I miei tre anni al Giulio Cesare

I MIEI TRE ANNI AL GIULIO CESARE

estratto da
BALILLA MOSCHETTIERE
memorie di un antifascista

di Maurizio Tiriticco ispettore emerito pubblica istruzione
ex alunno del “Giulio Cesare”, classi terza, quarta e quinta, Sez. B, anni scolatici 1943/44 – 1944/45 – 1945/46


Premessa

Oggi non tutti sanno, purtroppo, quanto sia preziosa la democrazia. E spesso arricciano il naso. E si lamentano… sempre… e di tutto. E non sanno. Se sapessero. E se sapessero quant’è difficile passare da un regime dittatoriale a una società democratica. Soprattutto per chi è nato ed è stato educato – si fa per dire – in una società autoritaria e si trova poi sbalzato all’improvviso, senza capirne il perché e il come, in una società che ne è esattamente il contrario. E’ un passaggio faticoso e difficile. Ti trovi con il perdere a un tratto tutti i tuoi punti fermi e ti ritrovi a dover ricostruire tutto da capo. Quando sei nato in una società dittatoriale, chiusa, autoreferenziale, non hai scelto nulla: perché tutto è stato scelto per te. Qualcuno ha deciso per te.
Quando poi, nel corso di una notte – era il 25 luglio del 1943 – ti trovi sbalzato in una società diversa, aperta… ma tremendamente difficile, in cui sei tu a dovere scegliere, la fatica è enorme. Chi nasce qui e oggi, in una società democratica, regolata da una Costituzione che è una delle più belle del mondo – ma in pochi lo sanno – apprende da subito che dovrà fare le sue scelte, e poi opterà per il bene o per il male, per l’impegno civile o la mazzetta, e potrà anche cambiare le sue scelte, in corso d’opera, nel lungo corso della sua vita. Ma chi è nato là e allora, in una società fortemente autoritaria, in cui quel poco che ti è dato è il Tutto ed è quel Tutto che riempie completamente le tue conoscenze e la tua coscienza, le cose sono ben diverse.
E la cosa più significativa è che tu ne sei felice. E sei felice perché non hai altra possibilità di scelta. Com’è oggi in chissà quanti Paesi del mondo. Tutto ti è dato. Nel bene e nel male. Ovviamente più nel male. Un Tutto che è veramente ben Poco. Ma che riempie totalmente la tua vita, i tuoi desideri, le tue aspirazioni. E sei anche felice. E non tanto perché sei un bambino, ma perché sei un Balilla, un Balillaaa con la B maiuscola, un bambino speciale e privilegiato, il Meglio che ci possa essere sulla faccia della Terra.
E quanto è faticoso rinascere – o nascere? – il 25 luglio del ’43. In effetti sono nato due volte.
Su questa fatica ho voluto riflettere e l’ho voluta raccontare. Perché tutti sappiano quanto sia prezioso il bene della democrazia e della libertà, anche Oggi e Ora, in cui le tante impasticciate Cose del mondo ci appaiono più difficili che mai. Ma i problemi in cui tutti ci troviamo coinvolti li risolveremo, perché siamo Liberi di farlo, se vogliamo veramente essere Liberi. La Libertà non è un dono, anche se è un garanzia che deriva dalla nostra Costituzione, ma è l’unica strada da percorrere, se vogliamo costruire un mondo migliore, come si suol dire, e come si deve dire senza alcuna enfasi.
Comincio dall’inizio, da un vagito molto lontano, di cui non ricordo nulla. Fortunatamente c’è la mia carta di identità che indica un luogo e una data di nascita: Torino, 14 luglio 1928! Fatidica! Certamente, perché quando un nuovo nato comincia a frignare, l’evento è più che importante. L’universo comincia a dispiegarsi su un paio di occhi di un esserino che dovrà viverlo, leggerlo, interpretarlo: il miracolo della vita!

(omissis)

Lo sfollamento

In quel 24 settembre del ’43 i tedeschi cominciarono ad affiggere manifesti, non tanti veramente, solo quanto bastava per lanciare la notizia. “Via tutti dal Lido di Roma”. Ostia, secondo le intenzioni del Duce, avrebbe dovuto essere il Mare di Roma!… E la notizia volò rapidamente. Non ricordo il testo alla lettera, ma l’informazione sì. I tedeschi ci davano 24 ore di tempo per lasciare la città. Le ragioni? Nessuna. Ma lo sapevamo tutti. Il fatto è che temevano uno sbarco sulla costa tirrenica antistante la capitale e dovevano organizzare le opportune difese. Quindi senza intralci di sorta.
Fu una vera tragedia. La vita sonnacchiosa di una cittadina che, bene o male, tentava di sopravvivere ad una situazione veramente difficile… la fame in primo luogo, l’assenza di un’amministrazione, l’incertezza per il futuro, venne nel giro di pochi minuti stravolta, sconvolta. Una città intera, migliaia di persone dovevano sgombrare. E dove? E come? Protestare? Neanche a pensarci. Ormai da vent’anni avevamo imparato solo a credere, obbedire e combattere. E poi i tedeschi non scherzavano. Non avevamo mai fraternizzato con i soldati, sempre arroganti e pieni di sé, anche quando eravamo alleati. E ora, più arcigni e più brutti che mai, con il fucile sempre imbracciato. Non ci fu alcuna protesta, alcun atto di ribellione. Solo una disperazione nera, di tutti. E poi, tutti contro tutti. Nessuno di noi possedeva l’automobile. Tutti noi possedevamo una bicicletta, ma… poca cosa per una fuga con masserizie presso.
Fu una corsa a camioncini e a carretti, ma soprattutto al treno. Fortunatamente i treni cominciarono a funzionare uno dopo l’altro… niente biglietti, ovviamente, e facevano tutti su e giù, Roma Ostia, carichi come non mai. Persone e valige, tante valige, scatoloni, tanti scatoloni, e materassi soprattutto, tanti materassi. Vecchi e bambini. Sani e malati. E qualche animale, cani, gatti e galline… molti ormai avevano galline nei cortili, sui balconi… le uova erano una cosa preziosa e allevar polli non costava poi molto…
Quell’evento segnò la mia definitiva maturazione. Cos’ io, appena quindicenne, mi trovai da un giorno all’altro capofamiglia.
Occorreva sgombrare casa – un’abitazione di 6 stanze 6 – in 24 ore. Con un padre assente… in trasferta all’aeroporto dell’Aquila… senza informazione alcuna… né poste né telefoni funzionavano. E una mamma allettata, sì, allettata. Mai vista mia madre a letto. La mamma era sempre sana e vegeta, aveva sofferto solo per quel brutto mal di pancia di qualche anno prima… la nascita di mia sorella… Qualche giorno prima di quel maledetto 24 settembre era caduta ed era allettata con serie implicazioni alle ginocchia. Con un aggravante. Complicazioni artritiche, così aveva detto il dottore. E la mamma non poteva assolutamente muoversi. La sorella Maria Clara detta Pucci, aveva solo 9 anni, per cui…
La mamma, sempre forte e ormai abituata a tutto, anni di fame nera e di rinunce, assunse il comando. Ai suoi ordini, impartiti dal letto, aprivo i cassetti e gli armadi, uno alla volta, e tiravo fuori non so neanche che cosa, obbedivo e basta. Ovviamente erano vestiti, biancheria, lenzuola e cose di questo genere E cominciavo a riempire quelle due o tre valigie di cui disponevamo. Ma, anche se ne avessimo avute cento, il problema era il trasporto. E cominciai i miei viaggi a Roma, su e giù, su e giù, da casa nostra a casa della nonna, di quella nonna Zenaide che conservava gelosamente tanti ricordi di quell’altra Zenaide, la Principessa Bonaparte… quel ritratto ad olio nel salotto che mi incuteva sempre ammirazione, deferenza, rispetto.
Fu così che mi presentai a casa di nonna, carico di bagagli, dopo un viaggio faticosissimo… l’assalto al treno, l’assalto al tram alla stazione di San Paolo a Roma. E cominciai la spola, infaticabbbileee… per tutte le 24 ore che avevamo a disposizione. Zia Velia mi dette una grossa mano. Venne con me a Ostia per quanto poté – non poteva lasciare l’ufficio: lavorava al Ministero degli esteri e il periodo era quello che era. Non so quanti viaggi feci. Ricordo mia sorella Pucci che per tutte le 24 ore in una mano teneva la bicicletta, nell’altra la bambola preferita… mi guardava e mi faceva capire che i suoi tesori non li avrebbe mai abbandonati. Ripeto. Non so quanti viaggi feci. So solo che l’ultimo viaggio fu quello più pesante e più faticoso. Ma non avevo neanche il tempo di essere stanco. Oltre alle valigie, c’erano anche i materassi, ed erano belli grossi e difficili a portarsi. Ci mettemmo insieme, io e Checchino, il Volontario Universitario, VU, che era tornato non si sa come dalla Russia, che abitava al piano di sotto. Trovammo un carretto sgangherato… ormai per le strade si trovava di tutto… tanti erano fuggiti senza poter portare via le ultime cose… una città sgombrata in 24 ore… Con i tedeschi con la facce sempre più truci e i fucili imbracciati… non c’era da scherzare e un materasso e una valigia non valevano certo la vita. Ma una bicicletta e una bambola valevano tanto per mia sorella Pucci. E pianse, quanto pianse, perché dovemmo lasciare i suoi beni, la sua vita. Ma la sua vita, ovviamente, era più preziosa dei suoi beni.
Finalmente, l’ultimo viaggio a Roma… ormai era notte. Scaricammo i materassi, ma… impossibile portarli fino in Via Pacini… nessun carretto a disposizione. I materassi erano tanti, i miei e quelli di Checchino. Era una calda notte di settembre. Come la principessa sul pisello, dormii su una pila di materassi. Dormii? Si fa per dire… l’occhio era più che vigile… poteva accadere di tutto con la fame e la miseria che c’erano… Nessuno era più padrone di nulla. La mattina dopo mi raggiunse la zia e… finalmente a casa… o meglio a casa di nonna. Tre persone in più in un appartamento di tre stanze, già abitato da due persone, la nonna e la zia Velia. Con una biblioteca ricchissima e tutti i ricordi napoleonici. Una chiesa più che una casa. In quel frangente mi ricordai di quella canzoncina: “Osteria dei tre moschetti. In Italia siamo stretti. Allungheremo lo stivale fino all’Africa Orientale.” 1936. Avevamo l’Impero. E stavamo belli larghi. Che brutto scivolone… quella maledetta seconda guerra mondiale.
Non avevamo più nulla, se non lo stretto necessario. A me mancavano le cose più importanti. I miei fumetti, tutti gelosamente collezionati. I miei libri, Salgari, Verne, Il principe e il povero, Mark Twain, London, Kipling, I ragazzi della Via Paal… ormai solo in gran disordine nella mia testa… e anche i testi scolastici. Questi erano il meno. Avrei fatto il liceo… tutti libri nuovi…ma dove? E quando? Ormai eravamo alla fine del mese. In quale liceo mi avrebbero accolto? Tanti dubbi. E i miei amici? E i miei compagni di scuola? Tutto perduto in 24 ore. Un disordine fisico, un disordine mentale. Comunque, ce l’avevamo fatta. La vita era salva. E dovevamo ricominciare tutto da capo.

Il “Giulio Cesare”

