A. Bajani, La scuola non serve a niente

Andrea Bajani “ La scuola non serve a niente” Editori Laterza, la Repubblica, maggio 2014

di Mario Coviello

 

bajani2E’ uscito questa settimana “La scuola non serve a niente” di Andrea Bajani, editori Laterza e la Repubblica, euro 6,90, disponibile anche in ebook, un agile saggio che consiglio al mondo della scuola ai genitori e soprattutto ai politici che ci governano perché spiega con passione perché abbiamo bisogno di una scuola che “ faccia uscire i ragazzi con la capacità di immaginare un mondo diverso da quello che hanno consegnato loro , e non solo essere bravi ad inserirsi dentro caselle già disegnate.”

In 136 pagine il libro contiene non solo il saggio di Bajani, ma anche articoli di Massimo Recalcati,Marco Lodoli,Christian Raimo e Maria Pia Veladiano nella sezione intitolata “In questione “ e in “ Pagine dal fronte” le testimonianze di Silvia dai Prà, Chiara Valerio, Marco Lodoli e Christian Raimo, tutti docenti e scrittori.

Andrea Bajani aveva avuto grande successo con il reportage narrativo del 2011 “ Domani niente scuola “ nel quale aveva raccontato , con divertita e divertente partecipazione, una “gita” scolastica di una classe di adolescenti.

In “ La scuola non serve a niente “ racconta la scuola italiana come specchio di un paese di separati in casa: insegnanti in crisi di legittimazione e ragazzi asserragliati in difesa dietro i banchi delle ultime file. Poco più in là, famiglie sfiduciate che per i figli vorrebbero più certezze e lavori sicuri che dubbi e un sapere considerato stantio. È lo specchio di un’Italia in cui tutti vorrebbero insegnare e nessuno ha voglia di imparare più niente. È il ritratto di un’Italia di solitudini tenute insieme dentro la stessa penisola.

Al Salone del libro di Torino, durante un laboratorio di scrittura, una   ragazza di quindici anni confessa a Bajani che ha deciso di lasciare la scuola “ perché non serve a niente”.

Lo scrittore per spiegare a cosa serve la scuola racconta due storie.

Quella di una docente di seconda media che durante il terremoto in Emilia raccomanda ai suoi ragazzi “ State tutti insieme”.., perché la scuola è una comunità. “ Una comunità di persone il cui stare insieme è il senso del loro andare a scuola e che cercano gli occhi di un maestro, per la semplice ragione che lui conosce il mondo , e di quella conoscenza si prende cura ”.

E la storia di un amico che non sapeva come comportarsi con la signora che lo aiutava in casa che gli cambiava continuamente la disposizione dei mobili del soggiorno. Il padrone di casa, ogni volta che tornava a casa dall’università dove insegna. rimetteva a posto.

Un giorno, sfinito, si è buttato sul divano come lo aveva posizionato la signora delle pulizie e aveva scoperto “che da lì vedeva il campanile..La cosa lo aveva così sorpreso, l’aveva reso così felice che da quel momento in poi aveva lasciato tutto come aveva deciso la signora…”

“Quella storia- scrive Bajani – è quello che io intendo quando penso alla scuola. E ai libri. E alla cultura. A che cosa serve un romanzo ? A che cosa serve la scuola ? A niente… A che cosa servono gli insegnanti ? A niente . O al più a spostare i mobili… “ .

E continua .. “ Ci servono insegnanti che abbiano la forza di spostare quei mobili ogni volta che i ragazzi si aggrapperanno alla versione precedente. Ci servono insegnanti che siano autorevoli perché di quel mondo, di quella nuova disposizione del mondo , si assumono la responsabilità.

E ci serve uno Stato che a questi insegnanti riconosca questa responsabilità e le dia un valore economico e un valore – soprattutto- politico. “

Il saggio contiene una preziosa appendice, con grafici a colori, con la situazione, aggiornata al 2014, della scuola italiana ( iscritti, alunni con cittadinanza non italiana, i livelli di competenza in lettura… ), una cronologia delle riforme del sistema scolastico dal 1977 di Salvo Intravaia e una preziosa bibliografia essenziale.

