La leadership e il sistema scolastico

La leadership e il sistema scolastico

di Stefano Stefanel

 

L’idea che i sistemi educativi possano aver bisogno di leadership è piuttosto recente ed è un’idea che in Italia non è stata ostacolata solo finché non è apparsa realistica. Tant’è che il termine leadership viene correttamente annacquato, quando si parla nell’ambito del sistema scolastico d’istruzione italiano, con termini come “situata”, “collegiale”, “diffusa”, ecc. La scuola italiana non ha mai voluto prendere in considerazione idee di progressione di carriera, differenziazione stipendiale in base al merito, assunzione del personale solo tramite concorsi ordinari o percorsi abilitanti (l’idea delle SSISS) e questo perché il solo pensiero di una gerarchizzazione dei docenti può portare a scardinare quell’egualitarismo non valutato che piace al mondo sindacale nazionale. Tutto questo si sta ripetendo con la dirigenza scolastica con progetti di valutazione che non diventano mai sistematici e si fermano ad una sperimentazione che dura ormai da quasi quindici anni (“e punta all’eternità”, come cantava Arisa qualche anno fa).

Credo che anche in questo caso un’analisi attenta possa far comprendere come il problema sia più profondo di quanto sembra a prima vista e l’idea stessa che un dirigente possa anche essere leader (magari educativo) non piace molto al personale della scuola. La divaricazione netta tra quelli che sono gli obiettivi del sistema nazionale di istruzione (spesso piuttosto criptici, ma almeno come macro indirizzi abbastanza chiari) e quelli che sono gli obiettivi fortemente conservativi della classe insegnante producono leadership educative dirigenziali sempre tendenti verso quel quadro europeo che alla scuola italiana piace solo a parole. Il quadro europeo piace solo a parole perché poggia su alcuni elementi cardine che sono estranei al sistema dell’istruzione italiano (competenze digitali, spirito di iniziativa e imprenditorialità, competenza matematica e competenze di base in scienza e tecnologia; imparare a imparare) e su altri concetti che ostacolano il ripetersi dell’identico del sistema scolastico e culturale italiano (certificazione delle competenze, unità di apprendimento, curricolarità). Per non parlare poi dei Dsa e dei Bes, spesso vissuti come extraterrestri planati sull’egualitarismo piatto che tanto piace al corpo docente portato a ripetere e non ad innovare. Il dirigente scolastico che vuole tentare di esercitare una leadership educativa in realtà deve andare su queste “parole chiave europee” e attivarle su terreni molto invasivi di innovazione. Per questo la leadership dirigenziale deve essere innovativa e si scontra per sua stessa natura con il conservatorismo delle scuole.

Questo conservatorismo non è solo dei docenti, ma lo è anche delle scuole laddove per scuola si intenda un’organizzazione che racchiude in sé un rapporto molto stretto tra docenti, genitori, comuni, associazioni ed enti del territorio. Le scuole vedono ogni innovazione come una critica a quel passato di cui sono tenaci difensori e dunque se l’innovazione rimane un nome lontano viene vista come traguardo possibile, se invece la si trova di fronte viene ostacolata prefigurando resistenze delle altre categorie (i comuni dicono che non vogliono cambiare i docenti, i docenti dicono che i genitori vogliono contenuti e non competenze, ecc.). Tutto questo si ingigantisce nel secondo ciclo dell’istruzione dove un’assurda perdita di tempo e di soldi come l’esame di stato conclusivo viene da tutti a parole criticato, ma poi costituisce il punto di riferimento della stragrande maggioranza dei docenti e dei dirigenti. Non c’è nulla di più oscurantista, obsoleto e inutile di quell’esame di stato fatto in quel modo. Quell’esame è però l’argine migliore contro ogni idea di leadership.