Ci sistemammo alla bene e meglio a casa di nonna Zenaide e quella prima notte dormii, ohhh… quanto dormii… Comunque, non avevo, non avevamo più niente. Quanto tempo saremmo restati a casa di nonna? E avremmo trovato un’altra sistemazione? E la scuola, per me e per mia sorella? E papà che fine aveva fatto? L’avevano catturato i tedeschi? Ma era un civile, non un militare. Nessuna notizia. Eppure potevamo dirci fortunati. Perché in quello stesso 24 settembre – lo sapemmo molto più tardi – i tedeschi a Rionero in Vulture avevano massacrato non so quanti civili, per rappresaglia. E poi Cefalonia. Un’intera divisone, la Divisione Acqui… tutti ammazzati, in migliaia, per ordine di Hitler in persona. Che ebbe a dire: per gli italiani traditori nessuna pietà.
Giorno dopo giorno, anzi ora dopo ora, cominciammo a “riprenderci la vita” – come si suol dire. A poco a poco. Qualche risparmio c’era, lo sapevo – ormai la mamma non aveva più segreti per me. Dopo la faticaccia del 24 settembre ero diventato Uomo. Si fa per dire. Ma il 27 era alle porte e dello stipendio di mio padre, ovviamente, neanche l’ombra. I parenti romani furono tutti generosi. Così io e mia sorella trovammo la scuola. Io al Giulio Cesare, lei alla scuola elementare di fronte a casa.
E un bel pomeriggio di ottobre… driiinnn… Suona il campanello di casa… andai ad aprire e… ERA MIO PADRE… Finalmente. Era ora. Baci e abbracci… suon di man con elle… come avrei imparato di lì a poco con l’Inferno di Dante. Baci e abbracci e tante lacrime… Finalmente… era ora… anche lui aveva avuto le sue vicissitudini con i tedeschi e, tra una tribolazione e l’altra, finalmente era riuscito a ritornare. Aveva saputo dello sgombero di Ostia e immaginò che fossimo tutti a casa di nonna Zenaide.
La famiglia era riunita, la mamma era guarita. PERO’, ci mancava una casa. Mio padre si diede un gran da fare e un amico – non ho mai ben saputo con chiarezza, ma probabilmente questo tale aveva seguito al Nord il governo repubblicano… ancora l’aggettivo dispregiativo repubblichino non l’avevamo adottato – gli prestò il suo appartamento in Via Catania, vicino a Piazza Bologna. Meglio prestare la casa a un amico che lasciarla vuota e passibile di occupazione abusiva. Così avevo capito. Così, però, non mi era stato detto.
Comunque, pensavamo sempre a casa nostra, ai nostri mobili, io ai miei libri, soprattutto. E mia sorella ci ricordava sempre la bambola e la bicicletta lasciate chissà dove… e chissà chi se l’era prese. Ogni volta un pianto.
I primi giorni di liceo furono una grossa esperienza per me. Classe prima B, sezione mista. Eravamo tutti giovanotti… e signorine, in un quartiere “bene”, fascista e piccolo borghese, non so se più l’uno che l’altro. Molti dei miei compagni “vestivano bene”, come si suol dire, e le compagne, dismesso il grembiule, nero, come di consuetudine, alla fine delle lezioni, si rifacevano il trucco… E io, invece, andavo a scuola con gli scarponi militari – esito delle “razzie” nella caserma della Guardia i Finanza di Ostia “IX Maggio”… data della proclamazione dell’Impero nel ‘36 – e i pantaloni da avanguardista tinti di blu. A Ostia non c’era una situazione simile. Vestivamo tutti con semplicità, ma eravamo, comunque, la crema “intellettuale” del Lido di Roma… Tuttavia a Roma la guerra e l’occupazione nazista attutivano tutte le differenze sociali. E a scuola si studiava, tutti. I professori facevano le loro lezioni, molto cattedratiche, interrogavano e mettevano voti, segreti, segretissimi. Palesi solo quelli dei compiti in classe. La politica non esisteva e anche noi studenti eravamo un po’ restii – i tempi erano quelli che erano – tranne quei due o tre dichiaratamente favorevoli alla Repubblica sociale. Ma parlavano da soli. E chi avrebbe dato loro spago? Comunque il fascismo si sentiva. Ricordo un certo Romano, che veniva a scuola… quando gli pareva e solo in perfetta divisa da fascista – non so di quale formazione – con tanto di stivaloni… e salutava i professori sull’attenti, sbattendo i tacchi e facendo un energico saluto romano. Le facce dei professori erano sempre le stesse, un po’ sul trasecolato, un po’ sull’ironico a stento represso. Ogni commento sarebbe stato pericoloso.
Comunque, si studiava. E guai ad arrivare tardi. Il bidello Feliciano… terribilmente severo, in divisa impeccabile… da bidello, non da fascista, con berretto e visiera, era irremovibile. Un generale. Alle 8,35 chiudeva il portone e non c’era nulla da fare. Il preside Dal Cerro non era da meno. Insomma, l’ordine era perfetto. Quando suonava la sirena d’allarme, tutti scendevamo ordinatamente le scale e andavano al rifugio, o meglio, nel sottoscala dell’edificio. E quando suonava la sirena del cessato all’arme, tutti in aula a riprendere ordinatamente le lezioni. Lo stato di guerra sollecitava una disciplina di ferro. O forse anche venti anni di fascismo? Non so, ma si studiava, sempre e come…
I miei docenti: Ripellino, italiano, padre del più noto Angelo Maria, lo slavista; Senatore, Marani, Patriarca, latino e greco (si sono succeduti nel triennio); Nicolosi Roncati, scienze, Barone, matematica. Compagni: Giorgio Marini, Mastrobuono, Sirombo, Letizia Colli, Irene D’Amelio, Cottone, Troiani, Morelli, Giulia Albeggiani, Pesce, Cosco, Erminio Ferrea…ahi. La memoria…

Lo zio Lele

La mia iniziazione alla politica – quella vera, perché quella fasulla era iniziata prestissimo – la debbo a mio zio Lele. Era un ingegnere del Genio civile, un fognarolo, amava dire di sé, perché si occupava di costruzione di strade e mi ricordava sempre: «La strada è il meno. Quello che c’è sotto è importante. Le fogne». In altri termini: «Caro Maurizio, non ti contentare mai delle apparenze». Si chiamava Israele, ma non era ebreo. Il padre era un fanatico della Bibbia e ai numerosi figli aveva dato i nomi più rappresentativi dell’Antico Testamento. E lo zio Lele con quel nome, dopo le leggi razziali del’38, ebbe il suo bel da fare per dimostrare che il suo sangue non aveva nulla a che fare con quello della razza ebraica. Carte su carte, certificati di battesimo, il suo e quelli dei suoi ascendenti, dichiarazioni su dichiarazioni, testimonianze su testimonianze… insomma un’impresa biblica per dimostrare di essere un buon cattolico… come si suol dire…
Zio Lele, in effetti, era profondamente laico e la matrice famigliare era quella socialista. Frequentavo la casa di zio Lele. C’erano le cugine, Gabriella, universitaria, che, all’occorrenza, mi dava ripetizioni di latino, e Claudia, più piccola di me di quattro anni. Con zio Lele cominciai a parlare di politica. Di politica? Sì… Di politica in senso stretto non avevo mai parlato con nessuno. Per anni e anni i miei genitori avevano soltanto taciuto. Dopo il 25 luglio i problemi erano così complessi che non era affatto facile “parlare di politica” come lo intendiamo oggi. La mamma sempre alle prese con i soldi che non bastavano e con le carte annonarie. Il padre più assente che presente. E poi, la rocambolesca fuga da Ostia… Insomma io e lo zio Lele. Una cosa assolutamente nuova. A volte stavamo ore insieme. Lui, cacciato da moglie e figlie nella stanza più lontana dell’appartamento perché fumava sigari toscani uno dietro l’altro, io, affumicato fisicamente, ma confortato spiritualmente, parlavamo di politica. O meglio, lui parlava, io ascoltavo. Fu la mia iniziazione. Cominciai a capire la natura del fascismo, che cosa significa la democrazia, che cosa sono i partiti, che cosa è il socialismo. Mi si aprì un orizzonte nuovo, anzi il primo orizzonte politico e sociale della mia vita. E su questo orizzonte… il sole nascente del socialismo. Tutte quelle parole reiette dal fascismo, sciopero, democrazia, classe operaia, rivendicazioni salariali, partiti, parlamento, elezioni e via dicendo cominciarono a far parte del mio nuovo mondo culturale. Io, abituato al pensiero unico – se si può dir così – cominciai per la prima volta a pormi dei problemi. E gli studi liceali mi accompagnavano in questo: soprattutto la filosofia. La polemica tra Socrate e i sofisti. Uno spasso, per certi versi: il ragionare e il parlare, che per Socrate è uno strumento di indagine rigorosa e mirata, per i sofisti è uno strumento per dimostrare tutto e il contrario di tutto. Insomma, l’esercizio del ragionare mi aiutava a capire i discorsi dello zio. A volte raccontava episodi, i fascisti perugini… sangue caldo… l’assalto delle squadracce alla tipografia dove si stampava il giornale socialista “La Battaglia”, al Circolo della libertà. La devastazione della Casa del Popolo. Non c’era affatto da scherzare, anche perché la polizia faceva finta di nulla.. E cominciarono a litigare anche tra di loro, Bastianini, il fedelissimo, Misuri, il repubblicano convinto.
Ed io, che avevo studiato che la Rivoluzione Fascista – sempre con le maiuscole – aveva salvato l’Italia dal bolscevismo e restituito alla Patria l’onore che la vittoria mutilata le aveva strappato… ecc…ecc… cominciavo a ragionare diversamente. Sì, c’erano state le bonifiche, la lira faceva aggio sull’oro – questa era una sorta di cantilena – e poi la battaglia del grano, e l’Onmi, l’Opera nazionale, maternità e infanzia, e tante altre belle cose, pure la Befana fascista, e pure l’impero… però… il grande errore, la guerra… Così avevo cominciato a pensare. Ma era un errore? O una conseguenza logica di una certa politica? E non ero il solo a pormi questi problemi. Tutto sarebbe andato bene, se non ci fosse stata la guerra… questa dannata guerra. Era un pensiero che girava… Invece, parlando con zio Lele, cominciai a capire che le cose erano un po’ diverse. Che il fascismo era ben’altra cosa. Era stata ben’altra cosa. L’uccisione della democrazia. Una violenza esercitata su un popolo. E una violenza morale, spirituale – diceva zio Lele – oltre che politica. Insomma, capivo che dovevo ricominciare tutto da capo, che occorreva andare fino in fondo. E mi chiedevo: ma che avevo fatto in tutta la mia adolescenza? Eh sì… Mi sentivo quasi uomo ormai. Una sorta di rinascita? Tre date. 25 luglio, 8 settembre, 24 settembre. In genere si nasce in un giorno solo. Invece per rinascere i tempi sono più lunghi. E ne ero convinto. Ogni incontro con zio Lele, un pezzettino di rinascita in più…
Cominciai con l’Avanti clandestino… lo zio Lele me ne passava qualche copia con la raccomandazione di non farmela trovare addosso: «Leggi e butta via». Così mi diceva. E io leggevo e buttavo via con grande dispiacere. Ed era anche pericoloso portarla con me. Ogni tanto i tedeschi facevano delle retate di giovani, a seconda delle loro necessità: lavori faticosi, scavi di trincee… manodopera che non costava nulla. Bloccavano una strada a testa e a valle e prendevano… a caso, ovviamente giovani e forti, almeno apparentemente. Bloccavano la porta di un cinema e all’uscita facevano le loro scelte… i più giovani e forti – sempre si fa per dire – portati via. E se mi avessero scoperto con l’Avanti in tasca, chissà quale fine avrei fatta.
E mi era pure venuto in mente – in perfetta incoscienza – di portarne qualche copia a scuola… e darla a qualche compagno… di classe, non di partito, ovviamente, che più o meno pensavo che la pensasse come me… Non ne parlai neanche allo zio Lele… mi avrebbe fatto a pezzi. E quel pensiero cadde ben presto dalla mia testa. Fortunatamente, non avevo alcuna vocazione per fare l’eroe.

La guerra. Si ricomincia…

Quel mese di ottobre fu importante per il nostro Paese. Sapemmo che il governo Badoglio aveva dichiarato guerra alla Germania. E che gli Angloamericani ci riconoscevano lo status di Paese cobelligerante… Veramente non sapevamo se piangere o ridere. Ma come? Fino a un mese prima il nemico era l’odiata Inghilterra, la Perfida Albione – avevo ancora il fez con il distintivo… ed ora… E avremmo anche dovuto combattere? E con quali armi? Con quale esercito? Con l’8 settembre si era disfatto tutto, come nebbia al sole.
Al Sud avanzavano gli Angloamericani, nel Centro e al Nord era stata proclamata la Repubblica sociale. Insomma, al Sud combattevamo contro i Tedeschi e al Centronord contro gli Angloamericani… Due governi italiani. Due governi nemici. Erano i ragionamenti di quei giorni. Di un ragazzo, ma non solo. Poi sapemmo che la cobelligeranza – quella con gli Angloamericani, i nuovi alleati, poi gli Alleati per antonomasia – avrebbe avuto un grosso peso quando la guerra fosse finita. Insomma, avremmo vinto anche noi. Tutti sul carro trionfale degli Angloamericani. Ma, se avessero vinto i tedeschi? Un altro carro trionfale. Perché eravamo alleati anche con loro. Insomma, saremmo caduti sempre in piedi. Ci consolavamo con questi ragionamenti a pera. Comunque, la realtà era dura, per noi romani, abitanti di Roma città aperta. Così si diceva… menomale che c’era il Papa.
Il tallone tedesco si sentiva, e come. E anche quello fascista. Battaglioni Emme e Brigate nere c’erano, e pattugliavano la città. Marciavano spavaldi cantando a squarciagola e guai ad imbattersi con loro vestiti un po’ eleganti – si fa per dire… in tempo di guerra l’eleganza era cosa rara. Fioccavano pugni, calci e scappellotti. Perché questi bell’imbusti ce l’avevano con i borghesi. E dicevano: borghesi del cazzo. Perché, invece di andare a spasso, non imbracciate le armi per la RSI? Erano borghesi renitenti alla leva, tuttiii… Così pensavano i volontari dei battaglioni Emme. E cantavano: “All’erta imboscati. Ché gli Emme son tornati con noi. Sarete bastonati, da noi.” E bastonavano veramente. E poi riprendevano: “Per voi ragazze belle della via, che avete il volto della primavera, per voi che siete tutta poesia e sorridete alla Camicia Nera, per voi noi canteremo le canzoni dei nostri vittoriosi battaglioni”. E poi toccava al prossimo ragazzotto con un Borsalino in testa e un nodo Scappino alla cravatta.
E poi c’era quest’altra canzone, ancora più decisa: “Hanno ammazzato Ettore Muti, / fascista tra i fascisti / vendetta, sì vendetta / farem sui comunisti. / Hanno ammazzato Ettore Muti, / la pagheranno cara, / col sangue partigiano / gli laverem la bara”. Ettore Muti, era un fascista della prima ora – come si suol dire – dalla marcia su Roma alla campagna di Etiopia, alla guerra di Spagna, e poi intrepido aviatore nel secondo conflitto mondiale. Morì in circostanze mai chiarite, nell’agosto del ’43, forse “fatto fuori” dai carabinieri che lo avevano catturato e dovevano proteggerlo, per ordine dello stesso Badoglio. Ettore Muti era un idolo per i giovani che si arruolavano nelle forze armate della RSI. Seppi di alcuni miei compagni di scuola che avevano fatto la scelta repubblicana – o repubblichina, vista dalla parte nostra – e alcuni di loro non tornarono più. Scomparsi, uccisi dai partigiani? Al Nord la lotta partigiana era visibile, aperta, si dispiegava sulle montagne e i conflitti a fuoco erano vere e proprie battaglie. E torture, fucilazioni e impiccagioni… ma lo sapemmo solo alla fine. A Roma tutto era molto sotterraneo, almeno nella percezione che avevo, che avevamo noi comuni cittadini, impegnati solo a sopravvivere e a scampare dalle retate tedesche.
E la retata più devastante fu quella del 16 ottobre, il rastrellamento del ghetto di Roma. Tutto avvenne nel giro di una mattinata. E i romani, al di là di quel quartiere, circondato ed isolato, non seppero nulla. E chi sapeva, difficilmente parlava. C’erano sempre mille orecchie ad ascoltare. La stampa non pubblicò nulla, nulla la radio. Il tallone tedesco incombeva, ce lo sentivamo addosso, ogni momento: uscivi di casa e non sapevi se saresti rientrato. Mia madre era sempre preoccupata. «Rientra prima del coprifuoco, mi raccomando». Per le retate, che sono riuscito sempre ad evitare. Coraggio, avvedutezza? No. Semplicemente… culo, come si dice a Roma. Sapevo di giovani in età di leva – la Repubblica aveva chiamato alle armi le classi 1924 e 1925, e io mi ritenevo “salvo”, essendo del ’28 – chiusi in casa, confinati nelle soffitte o nelle cantine. Tedeschi, fascisti, poliziotti li avrebbero cercati e ad ogni suono di campanello la paura faceva novanta. Io mi illudevo, con la mia carta di identità. Ma la mamma era sempre preoccupata. Ero alto, dimostravo più della mia età… e poi, se i tedeschi avevano bisogno di manodopera, non guardavano tanto per il sottile. E l’organizzazione Todt (dal suo creatore Fritz Todt) era un’impresa specializzata nel lavoro coatto. E ne avevamo tutti sentore. Sui manifesti prometteva mare e monti, ti portavano anche in Germania, e poi? Eppure non furono pochi coloro che si illusero che con la Todt ci si salvava dalla fame.

