Cosa ti rende felice?

COSA TI RENDE FELICE?

di Giancarlo Onger

 

È la prima domanda di un questionario rivolto a persone con disabilità nel contesto di un progetto europeo, a cui sono molto contento di partecipare perché una volta tanto si fanno domande anche alle persone che non dovrebbero avere motivi per essere felici.

Anche il titolo è azzeccato: WISPEL Wisdom of Special PeopleSapienza/Saggezza di persone speciali. Un progetto che esce dallo stereotipo: persona con disabilità uguale a persona con infelicità. Fa pure rima. Il che non guasta.

Questa è l’ultima, per ora, delle mie peregrinazioni nei Paesi europei alla scoperta di cosa si combina oltre le Alpi. Ho cominciato, nel lontano 1991, a familiarizzare con la definizione special needs che da noi, nella versione BES (Bisogni Educativi Speciali), è prepotentemente entrata nel lessico scolastico negli ultimi tre anni. Per cui è normale che , dopo l’affermazione del sostantivo DSA, si sia affermato anche il sostantivo BES.

I due, peraltro, sono in buona compagnia perché si ritrovano con altri: ADHD, FIL, ecc. Per strada abbiamo perso le parole bambino/a, ragazzo/a, alunno/a, studente/ssa. Infatti, nelle classi non ci sono Giovanni, Maria, Enrico, Giovanna, ma: un BES, un DSA, un…

Non importa se le disposizioni ministeriali hanno chiarito che le persone che rientrano nei BES sono: gli alunni con disabilità, gli alunni con disturbi specifici di apprendimento, gli alunni con disagio socio-culturale.

Evidentemente è più spiccia la reductio della persona ad una sigla.

Sono talmente condizionato da questa deriva che in una recente tappa del progetto di cui sopra, in Portogallo, mentre si andava a pranzo in una località marina, il teleobiettivo della mia macchina fotografica ha intercettato un’ insegna con scritta bianca su sfondo verde: BES! Neanche il tempo di darmi una risposta ai molti interrogativi che l’acronimo si è svelato: Banco Espirito Santo.

Per un attimo avevo temuto che in Portogallo ci fosse un allarme BES molto più alto che da noi, tanto da indurre il Ministerio da Educação ad aprire centri con insegne ambulatoriali. E invece si trattava di una banca.

Rientrato l’allarme ho cominciato a riflettere, proiettandomi inevitabilmente nel nostro contesto. Vuoi vedere, mi sono detto, che per far tornare in primo piano la persona, senza etichette e aggettivi vari, nella nostra scuola abbiamo bisogno di un miracolo dello Espirito Santo?

Ma poi, riflettendo con calma davanti alle onde del mare arrabbiato, mi sono convinto che in campo abbiamo già molte risorse. Bisogna averne contezza e operare in tal senso.

Per prima cosa non possiamo continuare ad avere parametri quantitativi per valutare se una persona ha una disabilità, un disturbo o una difficoltà. Se il punto di riferimento rimane il QI, con la mitica soglia F70, mi/vi chiedo a cosa è servita la teoria delle intelligenze multiple di Howard Gardner, che ha dimostrato priva di fondamento l’idea di intelligenza come fattore unitario e misurabile; a cosa serve l’ICF se continuiamo a pensare che la condizione di una persona è una questione sua e non dei contesti in cui vive; dov’è finito il bambino montessoriano protagonista della propria crescita con il prezioso supporto dei centri di interesse.

Contemporaneamente suggerirei all’INVALSI di preparare un questionario sulla felicità da somministrare a tutti i nostri alunni/studenti. Come incipit partirei proprio dalla domanda: cos’è che ti rende felice? E subito dopo lo estenderei agli adulti che lavorano con e per loro. Forse scopriremmo che non abbiamo bisogno di un miracolo, ma di una scuola felice.