Non era meglio la CEE?

Non era meglio la CEE?

 di Maurizio Tiriticco

Nei primi anni Cinquanta nel nostro Paese cominciammo ad assaggiare quello che poi fu il boom socioeconomico. La guerre era finita nel ’45 e in un quinquennio il nostro Paese aveva già compiuto miracoli! Inaspettati! Tanto pesanti erano state le distruzioni che avevamo subite: riguardavano città intere, case, servizi, fabbriche! Eppure, ce la facemmo! A pensarci adesso, le difficoltà che stiamo attraversando oggi sono infinitamente minori rispetto a quelle dell’immediato dopoguerra. Eppure ci sembrano pressoché insormontabili.

Un gran desiderio di pace e di lavoro accomunava noi tutti! Anche perché avevamo una Repubblica, uno Stato tutto nuovo e una Costituzione che era la più bella del mondo. E ricostruivamo il Paese e anche la nostra vita civile! Poi, quando nel 1951 nacque la Ceca, la Comunità economica europea del carbone e dell’acciaio, per opera dell’iniziativa di Italia, Francia, Germania occidentale, Belgio, Olanda e Lussemburgo, Paesi che fino a qualche anno prima avevano combattuto su campi avversi, fummo in molti a capire che si stava cominciando a tracciare una nuova strada anche in campo internazionale! Non c’erano più né vinti né vincitori, ma un insieme di popoli che intendevano costruire per la prima volta insieme una nuova Comunità, anche con la C minuscola, di intenti, di lavoro, di speranze! Ovviamente una strada difficile! Ma che avrebbe potuto garantire una pace futura così pesantemente compromessa in quel lungo secolo che Qualcuno più tardi ha voluto definire invece come Secolo breve.

Comunque, qui in Italia avvertivamo che cominciava a prender corpo la visione mazziniana della Giovane Europa! O forse quella del federalismo di Cattaneo! O di quel socialismo europeo di Pisacane! I sogni ottocenteschi stavano diventando ormai qualcosa di più solido. In effetti, il Manifesto redatto nel confino di Ventotene da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni non aveva nulla di utopistico e disegnava con sufficiente chiarezza i propositi e i passi di una progressiva unificazione europea in chiave federalista. E a quei nomi imparammo ad associarne altri! Oltre al trentino Alcide De Gasperi figuravano il tedesco Konrad Adenauer, i francesi Robert Shuman e Jean Monnet, il belga Paul Henri Spaak. Utopisti? Sognatori? Anche, ma soprattutto dirigenti politici convinti di una comune prospettiva europea.

Quindi, la Ceca, e poi l’Euratom e poi la Cee, quella Comunità economica europea che firmammo qui a Roma nel 1957, potevano costituire l’avvio di un nuovo percorso. Le attese erano indubbiamente molte! L’avvio di un mercato comune, l’incremento dei trasporti e l’introduzione di nuove tecnologie nei processi lavorativi rendevano necessarie, se non ineludibili, intese che solo fino a qualche decennio prima sarebbero apparse impossibili. Non mancavano atteggiamenti critici: la cortina di ferro ormai da quasi dieci anni spaccava in due l’Europa e il mondo intero, per cui una comunità economica che riguardasse solo i Paesi di una determinata area forse avrebbe rafforzato quel sistema capitalistico che i movimenti della sinistra invece osteggiavano e combattevano. Fu così che alle speranze e alle attese di certe parti politiche si associavano le diffidenze e i sospetti di altre parti. Ma la nuova Comunità cominciò a produrre i suoi effetti, nel campo dell’economia, degli scambi commerciali, del lavoro, dei processi lavorativi e, ovviamente, della stessa formazione professionale. Se nei diversi Stati membri i processi dell’istruzione cosiddetta “generalista” procedevano secondo le necessità civiche e culturali interne ai singoli Stati, la formazione professionale, invece, doveva fare i conti con quelle tecnologie che anno dopo anno investivano i processi lavorativi indipendentemente dai confini nazionali. E la classe operaia poneva le sue rivendicazioni economiche, professionali e culturali su basi che cominciavano a travalicare i confini nazionali. Per tutti gli anni Sessanta i gli operai italiani,francesi, della Germania federale e del Benelux, lavorarono di conserva a implementare i loro profili professionali. E la Cee fungeva da grande richiamo. In seguito, a partire dal 1973, con l’ingresso del Regno Unito, dell’Irlanda e della Danimarca, la Cee comincia ad ampliare i suoi orizzonti e i suoi assetti cooperativi.