Un fantasma si aggira per l’Europa

La situazione in quello scorcio d’anno si faceva sempre più precaria. La fame era al massimo e al massimo i prezzi alla borsa nera. Roma era una città aperta, ma strade e ferrovie che portavano in città erano sempre prese di mira dall’aviazione alleata. Di fatto, eravamo sotto assedio. Quando sarebbe finita? Era l’interrogativo che angosciava tutti noi.
E gli Alleati, gli ex nemici, che non avanzavano. Bloccati sul fronte. I giornali – ormai tutti schierati per la RSI – parlavano di linee difensive fortissime e invalicabili… sapevamo che i tedeschi in fatto di guerra erano insuperabili, che uno di loro sapeva tener testa a un esercito. E si cominciava a dire che gli Alleati, invece, erano prudenti, forse troppo, non sprecavano vite umane, non avevano il mito dell’eroismo… dicevano che un soldato vivo è meglio di un sodato morto. Io, abituato agli inni trionfali, al mito dell’eroismo, da Muzio Scevola a Enrico Toti e a Giovanni Berta, “primo martire fascista”. Sapevo tutto di lui… aggredito dai comunisti su un ponte dell’Arno, fu aggredito, picchiato di santa ragione e gettato nel fiume. Tentò di aggrapparsi al bordo del ponte, ma i comunisti cominciarono a pestargli le mani con i piedi e Berta cadde nel fiume e annegò. Non c’era libro di testo delle elementari che non riportasse questa storia e i relativi raccapriccianti disegni. E pure certi tombini portavano il suo nome: “Fonderie Giovanni Berta Firenze”.
Le giornate erano tutte nere, e la fame e la paura non cedevano nulla a velleità eroiche, almeno per me. Riuscivo a sopravvivere, a non morire di fame, a frequentare la scuola, e questo era sufficiente. E poi avvertivo di crescere intellettualmente – se si può dir così – conversando con lo zio Lele. Mi dette anche un libro, vecchio e sgualcito che lui aveva conservato gelosamente ma di nascosto. Era il “Manifesto del Partito Comunista”, sì proprio quel libello che Marx ed Engels, nomi assolutamente nuovi per me, avevano pubblicato a Londra nel lontano 1848. E cominciai… “Uno spettro si aggira per l’Europa: lo spettro del comunismo. Tutte le potenze della vecchia Europa si sono coalizzate in una sacra caccia alle streghe contro questo spettro: il papa e lo zar, Metternich e Guizot, radicali francesi e poliziotti tedeschi…” Un incipit non molto incoraggiante… per me, abituato all’Uomo mascherato, lo spettro che cammina (un fumetto di Lee Falk, che andava per la maggiore negli anni trenta da noi, edito dalla Nerbini di Firenze). Solo più tardi avvertii di quale spettro si trattava.
Concetti assolutamente nuovi. Classi sociali, borghesi, classe operaia, lotta di classe, capitalismo, sfruttamento… dell’uomo sull’uomo… Insomma, le categorie stesse del mio approccio alla storia venivano rivoluzionate. Io ero abituato ai popoli, alle razze, alla razza bianca, agli indoeuropei, agli ariani soprattutto, assolutamente puri, ai bianchi che portano la civiltà agli indiani d’America e ai negri d’Africa. La storia per me era fatta di Popoli, di Nazioni, di Stati… di guerre tra Popoli, Nazioni, Stati… invece dovevo impadronirmi di un nuovo linguaggio, anzi di un nuovo modo di vedere i popoli e la stessa storia. Lo zio Lele mi accompagnò in questo radicale cambiamento di orizzonte. Mi raccontò che nella prima guerra mondiale tra il contadino del nostro Sud e quello degli junker tedeschi, o meglio, dei proprietari terrieri tedeschi, non c’era alcuna differenza come condizione di vita: ambedue sfruttati e mandati al macello per cause che non erano le loro. Sapevo che nella guerra mondiale c’erano state le decimazioni, contro quei vigliacchi che non volevano uscire dalla trincea. Che non sapevano che la guerra è l’igiene dei popoli. Enrico Toti per me era un idolo. E con lui tutti gli eroi del Risorgimento che ad ogni fucilazione trovavano sempre il fiato per gridare viva l’Italia. Allora, quei contadini del nostro Sud, delle campagne austriache e ungheresi… altro che Impero Austro-Ungarico con tanto di maiuscole, forse, proprio dei vigliacchi non erano. Ma solo dei disperati, uomini strappati alle loro terre, alle loro famiglie e mandati al macello per ragioni che non solo non conoscevano, ma che non erano neanche loro. In larga maggioranza analfabeti o quasi, che neanche sapevano in quale regione del mondo fossero costretti a sparare e ad essere sparati. Quando un veneto e un siciliano non erano neanche in grado di capirsi. Stranieri tra di loro.
E mi dette anche un libro, di un certo Erich Maria Remarque, Niente di nuovo sul fronte occidentale. Era stato pubblicato da Mondadori agli inizi degli anni Trenta. E mi disse anche che in America avevano girato un film dello stesso titolo, ma che in Italia non era mai apparso. La censura fascista non poteva far circolare un film che rappresentava la guerra come un gran macello e non come un’eroica vicenda. La generazione degli anni Trenta, la mia, sarebbe stata infettata da un film di questo tipo. Ero abituato all’Assedio dell’Alcazar – guerra di Spagna – con Fosco Giachetti nella parte del colonnello Moscardot. A Scipione l’Africano, alla Corona di ferro, al Sommergibile Alfa Tau. Ed anche a Luciano Serra pilota. E a Uomini sul fondo. Tutti eroi. E felici di esserlo.
Insomma, il Manifesto e il romanzo suscitarono in me tanti interrogativi, ai quali davo risposte che dovevano contraddire tutta la struttura cognitiva – se si può dir così – che avevo costruito con fatica ed entusiasmo nella mia adolescenza, e non solo. Anche la mia infanzia di balilla escursionista era stata condizionata in funzione di quella struttura. E mi chiedevo anche perché i miei genitori non mi avessero messo sull’avviso. Ma zio Lele mi rassicurò: anche lui con le mie due cugine, Claudia e Gabriella era stato, di un’estrema prudenza. «E poi con il ’38, con le leggi razziali, mi disse, c’era pure quella complicazione del nome. Israele. Ma che cosa si era messo in testa mio padre… L’amore per la Bibbia». E avrebbero rischiato, lui e la sua famiglia, la deportazione ad Auschwitz.

La fine di un anno terribile

Insomma, non vedevamo l’ora che tutto finisse. Ormai era chiaro che la guerra non era più cosa nostra. Che i due governi, quello di Salò e quello del Sud, non avevano alcuna voce in capitolo. Quello del nord di fatto teneva bordone ai tedeschi, anche se, e questa era il risvolto drammatico, molti giovani in buona fede ritenevano che occorresse riscattare un onore perduto per il tradimento del re e di Badoglio. Quello del Sud arrancava perché al nostro Paese fosse restituito un minimo di dignità: perché la guerra non era stata dichiarata dal popolo italiano, ma da un governo dittatoriale.
In effetti, se De Gasperi, nel ’46, dopo la nascita della nostra Repubblica, poté intervenire alla Conferenza di pace di Parigi, questo lo si dovette alla nostra Resistenza antifascista. L’incipit del suo discorso suscitò consenso e profonda commozione. E mi piace riportarlo:

“Prendendo la parola in questo consesso mondiale sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me: e soprattutto la mia qualifica di ex nemico, che mi fa considerare come imputato e l’essere citato qui dopo che i più influenti di voi hanno già formulato le loro conclusioni in una lunga e faticosa elaborazione. Non corro io il rischio di apparire come uno spirito angusto e perturbatore, che si fa portavoce di egoismi nazionali e di interessi unilaterali? Signori, è vero: ho il dovere innanzi alla coscienza del mio Paese e per difendere la vitalità del mio popolo di parlare come italiano; ma sento la responsabilità e il diritto di parlare anche come democratico antifascista, come rappresentante della nuova Repubblica che, armonizzando in sé le aspirazioni umanitarie di Giuseppe Mazzini, le concezioni universaliste del cristianesimo e le speranze internazionaliste dei lavoratori, è tutta rivolta verso quella pace duratura e ricostruttiva che voi cercate e verso quella cooperazione fra i popoli che avete il compito di stabilire..”.

Un incipit ecumenico, potrei dire: un’Italia profondamente antifascista, che con la Resistenza ha ritrovato se stessa e le sue profonde vocazioni, repubblicane, cristiane, operaie, internazionaliste.
Forse anch’io ero alla ricerca di una dignità. Anche perché che cosa fosse il nazionalsocialismo, ormai nazismo, era sotto gli occhi di tutti. Si sapeva che i tedeschi compivano stragi – correvano voci terribili, nulla di ufficiale, ovviamente – mentre gli angloamericani no. O per lo meno, non ne avevamo notizia. E aspettavamo con ansia. Indirettamente sapemmo che gli Americani erano entrati a Napoli, ma che i tedeschi erano stati costretti a fuggire prima da un’insurrezione popolare, le “quattro giornate di Napoli”. E nel ’62 Nanni Loy volle ricostruirle in un film di grande e drammatica intensità.
Sarebbe successo anche a Roma? Mah. Purtroppo le truppe alleate erano ancora lontane. Sembrava che marciassero con molta lentezza. Ci chiedevamo – o meglio, se lo chiedeva zio Lele, ed anche mio padre – se c’erano ragioni politiche o militari. La linea difensiva dei tedeschi sembrava resistere, e sapevamo che i crucchi, quando ci si mettono, sono duri a cedere. E il Führer e il nazismo erano stati ben più convincenti e persuasivi verso i tedeschi rispetto a quanto lo erano stati il Duce e il fascismo verso gli italiani. Il ministro giapponese Matsuoka non avrebbe mai formulato quel pensierino “i vostri soldati non guardano tutti nella stessa direzione”, se si fosse trovato di fronte a una parata di militari tedeschi. Lo sapevamo tutti che i soldati tedeschi erano tutti di un pezzo. E che Hitler aveva un ascendente indiscutibile sul suo popolo. Tutti noi avevamo assistito al fatto che il nostro popolo italiano, che nel ’40 aveva applaudito alla guerra, nel ’43 aveva applaudito alla caduta del suo idolo. In soli tre anni. Un popolo di voltagabbana?

La miglior vendetta è l’eccidio.

Il 1944 si aprì con tre avvenimenti importanti.
A Verona si consumò la vendetta di Mussolini contro i gerarchi che in quella notte del 24 luglio avevano votato l’ordine del giorno Grandi e avevano messo in minoranza il Duce e i gerarchi a lui fedeli. Dopo un processo durato appena tre giorni, l’11 gennaio Galeazzo Ciano, già potente ministro degli esteri, genero di Mussolini, e altri cinque imputati vennero fucilati. E vi furono ben altre quattordici condanne a morte, erogate in contumacia. In effetti la condanna capitale raggiunse tutti coloro che in quella fatidica notte avevano votato contro Mussolini. Tra questi vi erano Dino Grandi, l’autore dell’ordine dl giorno, Bottai, De Vecchi, De Marsico e altri, tutti fascisti della prima ora. Il 22 gennaio gli Angloamericani sbarcano ad Anzio: appena una quarantina di chilometri da Roma. Ormai eravamo convinti che fosse solo questione di giorni. Invece. La resistenza dei tedeschi e dei soldati della RSI fu decisa e tenace: gli alleati dovettero limitarsi soltanto a mantenere la testa di ponte. Il terzo avvenimento fu il bombardamento dell’Abbazia di Montecassino. Gli alleati erano convinti che in quell’abbazia, arroccata su una vetta dominante la vallata cassinese, i tedeschi avessero costituto posizioni difensive pressoché inespugnabili: il che in effetti non era vero.. Ma gli americani disponevano di informazioni diverse – almeno così sembra – e decisero di bombardare comunque l’abbazia. Era il il 15 febbraio. Fu un bombardamento a tappeto spaventoso. E sembrava che le bombe non finissero mai. I tedeschi di fatto non subirono perdite di rilievo, ma ebbero buon gioco attivando posizioni difensive proprio tra le mura diroccate.
Ma questi avvenimenti erano poca cosa rispetto a quanto le grandi potenze stavano progettando riguardo ai destini del pianeta. I Tre Grandi già cominciavano a pensare al dopo guerra, che erano certi di vincere, e a come si sarebbero spartiti le zone di influenza… ovvero… questo a me e questo a te. Ciò si decise nella Conferenza anglo-sovietica di Mosca del 9-10 febbraio 1944:

«La sera stessa del loro arrivo Churchill e Eden furono invitati a cena al Cremlino da Stalin e Molotov. Fu verso la fine della serata, trascorsa, a quanto lasciano intendere i documenti della delegazione inglese, in un’atmosfera gastronomica pantagruelica, che Churchill andò subito al cuore del problema. Stalin si dichiarò pronto a discutere su tutto. Disse di capire l’esigenza britannica di riottenere il controllo sulle rotte mediterranee e di voler voce in capitolo sulla Grecia. Dal canto loro gli inglesi dovevano capire le esigenze russe in Romania e Bulgaria. Preso un mezzo foglio di carta, Churchill vi scarabocchiò sopra i termini dell’accordo, indicando le percentuali di influenza angloamericana e russa nei diversi Paesi dell’Europa centrale e sudorientale: Ungheria 50 e 50, Romania 10 e 90, Bulgaria 25 e 75, Grecia 90 e 10, Jugoslavia 50 e 50. Stalin lesse l’appunto senza fare commenti e con una matita blu appose un segno di spunta che stava per ‘visto’, ma anche per una sostanziale accettazione del metodo delle aliquote. «La faccenda – raccontò in seguito Churchill – fu così completamente sistemata in men che non si dica. Seguì un lungo silenzio. Il foglio segnato a matita era lì al centro della tavola. Finalmente io dissi: ‘Non saremo considerati cinici per il fatto che abbiamo deciso questioni così gravide di conseguenze per milioni di uomini in maniera così improvvisata? Bruciamo il foglio?’ ‘No. Conservatelo voi’, disse Stalin. E così feci”» (da Alessandro Frigerio, Come Churchill e Stalin decisero il destino dell’Europa).

