell’identità, della gradualità e “lentezza” dei processi di crescita. Bene hanno dunque fatto alcuni Comuni, come quello di Napoli, che hanno forzato al massimo l’interpretazione della norma per consolidare i  propri servizi educativi e stabilizzare il personale.[2]

 

Il privato “sociale” per l’infanzia

Il settore privato ha un suo posizionamento storico, esprime una presenza valoriale legata a comunità parrocchiali o ordini religiosi, e mantiene – nel settore dell’infanzia (e primaria) – una forte caratterizzazione sociale e popolare, diversamente da altri comparti del settore paritario che esibiscono un più marcato carattere elitario quando non spiccatamente mercantile. La legge sulla parità, la n. 62/2000 (cd. Berlinguer), ha imposto l’esigenza di garantire alcuni standard di funzionamento, pari a quelli previsti dallo Stato (ad esempio in materia di organico del personale, di numero massimo di allievi, di forme di sostegno e di coordinamento pedagogico). La quota finanziaria che lo Stato eroga alle scuole paritarie, non è dovuto, ma rappresenta il riconoscimento del contributo del sistema paritario all’ampliamento dell’offerta formativa di scuole dell’infanzia (e primarie). Tuttavia, i gestori  delle scuole paritarie vorrebbero che dal riconoscimento della parità, ne venisse anche una sorta di copertura finanziaria integrale al funzionamento della scuola privata.

 

Pubblico e privato nell’immaginario giuridico e “mediatico”

Quella del finanziamento dello Stato ai privati non era la questione in gioco a Bologna (il quesito referendario verteva su un modesto e supplementare finanziamento comunale alla scuola paritaria privata), ma vale la pena sintetizzare alcune considerazioni[3]:

a) il sistema paritario non è tout court pubblico, perché – come afferma la legge 62/2000 – esso si articola in scuole paritarie pubbliche (come ad esempio quelle degli enti locali) e scuole paritarie private (come ad esempio quelle degli ordini religiosi e delle comunità parrocchiali);

b) il sistema è sì integrato, ma la legge lo denomina “sistema nazionale di istruzione”, non pubblico; anche se riconosce alle scuole paritarie lo svolgimento di una funzione pubblica, qualora rispetti determinati requisiti (soggetti a controllo da parte dello Stato). La parità attrae il privato nella sfera pubblica, ma non fino ad annullarne le differenze;

c) c’è dunque una differenza pubblico-privato che non può essere sottaciuta, ad esempio nella facoltà concessa ai gestori di “testimoniare” senza remore la propria identità e ispirazione spirituale (infatti le scuole paritarie devono dotarsi di un proprio PEI – progetto educativo di istituto – formula ricompresa invece, per le scuole statali, nel concetto di POF previsto dal regolamento sull’autonomia scolastica);

d) lo strumento della convenzione pubblico-privato è importante per ampliare le opportunità, tuttavia se ad un genitore che chiede la scuola statale o comunale, si offre come equivalente la scuola privata (anche se a prezzi calmierati) si compie una forzatura (e questo certamente potrebbe avvenire a Bologna per smaltire le liste d’attesa). Insomma, educare non è come sottoporsi ad una radiografia…

 

A Bologna, dopo A e B, occorre C

Ecco perché il referendum bolognese lascia le cose invariate: riconferma le posizioni di principio (pubblico è diverso da privato, e la gente è affezionata a tale distinzione), richiede di aprire sezioni statali e comunali, ma se tutto ciò si fa a somma zero (cioè togliendo i pochi fondi al sistema paritario), si finisce con il danneggiare un’altra parte dell’utenza che dovrà pagare rette più elevate, soprattutto l’utenza più popolare, come ricorda l’economista della sussidiarietà Stefano Zamagni.

Insomma, al di là  di A e B (cioè si o no ai finanziamenti pubblici) che incrociano inutilmente i ferri, servirebbe una ipotesi C, come ho scritto altrove[4], cioè un consistente aumento delle risorse a disposizione dell’intero sistema educativo prescolastico. In tal modo si potrebbe rispettare il principio della libertà di scelta dei genitori, tenendo conto della previsione costituzionale per cui la Repubblica ha l’obbligo di istituire scuole statali per “ogni ordine e grado” dell’istruzione.

 

Ce lo chiede l’Europa…

Occorre dunque riprendere il filo delle politiche pubbliche verso l’educazione dell’infanzia, come ci prescrivono ormai da molti anni l’Unione Europea e l’OCSE. Nei documenti internazionali si osserva un processo di avvicinamento dei segmenti 0-3 e 3-6, sotto la comune dicitura di ECEC (cioè educazione e cura per l’infanzia) per rimarcare il nesso inscindibile tra crescita, benessere, sviluppo sociale e apprendimento.

