Disabilità, il nodo dell’accertamento

Disabilità, il nodo dell’accertamento: le tre vie di una riforma necessaria

C’è chi vorrebbe passare tutto a regioni e Asl e chi spinge per lasciare all’Inps le competenze nazionali: ma per cambiare un sistema complesso e burocratico ci vuole tempo e volontà. Oltre a svariati miliardi di euro da ripensare

da Il Redattore Sociale
31 gennaio 2014 – 11:26

ROMA – Che si debba cambiare, sono tutti d’accordo: troppo complicato e burocratico il sistema attuale sul riconoscimento e la certificazione della condizione di disabilità, che fra normative diverse, moduli e visite mediche fa penare i cittadini e non solo loro. Sul come cambiare, però, la discussione è aperta, perché se da un lato è cosa buona e giusta avvicinare il processo di valutazione al livello regionale, che poi è quello di effettiva erogazione dei servizi socio-sanitari e socio-assistenziali (quindi verso le regioni e le Asl), dall’altro il rischio è che ciò possa aumentare le disuguaglianze e le disparità fra i cittadini a seconda del loro luogo di residenza. Al punto che alcuni (le associazioni della Fand in testa) preferirebbero che rimanesse, e proprio in capo a quell’Inps che per altri versi si vorrebbe invece abbandonare, l’assegnazione di una misura unica a livello nazionale, uguale per tutti, come oggi è l’indennità di accompagnamento. La discussione sulla riforma dell’accertamento ha avuto un’accelerazione con il Piano d’azione biennale redatto dall’Osservatorio nazionale e adottato dal Consiglio dei ministri, ma ancora oggi manca però un passo decisivo: definire il risultato da raggiungere e la scadenza temporale entro cui farlo.

Oggi: un sistema complicato. Spiega Carlo Francescutti, esperto di valutazione e classificazione internazionale delle disabilità, dirigente all’Agenzia regionale della sanità della regione Friuli Venezia Giulia, membro dell’Osservatorio nazionale sulla disabilità e fra i partecipanti al gruppo di lavoro sul tema alla Conferenza nazionale di Bologna del luglio scorso, che “la questione è molto sentita perché il sistema italiano è davvero complicato”. E lo è non solo a livello nazionale (si pensi alle tante normative, invalidità civile 118/71, certificazione handicap 104/92, integrazione lavorativa 68/99), ma anche a livello regionale, con tanti diversi sistemi di valutazione, così che fra doppie e triple visite, mesi e mesi di attesa, e via dicendo, “può capitare – dice Francescutti – che una persona con disabilità debba passare quattro o cinque livelli di valutazione per arrivare a comporre il paniere dei servizi e benefici a lui garantiti”. “C’è quindi – spiega – un coro unanime che chiede di semplificare il quadro amministrativo burocratico”.

Come si cambia. Cosa e quanto cambiare, però, è il punto delicato. Anche perché si tratterebbe di un processo inevitabilmente lungo e niente affatto agevole. Per semplificare, gli schieramenti in campo sono due. Da un lato c’è chi ritiene che le competenze sull’accertamento debbano essere portate al sistema sanitario, quindi ad Asl e regioni, senza il coinvolgimento dell’Inps; dall’altro c’è chi invece fa notare che, poiché nel nostro sistema di welfare (soprattutto per gli interventi assistenziali) non esistono dei livelli minimi di assistenza, e il rischio di grandi differenze regionali è altissimo, possa essere sensato mantenere un doppio livello, prevedendo che alcune cose debbano essere garantite a tutti a livello nazionale. Questa seconda ipotesi, appoggiata soprattutto dalle associazioni della Fand, prevede che vi sia una sorta di livello essenziale, e che esso sia ancora gestito dall’Inps. Di fatto, si tratterebbe di prevedere uno strumento come oggi è l’indennità di accompagnamento, che al momento (pur con tutti i suoi limiti) è l’unica misura universale garantita a chi è non autosufficiente. Il rischio di una tale ipotesi – fanno notare i sostenitori dell’altra opzione – è però un sistema in cui regioni e enti locali sono erogatori dei servizi ma chi governa gli accessi è un ente nazionale che si occupa di previdenza: cosa che, per la verità, viene esclusa da tutti. “Nessuno – precisa Francescutti – vuol tenere in piedi i circuiti ridondanti e nessuno pensa che la porta ingresso per i sistemi di welfare regionali debba essere un istituto, l’Inps, che si occupa di previdenza”. E infatti le stesse associazioni della Fand “non pongono alcun problema a che tutto il sistema di accesso ai servizi (e cioè le valutazioni legate alla progettazione personalizzata, all’erogazione dei servizi residenziali e semiresidenziali, ai servizi di integrazione lavorativa, e via dicendo) sia il più possibile portata vicino al sistema di erogazione”. Rimane però il nodo di una misura minima valida per tutti.