Comunque, gli avvenimenti tremendi di questo inizio del ‘44 non influivano più di tanto nella mia vita scolastica. I professori ovviamente tacevano. Noi studenti non parlavamo tanto, un po’ per la consegna del silenzio che, penso, fosse stata imposta da ogni famiglia, un po’ perché capivamo quanto potesse essere pericoloso. Tra di noi c’erano studenti fascisti più o meno dichiarati – l’intero Paese del resto era nettamente diviso – e sapevamo tutti che la prudenza era cosa saggia. Io ormai leggevo la stampa clandestina – lo zio Lele me ne girava sempre qualche copia. Io avevo sempre una voglia matta di chiedergli come se la procurasse, ma sapevo che non potevo né farlo né pensarlo. Anzi, forse mi avrebbe detto che non avevo capito niente della difficile situazione in cui tutti ci trovavamo. Oltre all’Avanti mi portò anche qualche copia de l’Unità, organo centrale del Partito Comunista Italiano, fondatori Antonio Gramsci e Palmiro Togliatti (Ercoli). Lo zio si premurò di informarmi su chi fossero Gramsci e Togliatti e perché quest’ultimo si chiamasse anche Ercoli, il nome di battaglia di chi lottava contro il nazifascismo in clandestinità.
E poi Via Rasella. Il 23 marzo era una ricorrenza per i fascisti: la fondazione dei Fasci di Combattimento, avvenuta in Milano a Piazza San Sepolcro nel 1919. Era stato un avvenimento di grande importanza. Al nuovo movimento avevano aderito anche intellettuali, scrittori e poeti che già si erano impegnati in favore della guerra. In quella occasione Filippo Tommaso Marinetti aveva scritto un poema, il “Poema dei Sansepolcristi”. Un inno a Mussolini. “Il Duce in primo piano il Duce potenza irradiante fuor da un corpo solido elastico pronto allo scatto senza pesi ne’ abitudini per un continuo pensare volere decidere agguantare schiacciare respingere accelerare verso la nuova luce…” Quel Marinetti del Manifesto del Futurismo era lo stesso che anni prima, nel 1911 aveva scritto “Uccidiamo il chiaro di luna”: un opuscoletto che zio Lele conservava con grande cura. «Leggi, leggi – mi disse – se non erano dei pazzi. La guerra per Marinetti è l’igiene dei popoli. Come una saponetta o un dentifricio… tutti pazzi, tra fascisti e futuristi». E io lessi. E che cosa lessi: “Sì, i nostri nervi esigono la guerra e disprezzano la donna, poiché noi temiamo che braccia supplici s’intreccino alle nostre ginocchia, la mattina della partenza…. Che mai pretendono le donne, i sedentari, gl’invalidi, gli ammalati, e tutti i consiglieri prudenti? Alla loro vita vacillante, rotta da lugubri agonie, da sonni tremebondi e da incubi grevi, noi preferiamo la morte violenta e la glorifichiamo come la sola che sia degna dell’uomo, animale da preda…” E avanti, tutto dello stesso tenore. In effetti rabbrividii, ma… ricordavo anche che fino a qualche tempo fa anch’io credevo che la guerra, e solo la guerra, fosse la grandezza di un popolo… e che con Mauro avevo pure provato a scappare di casa per andare in Libia a combattere. La nostra ignavia ci salvò… Fortunatamente.
E poi il disprezzo per gli invalidi e per gli ammalati… gente inutile, da buttar via… E lo sterminio dei disabili, pianificato da Hitler con un disegno più che lucido: purificare la razza… i prodromi dello sterminio degli ebrei… e ancora in quegli anni non sapevamo nulla. Io non sapevo nulla, ma zio Lele qualcosa sapeva: «In Germania ammazzano tutti i più deboli. Sono stati prodotti anche dei film sulla necessità di farli fuori. Gli handicappati costano troppo. Soldi buttati. Una propaganda nera… In Germania tutti lo sanno e tutti acconsentono. Seguono Hitler ciecamente. E lo seguono ancora. Questi si fanno ammazzare tutti… piuttosto che arrendersi. Sono dei pazzi… e dei mascalzoni, tutti i tedeschi. Sono tutti responsabili. Anzi degli irresponsabili». E ancora non sapevamo nulla delle camere a gas.
Insomma quella ricorrenza del 23 Marzo i partigiani gliela vollero festeggiare, a modo loro. Con la bomba di Via Rasella. A cui seguì l’eccidio delle Fosse Ardeatine. La stampa romana il 25 marzo riportava un secco comunicato dell’agenzia Stefani, su due colonne, con caratteri normali: “Nel pomeriggio del 23 marzo 1944 elementi criminali hanno eseguito un attentato contro una colonna tedesca di transito in via Rasella. In seguito a questa imboscata, 32 uomini della polizia tedesca sono stati uccisi e parecchi feriti… Il Comando tedesco ha deciso di stroncare l’attività di questi banditi. Nessuno dovrà sabotare impunemente la cooperazione italo-tedesca. Il Comando germanico ha, perciò, ordinato che, per ogni tedesco ucciso, dieci criminali comunisti badogliani siano fucilati. Quest’ordine è già stato eseguito”. Zio Lele mi mostrò l’Unità clandestina con titoli di scatola: “Gloria eterna ai 320 fucilati di Roma. Vendicare i nostri martiri – Liberare la nostra Patria – La guerra partigiana a Roma – Colonna di carnefici tedeschi attaccata in ViaRasella – 32 nemici uccisi – Vili e selvagge rappresaglie contro la popolazione – 320 ostaggi fucilati – Una volgare e subdola manovra del comando hitleriano”. E infine due articoli di commento: “Coscienza della responsabilità” e “L’eredità dei martiri”. Lessi, quasi con avidità. Dalla parte tedesca uno scarno ma terribile comunicato; dalla parte dei partigiani un’azione di guerra contro l’occupazione nazista.
A casa, semplicemente rabbrividimmo: trecentoventi persone fucilate. Una notizia così importante in poche righe in una pagina interna dei quotidiani. E dove le hanno prese queste persone? In qualche retata? E dove le hanno fucilate? Interrogativi inutili. Semplicemente paura e rabbia… E i miei genitori sempre più preoccupati per me. La solita solfa: alto e magro, dimostra più della sua età: sempre buono per l’organizzazione Todt… e anche per la prossima fucilazione. L’amara ironia di giorni terribili
Qualche giorno dopo lo zio Lele mi passò un volantino del Partito Comunista Italiano: “Compagni lavoratori. La feroce repressione tedesca e fascista non ci spaventa. Noi proseguiamo per la nostra strada. Noi non perderemo occasione per manifestare la nostra volontà di liberare l’Italia e il mondo dalle dittature fascista e nazista. Viva il comunismo. Viva la Russia. Viva Stalin.” Era la prima volta che prendevo contatto con lo scritto di un partito che dalla nascita avevo sempre percepito come la diabolica invenzione dei nemici dell’umanità. Proprio così…

Finalmente una casa

Dopo tanto penare in case altrui, finalmente AVEMMMO UNA CASAAA… Una casa dell’Incis, Istituto nazionale case impiegati statali. Ne avevamo pieno diritto. Anche quella di Ostia era dell’Incis. Così, prendemmo armi e bagagli, quei pochi di cui potevamo disporre e ci trasferimmo nel nuovo appartamento. La gioia era infinita. Si trovava in Via Valdinievole, zona periferica di Roma est. Si trattava di appartamenti di risulta, comunque dignitosi, perché erano stati costruiti anni prima come “alberghi di massa”, così chiamati, che sarebbero entrati in funzione con l’avvio dell’Esposizione Universale Romana. Sì proprio l’EUR. Ed era previsto un collegamento ferroviario – la ferrovia passava e passa tuttora a poche centinaia di metri di lì – e stradale… c’era già una traccia sulla carta, quella che poi nel 1960 sarebbe diventata la Via Olimpica, ancora oggi in funzione.
Di quella casa avevamo pieno diritto, dopo tanto penare. Ed eravamo riusciti anche ad arredarla. E come? Dopo tante traversie eravamo riusciti a ottenere un permesso per rientrare a Ostia a riprendere i nostri mobili. Dodici ore di tempo. Soltanto. I tedeschi non scherzavano. Doveva essere l’inizio del ’44. Partimmo, io, mamma, papà e l’infaticabile zia Velia con un camioncino, ovviamente scassato. Giungemmo ad Ostia antica… fummo fermati dalla polizia e dai tedeschi… nulla da fare per il camioncino… dovemmo cambiarlo con un carretto altrettanto precario… da trainare a mano… e avremmo ripreso il camioncino al ritorno… quindi a piedi da Ostia antica a Ostia mare… e lì giunti… il deserto… qualche anima in pena che forse attendeva allo stesso nostro compito… il nostro bel palazzo bianco… salimmo le scale, piano dopo piano, noi abitavamo al quinto, all’ultimo… le porte degli appartamenti tutte sfondate… già immaginavamo che cosa avremmo trovato. Nel nostro appartamento sembrava che fosse passato un terremoto… tutti i mobili sfondati, letteralmente… e dire che la mamma aveva chiuso tutto a chiave, speranzosa… caricammo tutto ciò che potemmo recuperare, reti e letti in primo luogo, armadi, librerie, tavolini, seggiole… qualche piatto e qualche bicchiere… cocci a terra a non finire… ma che cosa avevano combinato i soldati tedeschi? O forse anche qualche sciacallo italiano… mah… E caricammo alla meno peggio… tutta la strada a piedi fino a Ostia antica… ci incamminammo… e spingevamo, che faticaaa…noi e qualche altro disgraziato con altrettanti carretti scalcinati.
A un certo punto, il rombo di un aereo… uno solo, un caccia forse… e poi giù in picchiata… neanche il tempo di capire… raffiche di mitragliatrice… scappa di qua e di là… e sentivamo le pallottole fioccare…poi una seconda picchiata, a volo radente… altre raffiche, atro terrore… poi più nulla. Scomparso all’orizzonte. Non avemmo neanche il tempo di capire se fosse tedesco o alleato. Si fa per dire. Si era divertito a fare il tiro a segno? Pensava che fossimo una colonna di militari? Mah… E finalmente a Ostia antica… scarica e carica ciò che avevamo recuperato… e poi a Roma, fino a via Valdinievole.
Comunque, riuscimmo ad arredare alla meno peggio la NUOVA CASAAA… finalmente… e c’era pure uno stanzino tutto per me. Con bagno annesso. Una nuova vita. Una vita decente, anche se la fame e la paura del giorno dopo erano sempre presenti
La vita procedeva in quella primavera del ’44, sempre eguale, noi romani divisi tra paure e speranze, la paura di quello che ogni giorno poteva succedere, la speranza che la guerra finisse il più presto possibile. I miei studi procedevano senza particolari difficoltà,ma anche senza particolari entusiasmi. Si avvertiva il distacco tra la scuola e la vita. In aula tutto sembrava normale: le lezioni, i compiti, le interrogazioni, i voti. Le ansie restavano tutte fuori di quel portone che Feliciano chiudeva puntualmente alle 8,35. Non era facile discutere con i compagni delle cose che mi interessavano veramente… l’andamento della guerra, gli accadimenti futuri… Insomma ciò che discutevo, con zio Lele soprattutto e con i miei genitori, non apparteneva affatto alla scuola. Certamente mi interessava la filosofia, ma più come pretesto per discutere e approfondire che come materia in sé. Insomma, rimproveravo alla scuola di non darmi gli strumenti per capire ciò che accadeva fuori delle sue mura. In effetti, sbagliavo, perché quegli studi mi hanno dato tanto e solo in seguito ne ho potuto apprezzare il valore. Ma in effetti preferivo discutere con lo zio Lele più che con Prestipino, il mio professore di filosofia.

