Tre like e tre dislike professionali sul Piano scuola

Tre like e tre dislike professionali sul Piano scuola

di Nicola Zuccherini

Il piano scuola del governo mi sembra un buon punto di partenza per rinnovare il sistema; né condivido l’opinione di quanti ci vedono un conflitto con la contrattazione: oltre alle leggi, sarà proprio un nuovo contratto a rendersi necessario per attuare le proposte del governo, così come usciranno dal dibattito pubblico e politico. C’è molto da discutere, però. Propongo in brevissimo i miei like e dislike, tre per parte e tutti sul piano strettamente professionale, al limite sindacale.

In tre punti “La buona scuola” mi sembra particolarmente efficace nell’incrociare gli aspetti più problematici del sistema: assunzioni dalle Gae, organico d’istituto e retribuzione premiale.

a) L’ingresso in ruolo del personale delle graduatorie a esaurimento ha tutti i limiti di una sanatoria (e i precari delle altre amministrazioni?) ma toglie di mezzo uno dei principali fattori di instabilità del sistema.

b) L’introduzione di un organico funzionale di istituto (o di rete), che è una necessità invocata da tempo e da tutti, cambia il contenuto professionale del mestiere dell’insegnante perché introduce nell’ordinamento il principio che si tratta di una professione plurale, che non si esaurisce nel fare lezione in una classe; e che di conseguenza per fare scuola non basta un numero di insegnanti pari a quello delle classi (salvo il sostegno).

c) Nella stessa direzione va il cosiddetto merito: l’introduzione della premialità pone in maniera forte e spero definitiva il problema di una professione che deve accettare responsabilità più precise e caricarsi di sistemi valutativi stringenti (che entrino nel “merito” del nostro lavoro, se si può giocare con le parole) se veramente ambisce a prestigio sociale e riconoscimento economico.

I tre punti di maggior criticità del documento sono invece ruolo e destino degli Ata (e dei loro compiti e funzioni), ruolo del nuovo organico d’istituto o di rete, retribuzione.

a) Gli Ata, quelli che ci sono adesso e quelli che ci saranno se ce ne saranno. “La buona scuola” gli dedica quattro o cinque parole in tutto: troppo poche, visto che le mansioni che svolgono sono strategiche per la costruzione della qualità della scuola. Perché allora non chiamare anche loro a un percorso di qualificazione professionale che ne ridefinisca compiti e funzioni, magari anche nella direzione del controllo e del coordinamento di attività esternalizzate?

b) Il documento del governo prefigura un nuovo organico di rete destinato a sostituzioni, aumento del tempo scolastico e qualificazione dell’offerta formativa e formato dai soli insegnanti assunti dalle graduatorie a esaurimento. Costruire una sottocategoria con compiti sussidiari accanto a quella dei “veri” insegnanti, che resterebbero quelli “di classe” o “con cattedra”, rischia di dar vita a un ghetto di docenti sottoutilizzati e dequalificati, dai compiti incerti; mi sembra preferibile mettere tutti sullo stesso piano e impegnare le scuole a utilizzare tutte le risorse al meglio in una didattica flessibile e nel garantire il servizio con le sostituzioni (queste, poi, non si vede perché a regime non dovremmo farle tutti, in quota orario, anziché solo una parte di noi, cioè gli ex Gae).

c) Sessanta euro ogni tre anni, infine, sono proprio pochi e sanno di presa in giro, anche perché i meritevoli di domani finirebbero per guadagnare più o meno quanto guadagnano oggi senzanessuna valutazione, che non è un granché come incentivo. Vale la pena oggi chiedere agli insegnanti una sostanziale crescita di produttività (in termini di ore lavorate, di partecipazione alla gestione della scuola, di progettualità e flessibilità didattica, di responsabilità sui risultati) in cambio di un aumento sostanziale della retribuzione base e delle prospettive di miglioramento economico in carriera. Questa dei soldi l’ho tenuta per ultima, ma si poteva mettere per prima, perché da questo passaggio (più soldi in tasca, più responsabilità, più impegni) dipende tutto il resto, cioè tutto il destino del lavorare a scuola nei prossimi decenni.