La terza via. In questo quadro, potrebbe risultare vincente una terza via, intermedia fra le due, in qualche modo ipotizzata dal presidente della Conferenza delle regioni Vasco Errani durante la conferenza di Bologna del luglio scorso. “Errani ha aperto ad un nuovo patto Stato-Regioni proprio sui livelli essenziali di assistenza, ipotizzando anche una sperimentazione in alcuni territori: non più un doppio sistema, nazionale e regionale, ma un unico sistema derivato però da un patto fra Stato e regioni e in cui ci sia un nucleo garantito di servizi e benefici per tutti, che faccia da base minima e su cui, poi, possono innestarsi le varie differenze regionali”.

Volontà politica. Quale che sia, per perseguire una qualsiasi via c’è bisogno di un confronto ampio e orientato: “Il dibattito vero su una riforma ampia – dice Francescutti – non è ancora partito, ci sono stati momenti importanti di approfondimento ma manca una cornice definita e la volontà di raggiungere un risultato entro un tempo definito”. Insomma, i segnali giunti dalla Conferenza nazionale, anche dal governo, saranno anche positivi e qualcosa in questi ultimi tempi è certamente maturato, ma passare dal dire al fare è questione diversa. Che chiama in causa anche la forza di un governo e la sua capacità di orientare il dibattito.

Il nodo indennità di accompagnamento. In una riforma così ampia, dando per scontato che grandi risorse aggiuntive non ci saranno, secondo Francescutti è chiaro che dovrà essere messa in gioco anche l’indennità di accompagnamento, che oggi vale “svariati miliardi di euro” e che potrebbe diventare qualcosa di diverso da un’indennità come oggi è configurata. Sul tema, confronto apertissimo e moltissime opzioni in campo: ad esempio “potrebbe sostenere i processi assistenziali e territoriali oppure dare un contributo essenziale a un fondo regionale sulla non autosufficienza”. In ogni caso andrà capito “che tipo di servizi può sostenere e quanta quota dovrebbe andare a coprire bisogni assistenziali di chi è in residenze e quanto invece a sostenere i processi di domiciliarietà”. Più in generale, comunque, si tratta di “pensare una politica nazionale sulla non autosufficienza modulata a livello regionale, cosa che oggi non abbiamo”.

Nel frattempo. Siccome i tempi sono lunghi, e le cose oggi non vanno affatto bene, pensare alla riforma non toglie che alcuni interventi immediati vadano fatti subito, possibilmente in modo coerente con il lavoro successivo da fare. In questo senso, il lavoro è ancora più attuale e alcuni spunti erano già stati individuati dall’Osservatorio e dal gruppo di lavoro di Bologna: fra gli altri, ci sono l’abrogazione del piano di controlli straordinari, l’allargamento delle condizioni patologiche esenti da revisione, l’esonero dell’accertamento al compimento dei 18 anni e l’unificazione per evitare duplicazioni, l’introduzione di regole chiare e certe per il riconoscimento dell’indennità di accompagnamento (esplicitando la nozione generica di “atti della vita quotidiana”) e infine la revisione del nomenclatore con la separazione fra l’invalidità civile e l’autorizzazione alla fornitura di ausili e protesi. (ska)