 

BILL DE BLASIO E MARIO CUOMO E LE CHARTER SCHOOL

 

Il problema della difficoltà per la leadership ad essere riconosciuta e accettata come tale a scuola ha radici nella storia italiana e nella diffidenza dell’Italia per tutto ciò che non è autoreferenziale, al punto da non allarmarsi più di tanto per la posizione del sistema scolastico nazionale nell’area Ocse e per i risultati dell’Invalsi che mostrano un’Italia divisa, in nome dell’unità del sistema. Il conservatorismo italiano è così forte che si arriva a negare autorevolezza all’Ocse e all’Invalsi pur di difendere una situazione che nel suo complesso è catastrofica, ma in cui nessuno vuole essere chiamato a rispondere di quella catastrofe.

Interessante è dunque vedere in che modo il concetto di leadership è evoluto altrove. Ritengo che il fenomeno, circoscritto ma molto significativo, delle Charter School possa aiutare a capire la profondità del problema. Ho avuto modo di conoscere l’esistenza delle Charter School attraverso Norberto Bottani. Ritengo che non siano un esempio generalizzabile perché legate strettamente al concetto di leadership. Senza leadership non si può fare una Charter School, ma non si possono fare i concorsi ordinari o le graduatorie a pettine di leadership. Ho dunque potuto analizzare il fenomeno da distanza attraverso la lettura delle rendicontazioni pubbliche di alcune di esse. Le Charter School si allontanano dall’idea stessa di sistema nazionale d’istruzione, perché costituiscono una sorta di scuola a progetto. La Charter School nasce su un progetto che riceve finanziamenti, obiettivi e tempi di attuazione: se fallisce viene chiusa, sennò può continuare. In questo caso il Principal della Charter School non sottostà a Contratti collettivi di lavoro, a Programmi nazionali, a imposizioni esterne: gestisce contratti, compensi, assunzioni, licenziamenti, gestione, curricoli scolastici, ecc. in forma totalmente autonoma rispondendo ai suoi finanziatori.

Due esempi di Charter School di qualche tempo fa mi hanno molto incuriosito: entrambe dell’area newyorkese periferica (una nel Bronx e una nel Queens), entrambe hanno raggiunto gli obiettivi quinquennali, entrambe hanno radicalmente cambiato mission nel prosieguo dell’attività scolastica. La prima era una scuola elementare che aveva come obiettivo l’alfabetizzazione degli afroamericani adulti. Questo comportava che i genitori che portavano i bambini a scuola dovevano sottoporsi e test ed eventualmente ad un programma di alfabetizzazione obbligatorio. La scuola al mattino lavorava con i bambini, la sera con  gli adulti, ma l’obiettivo per cui era finanziata era l’alfabetizzazione degli adulti. Terminato il quinquennio e raggiunto l’obiettivo la scuola ha cambiato obiettivi ed ha puntato sul miglioramento della preparazione dei sui alunni sia in termini assoluti (standard nazionali) sia in termini di benchmark, valore aggiunto. Nel quartiere di riferimento l’analfabetismo era praticamente scomparso. La seconda scuola invece aveva come obiettivo il plurilinguismo inglese-ispanico dei propri studenti (una sorta di istituto comprensivo), vista la fortissima presenza portoricana nel quartiere. Dopo i cinque anni e il raggiungimento dell’obiettivo il target si è spostato verso la produzione di studenti bilingui in grado di andare al college e laurearsi sia in lingua inglese sia in lingua spagnola.

Entrambe le esperienze indicano una forte carica progettuale del Principal, un progetto ben strutturato e facilmente valutabile, obiettivi da raggiungere chiari e la necessità di curricoli legati agli obiettivi da raggiungere. I due Principal hanno dovuto creare staff amministrativi, team di valutazione d’istituto, team docenti esperti per presidiare didattica e curricoli anche con azioni di tutoraggio e di supporto ai docenti più giovani e inesperti. Questo ha richiesto una leadership riconosciuta non solo da parte di coloro che il Principal aveva assunto, ma anche da parte dei genitori che hanno affidato i loro figli non a una generica scuola, ma proprio ad un progetto.