Lo zio Gino

Ma avevo un altro zio, lo zio Gino, avvocato in Terni, di cui, in quel periodo, non sapevamo più nulla. Seppi dallo zio Lele che era repubblicano. Repubblicano? Non ci potevo credere. Associavo l’aggettivo repubblicano alla RSI. Lo zio Lele mi spiegò che c’era un partito antifascista che si ispirava a Mazzini. E che i repubblicani avevano pure combattuto in Spagna contro i fascisti del generale Franco. Tutte cose che non sapevo. Con altri fuorusciti avevano dato vita alle Brigate internazionali che erano corse in aiuto della Repubblica spagnola contro i franchisti. Gli italiani erano tanti. E mi fece anche dei nomi, Nenni, Pacciardi, Longo, Pajetta, Togliatti, Di Vittorio, personaggi assolutamente nuovi per me, ma che erano impegnati nella resistenza contro i nazifascisti e che in seguito avrebbero svolto un ruolo importante nell’Italia repubblicana. Mi disse che lo zio Gino non mi aveva mai detto nulla per le ragioni che ormai già sapevo: era pericoloso. E mi fece vedere anche alcune copie de “La Voce Repubblicana”. Insomma – pensavo – questi antifascisti sono tanti, e tanti sono i partiti antifascisti a cui hanno dato vita. E partiti che avevano operato anche in pieno fascismo, dei quali però non avevo saputo assolutamente nulla. La violenza di una dittatura… Solo dopo la liberazione di Roma sapemmo che lo zio Gino, moglie e figli avevano lasciato Terni, sempre sotto le bombe per via delle acciaierie, e si erano rifugiati in campagna, a Ocosce, presso Cascia.
Zio Lele aveva anche informazioni di prima mano di ciò che accadeva nell’Italia liberata… ormai l‘aggettivo liberata per me aveva un senso preciso, anche se a governarla c’era quel re Pippetto che ci aveva piantato in asso l’otto settembre del ’43. Zio Lele era fermissimo contro il re Pippetto. «Ce ne dobbiamo liberare, al più presto. Non possiamo più tollerare un re che per vent’anni è stato in combutta con Mussolini. Dobbiamo rovesciare la monarchia e costituire una repubblica, una repubblica socialista». Facevo fatica a capire. L’Italia una repubblica? E pure socialista? Ma come? Non eravamo nati come nazione proprio con i Savoia? A loro dovevamo molto, se non tutto. E poi c’erano stati i plebisciti. E poi sia Garibaldi che Mazzini avevano riconosciuto la monarchia sabauda. Questo mi dicevano i libri di storia delle elementari e del ginnasio. Forse nel liceo avrei studiato meglio e di più, o meglio nel liceo di una repubblica italiana… così cominciavo a pensare. Ma quando il mio liceo sarebbe stato anch’esso “liberato”? E pensavo anche a quale violenza mi aveva sottoposto il fascismo. Un partito unico, una storia unica, un pensiero unico. Una camicia nera unica. E tutti in divisa. Quella divisa che a me piaceva tanto. Ma non a mio padre. Quei pantaloni da avanguardista, che con il fascismo erano grigioverdi e che nel pieno di un disastroso conflitto erano diventi blu.
Nel frattempo quei partiti, che nelle zone occupate dai tedeschi operavano in clandestinità, nell’Italia del Sud agivano, invece liberamente ed erano in fiera polemica con il governo del re e di Badoglio. Sostenevano che erano responsabili del disastro di cui tutti in Italia stavamo soffrendo e che avrebbero dovuto cedere il posto a un altro governo, costituito dai rappresentanti dei partiti democratici che si erano ricostituiti dopo il 25 luglio. Badoglio non era affatto d’accordo, ma soprattutto non erano d’accordo gli alleati angloamericani che con quel governo avevano trattato l’armistizio. Anche lo zio Lele sosteneva che il re se ne doveva andare al più presto. «Però, non è facile, Maurizio mio. Quel governo per gli alleati è una garanzia».
Ma un giorno zio Lele mi disse che era tornato Palmiro Togliatti dalla Russia, o meglio dall’Unione delle repubbliche socialiste sovietiche, un uomo di Stalin, capo indiscusso dei comunisti, che era sbarcato a Salerno e che aveva imposto al suo partito, al Partito Comunista una nuova linea. Con la quale zio Lele non era affatto d’accordo. In sostanza Togliatti aveva proposto ed imposto al suo partito una linea morbida: era inutile contrapporsi al governo del re e di Badoglio. Sarebbe stato più opportuno sostenerlo perché la cosa più importante e prioritaria era quella di cacciare i tedeschi dall’Italia. E che, per quanto riguarda la monarchia, sarebbe stato il popolo a decidere dopo la vittoria, che si riteneva vicina. Io capivo molto poco della situazione politica di un regno lontano da noi mille miglia, perché c’era un’assenza pressoché assoluta di informazioni. E masticavo poco o nulla di partiti: comunista, socialista, liberale, repubblicano, democratico cristiano pure… aggettivi dai significati molto molto vaghi. E c’era pure un partito di azione. Quale azione? Mah…
Zio Lele non ne voleva sapere nulla né del re né di Badoglio. Però, dovette bere il calice amaro: «Ma che ha combinato questo Togliatti? Viene dalla Russia. Che ne sa delle cose nostre».. Invece le sapeva benissimo. Eravamo noi che non le sapevamo. Ma questo fu il senno del poi.
Alla fine di aprile ci giunse notizia che si era formato un nuovo governo, sempre guidato da Badoglio, nel quale erano entrati uomini di tutti i partiti antifascisti. Il re non ne aveva voluto sapere di andarsene e si era limitato a dichiarare che avrebbe nominato il figlio Umberto, Principe di Piemonte, luogotenente del regno, quando Roma fosse stata liberata. E alla fine della guerra il popolo avrebbe scelto liberamente tra il regime monarchico e un nuovo regime repubblicano. Io capivo poco di politica, ma quella scelta non mi sembrava una cosa dell’atro mondo. Zio Lele, invece, non ne voleva sapere. «Non ci liberemo mai di casa Savoia. Quando avremo cacciato i tedeschi, il re ci riporta i fascisti. E saremo da capo a dodici». Non l’avevo mai visto così infuriato. E mi sarebbe piaciuto parlare di questa scelta a scuola… Il professore di italiano, infatti, mal sopportava lo sbatter di tacchi di Romano, l’alunno fascista, sempre in divisa… lo si vedeva chiaramente, ma… sapevo che era impossibile. E non vedevo l’ora che arrivasse questa benedetta democrazia, perché scambiare idee in fatto di politica, di partiti, di governi, mi sembrava una bella cosa, necessaria, soprattutto.
Poi venne maggio, il mese delle rose, il mese della speranza. E la speranza ci fu. Gli angloamericani sfondano la linea Gustav, quella linea difensiva che i tedeschi avevano allestito dal Tirreno all’Adriatico e che passava per Cassino. Anzi, l’avevano allestita i civili della organizzazione Todt – che cosa non si fa per un tozzo di pane.
In pochi giorni la V armata americana e l’VIII armata britannica, guidate rispettivamente dai generali Clarck e Montgomery – che memoriaaa… Grazie tante. Diventarono i nostri idoli. – risalgono la penisola. I combattenti di Anzio riescono finalmente a rompere quell’assedio a cui truppe tedesche e fasciste li avevano costretti e finalmente, la notte del 4 giugno gli americani…ENTRANO A ROMA; DA PORTA SAN GIOVANNI.

La LIBBERAZZIONEE…

Ma andiamo con ordine. A primavera inoltrata capimmo che ormai si era all’inizio della fine. Soldati tedeschi in giro se ne vedevano sempre di meno. Forse anche loro erano in trepida attesa. Poi ci accorgemmo che cominciavano a lasciare Roma. Di notte si sentiva uno sferragliare di carri. Si era curiosi, ma il coprifuoco ci vietava di uscire. Comunque salimmo sulle terrazze degli stenditoi, al di sopra dell’ultimo piano e vedemmo… in grande silenzio e senza mostrare nulla di noi, se non gli occhi più attenti che mai. Furono più notti. E per ore e ore dal tramonto all’alba passavano cari e carri, cavalli e cavalli, camion e camion e soldati appiedati… tedeschi, in assetto di guerra, ma… nulla di quella fierezza sempre ostentata quando marciavano. Passi lenti dei soldati, uno dietro l’altro, zaini e fucili… per ore e ore tutta la Via Nomentana in quelle ultime notti di maggio era un brulichio di tedeschi in marcia. Non era la marcia trionfale del vincitore, ma la marcia funebre dello sconfitto. E noi in silenzio a guardare di sottecchi e a commentare a bassa voce…
Eravamo vicini, vicini alla fine, all’inizio di un nuovo giorno? Speravamo? Eravamo certi? Era difficile essere ottimisti, e si ascoltava la radio, anche Radio Londra… quei messaggi speciali, di cui non capivamo mai il significato. Poi agli inizi di giugno più nulla… I tedeschi c’erano ancora? Non c’erano più? Era difficile a dirsi. Da un quartiere all’altro della città si incrociavano le telefonate, ma la prudenza era sempre d’obbligo… In tutti i quartieri vigeva solo il silenzio. Niente passi marziali… perché i tedeschi anche in libera uscita marciavano, e sempre con lo stesso passo, a testa alta e con le facce aggrondate. Niente passi marziali, niente tedeschi. Davvero non c’erano più tedeschi a Roma? O stavano chiusi a doppia mandata nelle loro caserme?
2 giugno… niente, 3 giugno, niente, 4 giugno, niente… No. No. No. SIII… In serata una telefonata dal quartiere San Giovanni a un coinquilino: «So’ arivati l’americaniii… Ammazzeli, quanti so’… Ce so’ carri armati, camion, autoblinde, auto scoperte, piccole, veloci, tante, tutti in fila… ammazza che sordati… rideno… e salutano pure…». La notizia si diffuse prestissimo, di pianerottolo in pianerottolo, di scala in scala, ma parole solo sussurrate… Il sottovoce era d’obbligo. Era vero? Era uno scherzo? Come mai qui da noi niente? Solo un grande silenzio in una bella notte serena. Con la luna di sempre…
Una notte insonne… avemmo altre conferme sempre dai quartieri di Roma Sud, ma a Roma Est niente, solo un silenzio di piombo, dietro le finestre o sulla grande terrazza del palazzo… e neanche un colpo di fucile… come erano entrati? Roma era città aperta, c’era pure il Papa, ma… con i tedeschi c‘era poco da scherzare…Possibile? Avevano lasciato Roma, così, senza ferire, senza neanche un colpo di fucile?
All’alba uno scoppio tremendo, poi qualche colpo di fucile, una sparatoria, lontana, veniva da Monte Sacro, poi il silenzio. Che era successo?
Alle prime luci del mattino cominciammo pian piano a mettere il naso fuori della finestra e a uscire di casa, prima due a due, poi sempre di più, alle 8 eravamo tutti fuori casa. La Via Nomentana si animava, si animava sempre di più, e tutti verso Monte Sacro, verso il ponte sull’Aniene, non quello vecchio, quello romano su cui passa la Via Nomentana, quello nuovo, il Ponte Tazio, degli anni Venti, che collega la città alla Città Giardino, un quartiere tutto nuovo, tutte villette e, ovviamente giardini.
Il ponte Tazio si presentava con uno squarcio terribile. Era impraticabile alle auto, non ai pedoni. I tedeschi in fuga avevano tentato di farlo saltare. C’era stato un conflitto a fuoco. Ricordo una jeep – non sapevamo ancora che certi mezzi veloci degli americani si chiamavano così – a fianco sulla strada con il muso sul marciapiede; un gran telone la ricopriva e da un lato fuoriusciva lo stivaletto di un militare. Una piccola folla intorno. Un militare americano ucciso nel conflitto a fuoco dell’alba. Poi giunse un altro mezzo americano e portò via jeep e il soldato morto. LA FINE DELLA GUERRA… tutti pensavamo così. LA FINE DELLA GUERRA, anche quella personale, che ciascuno di noi lì presenti aveva subito.
Quel cinque giugno fu una gran festa. Quale meraviglia. Quali meraviglie. Soldati con divise a noi sconosciute. Tutti in camicia. E che belle stoffe. Niente grigioverde, niente fasce ai polpacci. Niente scarpe chiodate. Scarponcini leggeri, elastici. E poi volti sereni. Bei ragazzi, ridenti, alti, ben nutriti. Con la barba fattaaa… Divise semplici, comode, pulite. E sembravano disarmati… E parlavano con noi, volevano parlare e cantavano e volevano che noi cantassimo. Canzoni napoletane e poi “Oi Marì, oi Marì, quante notti ho passato con te”, e “O sole mio…” e distribuivano sigarette e gomme americane, quelle a barretta, incartate, bellissime, non quelle a palline colorate, a cui eravamo abituati e che sembravano biglie.
Passavano e passavano camion militari con le radio accese… ma non erano canzoni di guerra… e i soldati ci lanciavano sigarette tavolette di cioccolato, merendine, ed erano sempre ridenti. Non sembravano soldati in guerra. E c’erano pure soldati negri – allora non dicevamo neri – anche loro ridenti…
E poi non capivamo chi fossero gli ufficiali e se ci fossero. Erano tutti vestiti allo stesso modo. Mai un saluto militare. Ma chi li comandava? Poi capimmo che i graduati avevano una spilletta particolare sul collo della camicia. E parlavano con i soldati semplici come fossero vecchi amici, senza nessuna di quelle formalità a cui eravamo abituati. Da noi sempre scattare, sempre sbattere i tacchi, sempre sull’attenti di fronte a un graduato, che fosse un caporale o un generale. Noi avevamo altre abitudini. “Heil Hitler”, oppure “Saluto al Duce”. Sempre saluti romani. O militari. I soldati americani non scattavano sull’attenti quando passava un graduato. Cominciavamo a toccare con mano la democrazia… Allestirono un campo nella pinetina tra la Via Nomentana vecchia e Corso Sempione, poi in pochi minuti piazzarono una batteria di cannoni sul pratone costeggiato dall’ansa dell’Aniene,… e cominciarono a sparare in direzione nord contro i tedeschi in fuga. Partivano i proiettili e chissà dove arrivavano.
L’accampamento durò alcuni giorni e noi ragazzi sempre lì con i militari americani. Volevano che cantassimo, ci chiedevano come ci chiamavamo e che cosa facevamo. Molti di loro avevano cognomi italiani e biascicavano qualche parola d’italiano. Il nostro stupore, la nostra commozione erano grandi. Abituati ai soldati tedeschi… tutt’altra cosa. Cominciavamo ad assaporare il significato e i modi di una civiltà democratica. E poi conoscevano i nostri attori, i nostri calciatori ed erano curiosi di saperne di più. E soprattutto, non mancava loro niente, ma proprio niente. Cominciavo a capire perché avevamo perso la guerra. Otto milioni di baionette. Ma senza scarpe, senza coperte, solo con l’ardore dentro il cuore e canzonette di guerra, o troppo lagnose o troppo ambiziose.
Il balilla che scrive al papà lontano, garantendogli che l’orto di guerra è curato ogni mattina. E ancora. “Contro Giuda e contro l’oro / sarà il sangue a far la storia./ Ti daremo la vittoria, / Duce, o l’ultimo respir. / Battaglioni della morte / battaglioni della fede./ Vince sempre chi più crede / chi più a lungo sa patir.” E poi il soldato italiano che accoglie il camerata Richard nella sua trincea: “Camerata Richard, benvenuto. / Posa il sacco si scivola bada, / il nemico è al di là della strada… / …parla piano già t’hanno veduto. / Ventun anni? la stessa mia classe… / …questo vedi è il mio primo bambino… / e tu sei fidanzato a Berlino / e abitate alla Krausenstrasse? / Se mia madre a quest’ora pensasse / che ho trovato un amico vicino…” E poi la battaglia. “Camerata Richard, tre minuti… / …due minuti…un minuto… si attacca. / …c’è il mio nome cucito alla giacca. / Pronti? Fuori. Che il cielo ci aiuti. / Camerata Richard, come canta / la mitraglia di quella piazzola… / Tieni a mente Salvetti Nicola, / Vico Mezzocannone, cinquanta. / Oggi tutta la terra si schianta, / ma noi due siamo un anima sola”.
I soldati americani volevano che noi cantassimo queste canzoni e ridevano tanto, quando ne capivano il significato. Ma chiedevano sempre quella classica, “O sole mio”, oppure… quella che faceva: “Oi Marì, oi Marì, / quanto suonno aggio perso pe’ tte / famm’ addormì / una notte abbracciato cu’ tte…” E conoscevano pure Lilì Marlen, una canzone del nemicooo…
Mangiavamo con loro ed erano sempre generosi. E ricordo soprattutto il PANE BIANCO. Sì, il pane bianco… erano anni che non sapevamo più neanche come fosse fatto. Insomma, si stava con loro come fossero amici da sempre e noi ragazzini eravamo curiosi e chiedevamo dell’America. E ci mostravano le loro foto. Quando dieci anni dopo, nel ’54, Steno e Albero Sordi girarono “Un americano a Roma”, ricordai quelle giornate, quell’entusiasmo per tutto ciò che era americano. Insomma scoprivamo un Paese, un popolo, una civiltà, una democrazia dopo anni di fascismo. Altro che paese demoplutogiudaicomassonico… ecc. E si ballava anche… il boogy woogy, uno schianto… e qualche tempo dopo giunsero i primi film americani, il Chattanooga Choo Choo con la colonna sonora di Glenn Miller, e poi il jazz, poi la Rapsodia in blu di George Gershwin.