Fu così che tutta la formazione professionale cominciò a uscire dal ghetto in cui era stata relegata per decenni. Si era sempre trattato di una formazione di second’ordine – non a caso si era sempre parlato addirittura di puro addestramento professionale – nella quale si formava l’operatore per ciò che avrebbe dovuto eseguire nel processo lavorativo, indipendentemente da una visione complessiva attinente ad aspetti culturali e civili di ampio spettro. Da sempre i “padroni” assumevano mani sicure e teste non troppo pensanti. Ma le cose stavano rapidamente cambiando. Anche nel nostro Paese in quegli anni l’attenzione al lavoro operaio e all’intera formazione professionale compie un enorme passo avanti. Per merito delle lotte operaie, ovviamente! Nella legge quadro 845 del 1978, relativa al riordino dell’intero sistema professionale regionale, all’articolo 1 non scrivemmo soltanto che “la formazione professionale è strumento della politica attiva del lavoro, si svolge nel quadro degli obiettivi della programmazione economica e tende a favorire l’occupazione, la produzione e l’evoluzione dell’organizzazione del lavoro”, ma anche che “la Repubblica promuove la formazione e l’elevazione professionale al fine di rendere effettivo il diritto al lavoro ed alla sua libera scelta e di favorire la crescita della personalità dei lavoratori attraverso l’acquisizione di una cultura professionale”. Analoghe attenzioni normative riguardarono in quegli anni anche gli altri Paesi della Cee. E non a caso nel 1975 viene istituito il Cedefop, il Centro europeo per lo sviluppo della formazione professionale: si tratta dell’agenzia europea incaricata di promuovere e sviluppare l’istruzione e la formazione professionale in tutti i Paesi della Cee e oggi, dell’Unione europea.

Tutto sembrava procedere per il meglio I risultati ottenuti dalla Cee erano molto interessanti, non solo in termini di complessivo sviluppo economico dei Paesi membri, ma anche in termini di continue nuove adesioni. Nel 1981 entra nella Cee la Grecia; nel 1986 entrano la Spagna e il Portogallo. Il progressivo consolidamento della Cee riceve ormai riconoscimenti da ogni parte politica. Lo stesso Partito comunista, da sempre non tenero nei confronti delle iniziative politiche della Comunità, sotto la direzione di Enrico Berlinguer, fin dal 1976 aveva dichiarato di guardare con favore al Patto atlantico, a quella Nato, come garanzia di sicurezza e di pace per tutti gli Stati europei, contro la quale, invece, si era battuto con estremo vigore fin dalla sua costituzione, nel lontano 1949. Quindi la stessa Cee non viene più vista come l’organizzazione del capitalismo dell’Europa dell’Ovest. Anche perché i risultati, in termini di aumentata circolazione delle merci e di aumentato benessere sono più che evidenti.

Ed è proprio da questi successi – reali senz’altro ma quanto duraturi è difficile a dirsi – che insorge l’idea di giungere ad una costituzione più solida, che superi l’ambito della pura “economia” e investa quello ben più ampio della “politica” a tutto tondo. Si ravvisa che è giunto il momento di passare da una semplice Comunità ad una vera e propria Unione. I sogni dei grandi europeisti, da Mazzini a Spaak, sono quindi realizzabili! Si avvia così quel processo che conduce al Trattato di Maastricht con cui nel febbraio del ’92 i dodici Paesi della Cee danno vita all’Unione europea. L’ambizione è tanta! Ormai si affrontano tutti i settori della vita di un Paese. L’istruzione generalista costituisce un punto di grande attenzione e si avvia un processo finalizzato a realizzare una vera e propria Dimensione Europea dell’Educazione. Non è un caso che nel 2000 il Consiglio Europeo si propone l’ambizioso obiettivo di trasformare l’Unione nell’“economia della conoscenza più competitiva e dinamica del mondo”.

E in politica si auspica che occorra giungere a una vera e propria Costituzione. In questa prospettiva si pensa anche ad una moneta unica! Lo Stato federale che deve coniarla ancora non c’è, ma è solo questione di qualche mese… questo avranno pensato i politici dell’Ue? Mah! Comunque al Campidoglio in Roma nel 2004 viene firmata con il massimo della solennità la nuova Carta costituzionale dell’Unione europea. Un documento lungo, complesso, circa 500 articoli, di non facile lettura. Ma… i conti senza l’oste! Quando la Carta deve compiere tutti i passaggi attraverso i 12 Paesi, emergono tutti gli intoppi del caso. Non sto a riassumere tutti gli aspetti della vicenda! Resta il fatto che dalla Costituzione si deve ripiegare ad un più semplice Trattato. Che viene firmato a Lisbona nel 2007. In soli tre anni il grande sogno è svanito! Quali i motivi di questo disastroso arretramento? Non sono in grado di analizzarli! Resta comunque il fatto che abbiamo compiuto il passo più lungo della gamba! Abbiamo lanciato al cielo un pallone che è scoppiato prima del tempo! E ora ci ritroviamo con un‘Europa che non c’è e non si sa che fine farà – tante sono le tensioni nazionalistiche emergenti – e con una Cee che non c’è più! Con una moneta ingovernabile, con un mercato impazzito e con le banche che fanno il buono e il cattivo tempo! Altro che sovranità popolare!

Che ne sarà dell’Europa di Mazzini, di Spinelli, di Schuman? Dell’Europa che abbiamo sognato? Viene da chiedersi: non era meglio la Cee?