E’ di questi giorni un interessante sconto newyorkese tra il Sindaco Bill De Blasio e il Governatore dello Stato Mario Cuomo. Il primo sostiene un progetto per estendere la scuola statale ai bambini di 4 e 5 anni, anticipando l’ingresso alle elementari comunali. Il secondo invece  cerca di generalizzare il più possibile nello Stato le Charter School. Lo scontro è tutto dentro il Partito Democratico e indica le linee di tendenza pedagogiche in atto: in discussione non è il capitale pubblico per la scuola (sia il Comune sia lo Stato sono i finanziatori delle scuole in discussione), ma la loro gestione. Statale e sindacalizzata quella che vuole De Blasio, del tutti privatistica quella che vuole Cuomo. In questo momento sembra che l’opinione pubblica sia più favorevole al modello proposto da Cuomo. Riferisce Massimo Gaggi (Corriere della sera del 7 maggio 2014): “De Blasio incassa la sconfitta immediata convinto che nel lungo periodo la spunterà lui: le eccessive sperequazioni nella distribuzione del reddito potranno essere corrette solo con più istruzione nelle famiglie povere e più tasse sui ricchi. Ma a New York un Fisco troppo pesante comincia a soffocare l’economia, mentre è frequente sentire genitori, anche quelli che votano democratico, riflettere: “Se vuoi sentire un professore di una scuola pubblica ti dirà ‘certo, venga in  istituto e ne parliamo’. Se cerchi un docente di una charter ti risponderà: ‘chiami in qualunque momento’”. I sistemi scolastici di matrice anglosassone (America inclusa) hanno sempre garantito autonomia e rendicontazione. Pere questo le scuole stanno nel dibattito, ma sono anche istituzioni in cui il finanziamento pubblico e quello privato sono poli paritari sia del sistema statale sia di quello privato.

 

CHI HA PAURA DI DON MILANI

        La Scuola di Barbiana, Don Lorenzo Milani, La lettera a una professoressa sono diventati negli anni icone della scuola statale italiana. Credo però che un buon esercizio sarebbe chiamare le cose con il loro nome: se a don Milani lo Stato avesse dato dei soldi e lui con quei soldi avesse fatto Barbiana il concetto di Charter School sarebbe perfetto. Lui l’ha fatta con capitali vari, anche di derivazione statale, ma con un impianto antistatalista (altrimenti a che professoressa parlava?). Sia nella Scuola di Barbiana sia nelle Charter School i docenti non vengono presi dalle graduatorie permanenti. A Barbiana si lavorava per un obiettivo preciso: l’inclusione. Ma la leadership era forte e indiscutibile. La Scuola di Barbiana non era statale, non era paritaria, forse non era neppure pubblica. In quella scuola i Contratto collettivo nazionale di lavoro non valeva, la chiamata dei docenti era diretta, il curricolo era autoprodotto e tutto l’impianto stava nell’ambito privatistico-cattolico e non in quello pubblicistico-statale.

La Scuola di Barbiana mon  era una Charter School ante litteram. Ma era una scuola che aveva poco a che fare col sistema nazionale dell’istruzione e molto a che fare invece con la scuola come soggetto emancipante che permette di ottenere obiettivi se liberata da obblighi, compiti, mansioni rigide e insegnamenti obbligatori.

L’autonomia scolastica per essere tale deve potersi dare obiettivi misurabili e deve poterli misurare pubblicamente. Si conosce la poca propensione italiana a farsi valutare, ma un’autonomia senza valutazione è un’autonomia che non va lontano (e infatti non stiamo andando lontano). A questo punto però torna prepotente l’idea di leadership, come elemento caratterizzante di percorsi complessi. Come quelli intrapresi dalle Charter School, da un’anticipo a 4 anni per decisione comunale e non ministeriale, dalla scuola di don Milani a Barbiana.