Il secondo fronte

Avevo una gran voglia di Ostia, di tornare al mio mare… Tornai. Ma quale delusione. I tedeschi avevano fatto saltare lo stabilimento Roma, quello che aveva una rotonda arditissima, uno dei più grandi e attrezzati d’Europa. Lì avevamo la cabina e facevamo i bagni. E il pontile. E la torre del IV Novembre, la scuola-collegio dei marinaretti… tutto saltato in aria. Avevano fatto piazza pulita per difendersi da uno sbarco… che non ci fu. E poi il monumento ai caduti, meta di tante nostre marce e presentatarm, di tante commozioni, in un abbandono completo, niente più aiuole e fiori, solo erbacce. Non era più il mio Lido di Roma, il mare della Capitale del mondo… ormai un senso di vuoto, di non appartenenza. Capii che era finita un’epoca, una vita. Avevo 16 anni. I primi dieci meravigliosi grazie al DUCE e al FASCISMO. Gli ultimi disastrosi, sempre a causa del duce e del fascismo. Dalle MAIUSCOLE alle minuscole.
Comunque, c’era la gioia di una conquistata e mai conosciuta libertà. Ma anche la tristezza del sogno infranto di un avvenire di grandezza. Capii che la democrazia ha un costo. Che ti costringe a pensare, a valutare, a decidere con responsabilità tra mille opzioni. E che la dittatura ti chiede soltanto di credere, obbedire e combattere.
Quel 5 giugno del ‘44. Come il 14 luglio del ’28. Una nuova nascita.
E poi il 6 giugno del ’44. Un’altra notizia bomba. Gli alleati sbarcano in Normandia. Aprirono così un secondo fronte, a ovest, rispetto al fronte dell’est, dove si combatteva tra russi e tedeschi. Altri pensieri, altri ricordi. I documentari Luce che soltanto quattro anni prima, più o meno negli stessi giorni, ci rovesciavano immagini su immagini della rovinosa ritirata degli inglesi a Dunkerque, tra l’entusiasmo generare del pubblico e di noi balilla, cadevano a brandelli dalla mia memoria. Il Führer e il Duce ci avevano assicurato che le poderose fortificazioni che avevano eretto su tutta la costa francese della Manica avrebbero respinto qualsiasi tentativo di sbarco e di invasione. Che cosa sarebbe successo? Sapevamo dai filmati luce che il Vallo atlantico – così era chiamato l’insieme delle difese delle coste francesi – era un insieme di fortezze inespugnabili. Cemento armato, casematte, cannoni… a non finire. Avrebbero mai osato gli alleati uno sbarco su quelle coste? Ebbene. Sì. Osarono. Ma il Corriere della sera del 7 giugno, l’edizione di Milano, RSI, così titolava: “Arde la battaglia del Vallo Atlantico – La massa di fuoco della difesa germanica batte le unità ‘alleate’ sulle coste della Normandia – Reparti tedeschi di tutte le specialità immediatamente entrati in azione. Quasi tutte le forze paracadutiste annientate. Gran parte delle truppe sbarcate ricacciate in mare”. Non so ancora come quella copia avesse superato la linea del fronte. Miracolo della restaurata democrazia?
E poi circolavano strane voci di armi segrete. I missili V1 erano armi micidiali, missili radiocomandati – missile sì, dal latino, arma da getto… lo spiegavo agli amici – che avrebbero distrutto Londra e tutta l’odiata Inghilterra, la Perfida Albione. Ed erano ancora poca cosa rispetto a quello che gli scienziati tedeschi stavano preparando… armi segretissime… circolavano solo voci… ma eravamo tutti sicuri. Proprio tutti? Non so. Comunque, mentre in Normandia gli alleati avanzavano lentamente, su Londra si abbattevano queste nuovissime micidiali bombe, radiocomandate. Ne furono lanciate più di 10.000…
Poi vedemmo i nuovi cinegiornali, quelli prodotti dagli alleati. “Notizie dal mondo libero”. Sorpresa, stupore, incredulità. Quegli avvenimenti che poi sarebbero passati alla storia come il Giorno più lungo – e poi molti anni dopo, nel ’62, quel film meraviglioso, celebrativo, con tutti gli attori del cinema americano, Oscar alla fotografia e agli effetti speciali – erano veramente incredibili. Mi ricordai di quel 19 luglio, del bombardamento di San Lorenzo, di quelle centinaia di fortezze volanti che passavano sulla nostra testa, che violavano il nostro cielo… “Senti che potenza…”, l’esclamazione della signora Ceppodomo. Mai vista, inimmaginabile una impresa di quel genere. E riflettevo sulle nostre marce di fieri balilla, dei nostri moschetti modello 91, delle fasce che stringevano i polpacci dei nostri soldati, delle loro scarpe di cartone.
Si avvicinava il 25 luglio. Sarebbe trascorso un anno, un anno soltanto dalla caduta del Duce e del fascismo. Un anno pieno di avvenimenti… che avevano rotto il mio equilibrio, che mi avevano costretto a pensare… ma avevo mai pensato? Non so, me lo chiedevo spesso… e dentro di me rimproveravo i miei genitori che non mi avevano messo sull’avviso, che in tanti anni non mi avevano detto nulla. Ma che cosa potevano dirmi. La mamma sempre a contare i soldi… ricordo le sue buste, che conservava gelosamente nel cassetto del comò… tot lire per mangiare, tot per le bollette, tot per l’affitto, tot per la donna di servizio, quando avevamo potuto permettercela. «E se un mese compro le scarpe a Maurizio… questi piedi come crescono… non le compro a Pucci…»: queste erano le riflessioni della mamma, donna semplice, colta, intelligente, concreta, costretta ad assicurarsi, giorno dopo giorno, che io andassi a scuola pulito e con i compiti fatti. Le adunate erano obbligatorie e la sua preoccupazione era solo quella che non piovesse e che io non prendessi freddo. Che cosa potevo rimproverarle? Nulla. E nulla a mio padre… Avevo tutto il tempo per sognare… la Patria, la Grandezza, l’Impero, Roma caput mundi… e in effetti quelle tavole marmoree affisse sugli antichi muri della Basilica di Massenzio in Via dell’Impero testimoniavano la nostra antica grandezza e quelle futura.
Ma il 20 luglio… una bomba… Sì la bomba contro Hitler, che i congiurati gli avevano messo sotto il tavolo in cui era in corso una riunione dello Stato maggiore… non erano certe le informazioni, ma era certo che Hitler l’aveva scampata. Nonostante la sua sfacciata fortuna, fui confortato. Capii che anche in Germania si stava muovendo qualcosa, che il “25 luglio” non riguardava solo il nostro Paese. Anche in Germania la guerra si era fatta insostenibile. E furono proprio le alte sfere, come da noi un anno prima, che si erano mosse contro la dittatura, contro la guerra, contro la sconfitta ormai inevitabile. Capii che ormai era solo questione di mesi, se non di settimane.
Ma eravamo veramente alla fine? Quel diavolo di Hitler non solo era scampato all’attentato, ma i suoi scienziati gli avevano confezionato nuovi missili, i V2, molto più micidiali dei precedenti. Allora era vero?.?.?. Le armi segrete non erano un’invenzione propagandistica. Sapevo che la polvere da sparo aveva rivoluzionato le strategie delle guerre. E che forse una nuova arma avrebbe potuto rovesciare le sorti di questa maledetta lunghissima guerra. E poi c’era anche il fronte giapponese. Non ci capivo molto… lontano mille miglia da me, non solo geograficamente, e poi un fronte vastissimo, Oceano Pacifico e isole sconosciute… una guerra più sul mare che sulla terra… comunque sembrava che le cose andassero bene. E poi c’erano le riviste americane, belle a colori, patinate, le avevano i soldati e ce le regalavano, “Victory”, mi ricordo, un po’ quello che era “Signal”, per i tedeschi, che io collezionavo pure… avevo la mania delle collezioni, ma soprattutto di fumetti.
Riprendo la scuola, secondo liceo, ritrovo i compagni di classe, anche quelli che l’anno scolastico precedente simpatizzavano per la RSI. La cosa bella fu che loro potevano continuare a simpatizzare e non rischiavano nulla. Ormai si era in democrazia e la parola era garantita a tutti. E di questo presero atto. E ancora non sapevamo nulla dei campi di sterminio. Le discussioni erano vivaci, ma tutti noi eravamo solo alla “ricerca della verità”, se si può dir così. Nessuna partigianeria, da parte di nessuno. Forse perché eravamo liceali, abituati a ragionare e discutere, più impegnati a ricercare il “vero” che a difendere posizioni consolidate. E il confronto delle idee, soprattutto in politica, era una cosa assolutamente nuova per noi tutti. Cominciavamo a saggiare che cosa fosse la democrazia. Non sarebbe più stato così negli anni successivi, quando il neofascismo divenne qualcosa di concreto, di politicamente definito, quel Movimento Sociale Italiano, alla fine del 1946. Non sarebbe più stato così, quando tra neofascismo e democrazia il confine, purtroppo, si fu ben consolidato.