La scuola è nata perché le solitudini fra insegnanti e alunni, docenti e famiglie, giovani e società venissero ricucite con un alfabeto uguale per tutti. Non si può che ripartire da lì. Perché la scuola non serva a qualcosa, ma piuttosto sia necessaria per immaginare un paese migliore.

bajaniLo scrittore è stato intervistato sulla sua ultima fatica da Antonello Guerrera. Ecco come ha risposto alle sue domande.

Insomma, Bajani, perché oggi «la scuola non serve a niente»?
“È un paradosso: oramai è diventato un mantra della nostra società per qualsiasi cosa, dall’economia al lavoro. Invece, bisogna uscire da questa logica utilitaristica: la scuola non deve soltanto “servire”, alla stregua di una chiave inglese. Bisogna tornare a quello che c’è dentro la scuola”.

E cosa c’è dentro?
“C’è la cultura. E la cultura contiene il verbo “coltivare”: le nozioni, certo, ma anche la convivenza, oltre a una lettura del mondo. Non a caso, la scuola è il nostro primo — e forse ultimo — luogo di aggregazione, comunità, condivisione. E quindi è indispensabile in un’epoca di profonde solitudini come la nostra”.

E invece si allarga il fenomeno del «rinuncianesimo», come lo chiama nel libro una giovane partecipante a un suo seminario. E cioè una scuola di rinunciatari passivi.
“È una parola tremenda e bellissima, a metà tra ideologia e religione. Risuona quasi come un atto di fede, ma purtroppo è una mesta chiave per capire che cosa sta succedendo alla scuola italiana: da un lato, gli studenti tendono sempre più a “disarmarsi”, a rinunciare ad aggredire la vita quotidiana. Dall’altro, considerano gli insegnanti degli impiegati statali e fannulloni. I quali, bisogna dirlo, a volte si attaccano conservativamente al vecchio mondo. E così perdono autorità”.

Perdita di autorità legata anche alla “scomparsa dei padri” nella società odierna, come ha scritto Massimo Recalcati che lei cita nel libro.
“È vero. Come il “Padre padrone”, non esiste più il “maestro Manzi”. Oggi, l’unica cosa che può fare un padre, spiega Recalcati, è testimoniare la propria paternità. E l’unica cosa che può fare un insegnante, di fronte al discredito collettivo, è dare testimonianza di sé, plasmando l’istruzione con entusiasmo e metodi concreti, alternativi alla tradizione. Come diceva Hannah Arendt, del resto: “L’insegnante è il testimone del mondo”. Ma qui c’è un ulteriore passaggio fondamentale”.

Quale?
“L’insegnante è parte integrante dello Stato. E lo Stato deve aiutarlo a restituirgli quell’autorità: dall’immaginario collettivo ai compensi, fino all’agibilità degli edifici. Un insegnante deve avere le spalle coperte. Da solo non ce la può fare”.

Invece, l’istruzione pare spesso trascurata dallo Stato italiano.
“Assolutamente. È inquietante che le riforme degli ultimi anni siano state tutte dettate da esigenze economiche e dai numeri più che da un nuovo approccio pedagogico o di insegnamento”.

Riforme che tra l’altro non hanno allineato l’Italia all’Europa. Un valido paragone nel libro è quello della Germania, dove la lezione è ultrapartecipativa, il professore “supera il fossato” e responsabilizza gli studenti.
“Esatto. In Germania, dove vivo, non c’è, almeno in apparenza, un rapporto di superiorità, perché il docente permette all’alunno di prendere in mano l’oggetto (ossia l’argomento) e di smontarlo e rimontarlo a piacimento. Così si sviluppano dialettica e senso critico. Negli studenti, ma anche negli insegnanti. Da noi, invece, si è sviluppata una passività sempre più marcata”.

Per questo lei scrive che la scuola deve ripartire dalle “parole”. Perché?
“Perché solo le parole possono salvarci. I ragazzi dei miei seminari li lascio sbizzarrire con neologismi perché diano un nome alle cose, che così escono dal buio e diventano conoscibili. È una delle grandi sfide: insegnare agli studenti come farsi certe domande e scegliere, per dare una forma al mondo. Soprattutto nel magma di Internet, dove hanno a disposizione tutta l’informazione possibile. Che però, senza il filtro della scuola, è merce senza valore”.