L’Europa ha indicato, in ET 2020, il benchmark strategico del 95% di scolarizzazione per i bambini dai 4 anni fino all’accesso all’istruzione primaria (obiettivo già raggiunto dall’Italia, ma che ora è messo a rischio) ed il 33% di copertura del servizio educativo per i bambini da 0 a 3 anni (e qui siamo lontanissimi, addirittura al di sotto del 50% dal traguardo). Nella Direttiva 66/2011 della Commissione Europea si ricorda che l’investimento nell’educazione della prima infanzia è garanzia di coesione sociale e democratica e di pari opportunità [COM (2011) 66 del 17-2-2011 – “Educazione e cura della prima infanzia: consentire a tutti i bambini di affacciarsi al mondo di domani nelle condizioni migliori”]. La direttiva impegna i paesi membri ad adottare politiche conseguenti, inserendole nella prospettiva del contrasto alla dispersione, da ridurre al di sotto del 10% (attualmente in Italia al 18%), e della emancipazione dalle condizioni di povertà. Il documento europeo presta particolare attenzione anche alla questione dei costi (più elevati se i servizi sono privati) e dell’efficacia dei finanziamenti, auspicando un “giusto equilibrio tra investimento pubblico e privato”, mentre sul modello pedagogico raccomanda un profilo educativo capace di “soddisfare il complesso delle esigenze dei bambini (cognitive, affettive, sociali e fisiche)”, anche grazie alla collaborazione interistituzionale, al coinvolgimento dei genitori e, soprattutto, alla qualificazione del personale.

 

..e l’OCSE ci ricorda che…

Di tenore simile sono le previsioni contenute nei Report dell’OCSE pubblicati negli ultimi anni, con una serie di documenti – denominati “Starting Strong” (“Partire alla grande”) – dedicati in maniera specifica proprio alle politiche educative per l’infanzia. Policy è un termine intraducibile in lingua italiana perché non si riferisce ad un generico impegno politico, ma ad azioni puntuali che si traducono in regolamentazioni, direttive, risorse dedicate, verifiche dei risultati. In Italia abbiamo poche policies (azioni politiche) e molta politica (e oggi tanta anti-politica) proprio per questa carenza nelle azioni concrete che danno un seguito alle idealità e ai progetti[5]. Disponiamo in genere buone leggi, ma ci manca poi la capacità di darvi attuazione, con impatti differenziati da regione a regione (e questo è ancora più vero per la scuola dell’infanzia e gli asili nido).

Il più recente paper dell’OCSE, Starting Strong III,[6] raccomanda ai paesi membri di:

– mettere al centro degli impegni la qualità degli obiettivi e delle regolamentazioni;

– definire e sviluppare standard educativi e curricolari;

– migliorare la qualificazione, la formazione e le condizioni di lavoro del personale;

– coinvolgere maggiormente le famiglie e le comunità locali.

Visti dall’osservatorio italiano questi punti dovrebbero convincere a riprendere la felice stagione degli investimenti sui servizi educativi, attraverso politiche espansive più efficaci. Altre ricerche OCSE attestano che i paesi che sono stati capaci di dedicare maggiori risorse all’educazione dell’infanzia ne hanno tratto un beneficio diretto, ad esempio nei migliori livelli di apprendimento registrati a 15anni (una “buona” scuola dell’infanzia vale +53 punti Pisa, dieci anni dopo)[7].

 

Una volta tanto, se ce lo chiede l’Europa (ma anche la comunità internazionale), facciamolo!



[1]    Giancarlo Cerini è direttore di “Rivista dell’istruzione”, il bimestrale edito da Maggioli dedicato ai temi dell’istruzione e della governance del sistema educativo. Nel numero 4/2013 (luglio-agosto 2013) verrà dedicato ampio spazio a dati, commenti e orientamenti in materia di servizi educativi per l’infanzia, con interventi di G.Cerini, L.Campioni, F.Cremaschi, G.Zunino, S.Benedetti, L.Lega e altri.

[2]    La Corte dei Conti ha riconosciuto la correttezza del comportamento del Comune di Napoli nell’assunzione di 300 docenti a tempo determinato, per poter garantire la continuità del servizio educativo. Tra le (dure) ragioni della spending review (patto di stabilità) e il diritto all’educazione da salvaguardare, così come previsto dalla Costituzione, ha scelto quest’ultimo principio (da una comunicazione di Anna Maria Palmieri, Assessore all’istruzione del Comune di Napoli).

[3]    Un’analisi del profilo giuridico delle scuole non statali è riportata nella voce “parità” (curata da G.Cerini) in S.Auriemma (a cura di), Repertorio 2013. Dizionario normativo della scuola, Tecnodid, Napoli, 2013.

[4]    G.Cerini, Referendum a Bologna, i finanziamenti alle scuola tra proposta A e opzione B,  in www.leggioggi.it (24-5-2013).

[5]    Una rigorosa analisi dei miti e dei riti della politica scolastica italiana è compiuta da M.G.Dutto, Acqua alle funi. Per una ripartenza della scuola italiana, Vita e Pensiero, Milano, 2013.

[6]    Starting Strong III: A Quality Toolbox for Early Childhood Education and Care, 2012, Executive Summary.

[7]    OECD (2012), Education Today 2013: The OECD Perspective, OECD Publishing