I tre grandi

Ormai leggevo i giornali, tutti leggevamo i giornali e leggevamo tutti i giornali. E gli articoli di fondo dei leader erano sempre occasione di riflessione e di dibattito. Si confrontavano le diverse linee politiche. C’era un Paese da ricostruire, e da ricostruire anche sotto il profilo civile, dopo venti anni di dittatura, di pensiero unico, di educazione unica. Anni in cui la propaganda di partito era il pensiero di tutti. Quando, da un lato, il Ministero della Cultura Popolare, il Minculpop, quello che inviava le veline ai giornali e suggeriva i titoli di testa, e, dall’altro, il Ministero dell’Educazione Nazionale costruivano il pensiero e le ide di un’intera popolazione, anzi di un intero Popolo, con tanto di P maiuscola: 46 milioni di fascisti.
E leggevo avidamente. Nel febbraio del ’45 la stampa diede moto risalto alla Conferenza di Yalta, in Crimea… sì la penisola che noi ragazzi conoscevamo soltanto per la battaglia della Cernaia… i bersaglieri di La Marmora… la diplomazia di Cavour… il prezzo che si doveva pagare per un riconoscimento europeo. Le esigenze della politica sulla vita dei poveri diavoli.
Era il mese di febbraio e Churchill… altro che Ciurcillone, quello del Corriere dei Piccoli di qualche anni prima, Roosevelt e Stalin si incontravano per disegnare il destino del pianeta dopo la vittoria finale, allora data per certa. Quante fotografie. I tre grandi di allora, seduti e sorridenti: Stalin in perfetta uniforme da generale; Churchill con un colbacco e un cappotto più grande di lui, Roosevelt con un mantello nero. Mancava il quarto grande, la Francia. De Gaulle non era stato invitato. Forse non era grande abbastanza: era a capo di un governo provvisorio. In effetti alla Francia non si perdonava facilmente di avere istituito il governo collaborazionista di Vichy, diretto dal maresciallo Pétain. La Germania avrebbe dovuto pagare un prezzo salatissimo per i danni che aveva provocato e sarebbe stata divisa in quattro zone di influenza (governate dalle tre potenze di Yalta e dalla Francia); in tutti i Paesi liberati ci sarebbero state libere elezioni politiche. Valeva il principio dell’autodeterminazione dei popoli. Cosa assolutamente nuova per noi. Ma sarebbe stato proprio così? E poi sarebbe nata una nuova organizzazione internazionale, che superasse i limiti della Società delle Nazioni e che fosse in grado di garantire veramente la pace tra i popoli. Ma c’era quel foglietto di carta che Churchill e Stalin avevano stilato nel febbraio del ’44: io ti do una cosa a te, tu mi dai una cosa a me…
Di queste cose si discuteva in classe e ciascuno portava i suoi giornali di partito. Io ero tra i pochi che leggevano ora L’Unità, ora l’Avanti. I più leggevano la Rivoluzione liberale, la Voce repubblicana. Solo pochi leggevano Il Popolo. Ma non era affatto facile, dopo anni di pensiero unico e/o di silenzio, confrontarci in discussioni politiche. Forse facevano capo le ideologie – come poi le avremmo chiamate – ma non ce ne rendevamo conto. Forse dietro ciascuno di noi c’era qualche adulto. Dietro di me c’era lo zio Lele, con la sua determinazione; mia madre con il suo buon senso di donna che aveva sofferto e lottato contro la fame e la penuria di tutto; mio padre, tecnico come origine culturale e professionale, che nelle temperie della guerra aveva cominciato a porsi mille interrogativi. A mio vedere, filosofeggiava, cercava sempre di capire quali fossero le posizioni degli altri più che rinforzare le sue. Aveva scoperto Nietzsche, Così parlò Zarathustra, e frequentava le lezioni dell’Angelicum, l’Università cattolica situata nella piazza omonima nel pieno centro di Roma, forse su San Tommaso. Che cosa ci azzeccasse Nietzsche con San Tommaso non capivo bene, anche se con Nietzsche a scuola non mi ero mai imbattuto. Ma mio padre mi confessò che per lui era un mondo tutto da scoprire. Aveva sempre privilegiato i suoi interessi di esperto di aerei e, sotto sotto, un pochino fascista lo era anche stato, alle origini, quando l’aviazione era diventata l’arma della nuova Italia.
«Ti ho mandato al liceo, perché capivo che era un corso di studi che ti avrebbe aperto la mente». Mi faceva discorsi di questo genere. Ma io non mi sentivo affatto aperto di mente. Da piccolo, rincretinito dal fascismo e ora, sbalzato nella democrazia, con mille dubbi in testa. Certamente, lo zio Lele mi aveva dato una grossa mano… e non era difficile diventare antifascista, con tutto quello che il Regime aveva combinato. Era più difficile diventare qualche altra cosa… certo il socialismo era suggestivo… e poi quel Manifesto… Proletari di tutto il mondo, unitevi… e io mi sentivo proletario. E poi L’Avanti e l’Unità, gli articoli di fondo di Nenni e di Togliatti… mi sentivo laico senz’altro… e Il Popolo di Gonnella non mi convinceva affatto. Tutto ciò che sapeva di chiesa – me lo dicevo, come poteva dirselo un ragazzo che avrebbe voluto fare mille esperienze – lo sentivo come un limite più che uno stimolo. E non mi sentivo neanche liberale. Che significa libertà? Mi chiedevo: chi è veramente libero? Mi sembrava una cosa fuori dal mondo. Un’aspirazione senza senso.
E poi la Democrazia Cristiana: “Non tutti proletari. Tutti proprietari.” Mi sembrava una presa per i fondelli. Quando mai saremmo diventati tutti proprietari? E proprietari di che cosa? Anzi, dovevamo lottare contro i proprietari. E i proprietari dei mezzi di produzione e di scambio – così avevo letto nel Manifesto dei Comunisti – dovevano essere espropriati. La proprietà è un furto, aveva scritto Proudhon – la fonte era sempre lo zio Lele – e chi se la gode è un superladro, aggiungeva lo zio. E solo la collettività doveva possederli, non un pugno di privilegiati sfruttatori… sfruttatori del lavoro altrui. Pensieri molto elementari, allora. Ma cosa si poteva pretendere da un ragazzo che, dopo un lungo sonno, apriva gli occhi e doveva cominciare a capire in quale mondo si trovasse?
Democrazia e libertà. Parole ricorrenti allora. Ma chi poteva sentirsi libero con tutto quel po’ po’ di miseria che ci affliggeva e con quella maledetta guerra che ormai era diventata planetaria. No, no, no. A sinistra certamente, mi sentivo di sinistra. A sinistra sarei andato. E poi quella Unione Sovietica, di cui la stampa del PCI tesseva mille lodi, mi convinceva parecchio. Gli operai al potere. E insieme ai contadini. La falce e il martello, appunto. Basta con i Kulaki. Basta con la corona zarista. Niente corone. E pensavo a quella dei Savoia che ci era costata più lutti che vantaggi. E il Partito socialista di zio Lele alla falce e martello aveva aggiunto un libro aperto. Certamente. Il Sol dell’avvenire non poteva fare a meno dell’intelligenza, dello studio… perché una società nuova necessita pure di cervelli, e tanti. Queste cose pensavo. E sapevo che potevo pensarle, anzi, potevo addirittura pensare. Pensare con la mia testa, perché la stretta della paura, della fame, della miseria, delle bombe era finita. Ed era finita soprattutto la stretta del Pensiero Unico mussoliniano. “Mussolini ha sempre ragione”: quante volte mi era stato detto. E quante volte l’avevo pensato.

Finalmente… la fine.

Si apriva una stagione diversa. I soldati americani ballavano… mai visto un soldato tedesco ballare… marciare, invece, sì. Mai visto gli americani marciare. E ballavamo anche noi. Nelle sezioni dei partiti, nelle palestre delle scuole, nelle case. Quanto si ballava. Con i grammofoni a manovella e le puntine che duravano all’infinito. “Io t’ho incontrata a Napoli, bimba dagli occhi blu”, o meglio “Somewhere in via Roma”, e poi La vie en rose, e poi…“Dove sta Zazà Zazzetta mia, dove sta Zazà senza Isaia…” E poi c’era quella del soldato innamorato di Angiolina: “Per restare sempre qui, mangio e bevo tutto il dì, Angiolina. Angiolina, adoro la tua trattoria. Io consumo a profusion pasta asciutta e polpetton, Angiolina. Angiolina, per stare con te in compagnia. Ti voglio bene, Angiolina bella mia, fra pranzi e cene spendo quasi una follia. Per te va in fumo in un giorno la cinquina, cara Angiolina, Angiolina I love you”.
E quando ballavamo in casa, si faceva la colletta per comprare da bere e qualche pasticcino. E facevamo anche i liquori con le essenze acquistate in farmacia. Eravamo poveri, ma avevamo una gran voglia di divertirci. All’insegna della più grande semplicità. E poi il Brasile e Carmen Miranda, un mondo nuovo per noi, anche da imitare Ed ecco, più tardi, nel ’49, se non erro, Kramer e Giacobetti con un ballabile di grande successo. “Che mele, che mele, son dolci come il miele, son toste, son grosse, son pronte da mangiar. Chi mangia le mele va sempre a gonfie vele, son buone, fan bene, le dita fan succhiar. Vendo frutta e le banane, il cocco e l’ananas, tutta frutta prelibata che vien da Caracas”. Ed era ballabbbilisssimooo…
Non mancavano i momenti bui. La morte di Roosevelt. Il 15 aprile del ’45. Una delle presidenze americane più lunghe, fin dal lontano 1933. Avvertii che scompariva un mito. Il presidente del New Deal, che aveva salvato gli Stati Uniti dalla crisi del ’29, e che la stava conducendo alla vittoria in una guerra che sembrava non dovesse finire mai. Gli successe il vice Harry Truman, un personaggio incolore, al giudizio dei più, proprio in un momento così delicato. Sarebbe stato in grado di sopportare il peso di quell’eredità così ricca, complessa, forse ingombrante per lui? Così pensavamo preoccupati.
Comunque gli alleati stavano picchiando sodo. Con le campagne del ’44 gran parte dell’Italia centrale era stata liberata e i tedeschi si erano attestati su una nuova linea difensiva, la Linea Gotica, che si estendeva più o meno da Massa Carrara a Pesaro scavalcando l’Appennino. Nel mese di aprile si ebbe la svolta tanto attesa: lo sfondamento della Linea Gotica. E poi l’avanzata ormai inarrestabile delle armate alleate sull’intera Pianura padana. La lotta partigiana raggiunge il suo acme e il 25 aprile del ’45 il comando del Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia, CLNAI, impartisce l’ordine dell’insurrezione. Seguono i giorni della Liberazione.
Le vicende sono note. Mussolini viene catturato insieme alla sua compagna Claretta Petacci, poi la fucilazione, poi l’esposizione dei cadaveri in Piazzale Loreto insieme ad altri gerarchi egualmente giustiziati, tra cui i più noti Pavolini, Barracu, Mezzasoma, Bombacci, Marcello Petacci, fratello di Claretta. Fu una cosa orrenda, condannata anche dai comandi militari del CLNAI. E non era affatto sufficiente la giustificazione: che l’anno precedente in quella piazza erano stati esposti i cadaveri di 15 partigiani fucilati dai militi della legione Ettore Muti. Non potevamo gareggiare con i nazifascisti in crudeltà. Perché il CLNAI si era arrogato il diritto di uccidere Mussolini? Gli interrogativi erano tanti. E si parlava pure di un ordine che veniva da lontano, da Churchill in persona, preoccupato di un certo carteggio di lettere compromettenti scambiate con il Mussolini della prima ora. E poi un’altra storia, l’oro di Dongo. Sei valigie piene di chissaccheccosa trasferite al Comune di Dongo e poi… sparite. Per sempre. E le mille versioni sull’uccisione di Mussolini. E ancora oggi i misteri di quelle tragiche giornate non sono stati svelati.
I giorni successivi videro un avanzare continuo degli alleati in tutta l’Italia settentrionale, e non solo. Nello stesso 25 aprile americani e sovietici si incontrano sul fiume Elba. Siamo veramente alla fine. E nello stesso 25 aprile i sovietici attaccano Berlino. Saranno giornate sanguinosissime. Finalmente il 30 l’Armata Rossa entra in Berlino e, mentre Hitler si suicida nel suo bunker, conquista il Reichstag e su una delle torri viene issata la bandiera rossa con la falce e il martello. Qualche tempo prima i marines avevano issato la bandiera a stelle e strisce sulla vetta più alta dell’isola giapponese di Iwo Jima. Due bandiere. Due mondi. Due assetti sociali. Due vittorie… grandi. Siamo alla fine della seconda guerra mondiale. L’8 maggio l’ammiraglio Doenitz, successo a Hitler al governo di quel che restava della Germania e del suo esercito, firma la resa incondizionata della Germania.
Si sperava che la fine fosse ormai prossima, ma i giapponesi resistevano, e come. Sapevamo della loro fedeltà assoluta all’imperatore Hiro Hito, considerato anche un dio; e del fanatismo dei soldati giapponesi che piuttosto che arrendersi preferivano morire od uccidersi. Sapevamo che sarebbe stata dura. In effetti, quanto sarebbe durata la guerra con il Giappone, se non ci fosse stata l’atomica?. La prima bomba nucleare fu sganciata su Hiroscima il 6 agosto; la seconda tre giorni dopo su Nagasaki. Il 2 settembre sul ponte della corazzata americana Missouri nella Baia di Tokio il Giappone firma la resa.
LA SECONDA GUERRA MONDIALE ERA VERAMENTE FINITA…

Il primo anno di pace

Gli strascichi furono tremendi. Cominciammo a sapere delle deportazioni in massa, delle stragi degli ebrei, dei campi di sterminio, del genocidio che in Germania si consumava da anni contro gli handicappati e del colpevole silenzio – o assenso? – del popolo tedesco. La difesa della razza, anzi l’esaltazione dell’unica razza umana degna di esistere, quella bianca ariana, aveva portato a quelle conseguenze. E se i tedeschi avessero vinto la guerra? Di fronte a quegli orrori ce lo chiedevamo tutti.
Ed io mi sentivo un po’ colpevole di essere stato un Balilla convinto, credente, plaudente…
Erano gli interrogativi di quello scorcio dell’anno.. Ci si accingeva a ricostruire un Paese, se non l’Europa intera dopo anni di stragi e distruzioni. Era l’inizio del nuovo anno scolastico 1945-46: cominciavo il terzo liceo e mi accingevo a terminare gli studi secondari. Avrei dovuto fare delle scelte: allora per noi studenti liceali – sottolineo .liceali – le scelte erano pressoché obbligate, l’Università e… quale facoltà? I miei genitori premevano per una mia scelta rapida e convinta… dopo tanti anni di fame, paure, sofferenze, ci si prospettava, mi si prospettava, un avvenire “normale”. Il paese ripartiva, guerra e fascismo erano ormai alle spalle… si riprendeva la vita di prima, di sempre. Studio e lavoro erano una sorta di nuove parole d‘ordine.
Ma la temperie del dopoguerra era quella che era, la ricostruzione, certamente, ma anche i conti con il passato, almeno per me che ormai cominciavo a sentirmi un giovanotto, come si suol dire, un uomo. Ora nel terzo millennio si cresce più in fretta, questo lo so, ma allora le cose erano ben diverse. La società era quella che era, un mondo di contadini che cominciava ad assaggiare i benefici dell’industria e del terziario. Gli stereotipi erano tanti e forti. Se poi ci si aggiunge l’indottrinamento fascista, quella funesta parentesi che è durata ben vent’anni, una generazione, e per me tutta la mia infanzia e la mia adolescenza, non è difficile comprendere che cosa potesse passare nella mia testa. Anni e anni di eia eia alalà, di saluti al Duce, di “canzoni del tempo di guerra”… uno stillicidio, tutte le sere alla radio opere del regime e guerra, guerra e opere del regime, e tutti i sabati le rituali adunate. Ripensavo alle mie grandi aspirazioni di un tempo, manovrare un moschetto, far rullare un tamburo, far finta di suonare un tromba, possedere un pugnale. Tutto da rifare, mi dicevo. Tutto da rifare. Bisognava ricominciare.
1945. ANNO PRIMO DELLA MIA RINASCITA. I giornali, i partiti, le discussioni, le ideologie… sì, le ideologie. Non mi ero più comunicato, e neanche confessato, da qualche anno ormai, e questo era un punto fermo. La laicità era di casa. Ed era anche cosa mia. Nessuno della mia famiglia o dei miei parenti si battevano il petto. Mio padre, di fatto un liberale, più che altro un libero pensatore, un curioso, soprattutto, uno zio socialista, un altro repubblicano, e le donne, la mamma e le zie benpensanti, se si può dir così. Una saggezza tutta femminile delle mogli e delle madri di quegli anni. La miseria e la guerra le confinavano all’attenzione quotidiana per la famiglia, con i soldi che non bastavano mai, alla lotta per approntare un pasto a mezzogiorno e uno alla sera. Non erano – e non potevano essere – donne disponibili a disquisizioni di sorta che le avrebbero distratte dal pensare al difficilissimo ménage quotidiano: donne sagge e concrete. Soprattutto forti. E oneste. E qui era la loro grandezza.
Mi sentivo molto strano. Come se dovessi recuperare un tempo perduto. Come se dovessi pagare uno scotto alla società che, forse, avevo tradita. Un senso di colpa forse, per essere stato fascista, e fascista credente. Come può credere un soggetto in età evolutiva. Ma questo l’ho capito solo più tardi, non allora, in pieno anno scolastico 45/46, il primo in una scuola… di Stato, sì, ma non fascista. E Feliciano, il bidello, e Dal Cerro, il preside, mi sembravano un po’ incarnare il richiamo ai doveri di un giovane in una società democratica: puntualità, senso del dovere, studio come ricerca. E quel terzo liceo era bello. Si studiava, ma si discuteva, si ponevano domande agli insegnanti. Una sorta di quella scuola d’Atene delle Stanze vaticane. E io mi sentivo un personaggio. Quell’Eraclito pensoso in primo piano, che si regge la testa e sembra lontano mille miglia dall’elevato e dotto discettare di Platone e Aristotele. I due che sanno tutto e l’uno che non sa nulla. I due che costruiscono ciascuno una dotta e avvincente visione del mondo, e l’uno che cerca di afferrare uno straccio di verità nell’infinito clinamen degli atomi.
Certamente non avevo bisogno di nuove verità rivelate. Una mi era bastata. Sentivo che dovevo ricominciare da zero. Dai bisogni primari? Forse. Dai bisogni materiali? Certamente. Che gioia, quando i parenti di mio padre emigrati negli Stati Uniti non so quando, cominciarono ad inviarci dei pacchi di vestiario. Ricordo delle scarpe di vernice marrone lucidissime che non conoscevamo più da tempo. E ricordo la sorpresa e le risate degli amici quando le indossai. Questo mio elementare materialismo filosofico coincideva – almeno così credevo – con quel materialismo storico di cui mi parlava zio Lele e che ravvisavo, a torto o a ragione, in quella lettura veloce del Manifesto dei comunisti. Ricordavo quel passaggio in cui Marx ed Engels affermano che alla classe lavoratrice può giovare soltanto la trasformazione delle loro condizioni materiali. E riflettevo sul fatto che è la povertà che genera l’ignoranza. E che nel Manifesto si diceva chiaramente che bisognava abolire il lavoro minorile e mandare tutti i bambini a scuola, pubblica e gratuita. Insomma, questo signor Marx cominciava a interessarmi e sapevo che lo avrei studiato a scuola. Non sapevo se nei libri di testo del periodo fascista era riportato, perché avevamo ancora quelli. Comunque, lo avrei senz’altro chiesto al mio professore di filosofia.

La democrazia

A Montesacro, in Viale Tirreno avevano aperto la sezione del PCI, del Partito Comunista Italiano, che per me significava – a pelle – l’esatto opposto del vecchio PNF, Partito Nazionale Fascista.Era la Sezione “Dieci Martiri”: se non ricordo male, dieci delle centinaia di patrioti fucilati a Forte Bravetta dai tedeschi e dai fascisti. Nel salone di ingresso c’erano quattro enormi gigantografie, a colori: Lenin, Stalin, Gramsci e Togliatti. Le riunioni erano frequenti e affollate. La “fame” di sapere era tanta e anche quella di avere informazioni spicciole sulla organizzazione dei servizi cittadini. Non esisteva più il Governatorato di Roma, ma era risorto il Comune di Roma, quello che aveva avuto sindaci illustri, Pianciani, Nathan, Prospero Colonna. E sul Corso Sempione era stata aperta la sezione della DC, della Democrazia Cristiana. Anche lì riunioni su riunioni. La vivacità democratica, se possiamo chiamarla così, era forte. Dopo tanti anni di silenzio e di signorsì la gente aveva voglia di parlare, di lamentarsi anche. E poi i manifesti e i giornali, tanti giornali. Si leggeva e si discuteva. E al centro della città, in Galleria Colonna, oggi Albero Sordi, i capannelli erano diventati un rituale. I malevoli dicevano che si trattava di militanti di partito, di tutti i partiti, ad animare le discussioni. In effetti nessun partito poteva permettersi di abbandonare il campo al partito avversario. Un rituale obbligatorio. Non c’era Porta a Porta a quei tempi e neanche la TV. Non c’era neanche la Rai. Le trasmissioni radio erano ancora gestite dall’Eiar, ma niente dibattiti politici. Questi andarono in onda per la prima volta agli inizi degli anni Sessanta. In televisione: “Tribuna politica”, condotta da Ugo Zatterin. In effetti la radio nazionale era ancora molto ingessata: notizie, canzonette, opere liriche, “pagine” culturali.
Fatti importanti in politica estera. Luglio 1945: elezioni in Gran Bretagna. Churchill aveva vinto la guerra ma perde le elezioni. Una grande lezione di democrazia. Gli succede Clement Attle, capo dell’opposizione laburista. E’ noto quanto Churchill ebbe a dire al suo cameriere che lo assisteva mentre faceva il bagno: «È proprio perché questi eventi possano continuare ad accadere che abbiamo combattuto la guerra. Ora passami l’asciugamano». Fui molto sorpreso per due ragioni. In Inghilterra scompariva una figura che avevo tanto dileggiato, il Ciurcillone del “Balilla”, e poi, invece, ammirato. Ammirato non solo da me, ma dallo stesso popolo inglese, grato perché aveva organizzato una resistenza ai nazisti che si era dimostrata vincente. Eppure veniva battuto alle elezioni e andava al potere un partito di sinistra. Quindi ero nel giusto in quei miei primi orientamenti politici. Insomma, a mio vedere Churchill aveva pur vinto la guerra, ma era sempre leader di un partito conservatore. E poi in Francia De Gaulle, l’animatore della resistenza ai tedeschi, viene eletto Presidente del Consiglio della Repubblica francese, dopo la fine del regime collaborazionista di Petain. Venti nuovi per l’Europa. Ed era ormai tempo anche di nuovi orizzonti. Era forse l’ora della sinistra al potere a livello mondiale?
Il sol dell’avvenire forse non era più un sogno? Ma una realtà a portata di mano? E canticchiavo tra me: “Fischia il sasso, urla la bufera, scarpe rotte, eppur bisogna andar. Per conquistare la rossa primavera, dove sorge il sol dell’avvenir”: un Sole grosso così, nella mia immaginazione. Era l’ora che i proletari di tutto il mondo si unissero… finalmente. Ero fresco fresco del Manifesto dei comunisti. Un po’ mi piaceva illudermi e sognare, un po’ mi piaceva comprendere e… studiare. Sì, studiare. Ma la scuola mi avrebbe aiutato? Pensavo proprio di sì. I programmi di italiano, storia, filosofia, storia dell’arte riguardavano tutti l’età contemporanea. E poi sapevo della grande fatica che avrei dovuto fare per ripassare – o meglio ristudiare – tutto da capo. Agli esami avrei dovuto “portare” i programmi di tutti e tre gli anni, e la padronanza dei primi due, tra bombe, rastrellamenti e fame nera che ci avevano afflitti, non era certo sicura. Comunque, incontrare Marx in filosofia mi stuzzicava parecchio. Ma Prestipino mi avrebbe aiutato in questa ricerca? Lui, che, a detta di Marini, il capoclasse… il migliore di noi, anche nei voti, era un idealista. Idealista? Mah? Che significava idealista?
Avrei capito veramente qualcosa di questo secolare “sfruttamento dell’uomo sull’uomo”? Io, abituato a una storia fatta di date, guerre e generali – e il Silva, il mio libro di testo, era puntualissimo in vicende di questo genere – sarei stato capace di assumere altri punti di vista? Insomma, popoli in guerra o classi sociali in lotta? Re e generali o gente comune che soffre e vuole costruire un riscatto? Capivo che erano due modi diversi di vedere la storia. Ma io avrei capito qualcosa? Si’. Ero molto curioso. E quando poi scoprii Bertold Brecht fui solo felice. Le “domande di un lettore operaio” erano anche le mie: “Il giovane Alessandro conquistò l’India. Lui solo? Cesare sconfisse i Galli. Non aveva con sé nemmeno un cuoco? Filippo di Spagna pianse, quando la sua flotta fu affondata. Nessun altro pianse? Federico II vinse la guerra dei Sette Anni. Chi vinse oltre a lui? Ogni pagina una vittoria. Chi cucinò la cena della vittoria? Ogni dieci anni un grande uomo. Chi ne pagò le spese? Tante vicende. Tante domande”.E quando, qualche anno dopo, nel ’53, se non erro, uscì la “Storia romana” del Kovaliov, fui felice di avere tante conferme. La lotta di classe c’era e come a anche all’epoca dei Romani, dello schiavismo, della rivolta di Spartaco, dei seimila gladiatori crocifissi da Crasso sulla Via Appia, da Capua a Roma. I Romani come i nazisti? E come gli italiani di Graziani che hanno sterminato migliaia di abissini? Altro che “faccetta nera”. E poi Catilina, lo sfortunato eroe di una rivoluzione mancata, bollato da un Cicerone che piaceva tanto al fascismo e anche a Concetto Marchesi, al compagno Concetto Marchesi. Com’era difficile, com’è difficile studiare gli eventi storici dal punto di vista dei morti di fame. O meglio dal punto di vista di un’analisi marxiana. E io ne sarei stato capace? Ero diviso tra la politica del presente, la partecipazione quotidiana, e quella del passato, la ricerca storica.

La Repubblica

Il mio terzo e ultimo anno scolastico ripagò le mie attese. I primi due anni erano stati duri: i famosi nove mesi dell’occupazione di Roma “città aperta” – si fa per dire – dall’8 settembre del ’43 al 4 giugno del ’44, primo liceo; e poi ancora la guerra di Liberazione, Erano stati due anni scolastici per certi versi precari dal punto di vista di uno studio sereno e approfondito, ma ricchi, anzi straricchi, di stimoli, per gli accadimenti quotidiani. Due anni per me di grossa crisi, politica ed esistenziale, direi: da fascista convinto ad antifascista assai incerto, alla ricerca di un nuovo approdo, o meglio di nuovi approdi. I primi due anni mi avevano dato molto, ma il terzo mi avrebbe dato di più? E mi dette di più. Fu uno studio matto e disperatissimo, per dirla con il poeta, soprattutto perché nello studio ricercavo strumenti di lettura della realtà: l’espressione è grossa e allora non ne ero neanche consapevole, sapevo solo della mia inquietudine, della ricerca di un ubi consistam dopo i miei primi quindici anni di vita dietro alle divise, agli inni, ai giuramenti, alle aquile imperiali e al sole che sorge a domare i suoi cavalli sui sette colli.
Era dura, e lo zio Lele aveva fatto la sua parte. Anche i miei genitori, più con l’affetto e la sollecitudine che con la stimolazione a riflettere. Erano troppo occupati a “mandare avanti” la famiglia sul terreno del cibo e della sicurezza che non su quello dell’assistenza psicologica… e intellettuale, se si può dir così. Con lo zio Lele era diverso: ci si metteva a sedere e si parlava e oserei credere che forse “ha dato “ più a me che non alle mie cugine. Insomma il ruolo del padre non è mai quello dello zio o quello del nonno. Ma io nonno Torello, diminutivo di Salvatore, padre di mia madre, l’avevo conosciuto al mio arrivo a Roma da Torino, solo dopo che l’aveva colto un ictus e ,quando parlava a stento, quasi rantolando, mi faceva più impressione che tenerezza. Eppure, a detta di mia madre, era stato un padre esemplare. E nonno Vincenzo, padre di mio padre, non l’ho mai conosciuto. Ma gli zii li sostituirono ad abundantiam.
Quel terzo liceo fu anche l’anno della mia iniziazione politica. Una parola grossa – è vero – ma fu proprio così. Come se mi dovessi riscattare da un passato di cui mi sentivo anche un pochino colpevole. In effetti ero stato fascista convinto, anche se un semplice balilla, e avevo sostenuto e osannato un regime che ci aveva trascinato in una guerra assurda. Per non dire poi di tutte quelle informazioni sui campi di concentramento, sul carcere per i dissidenti, sul confino, sullo sterminio degli ebrei… tutte cose che mi frullavano per la testa, che mi angosciavano, che non avevo mai saputo e che avevo pure inconsciamente avallato, quando pensavo che le marce del sabato fascista fossero la “cosa” più bella del mondo. Eravamo grandi e avremmo esportato la nostra civiltà romana al resto del mondo. E non era vero nulla.
Riuscivo a coniugare la riflessione sui classici – le stimolazioni di un terzo liceo interessante e severo – con l’attenzione agli accadimenti del giorno dopo giorno. E furono accadimenti importanti. Il nostro Paese si rivoltava come un guanto… e in pochi mesi. Il 9 maggio Vittorio Emanuele III abdica in favore del figlio, il Principe Umberto, che già era Luogotenente del Regno fin dal giugno del ’44. In effetti l’abdicazione sarebbe dovuta avvenire solo dopo che il popolo si fosse pronunciato per mantenere la monarchia o scegliere la repubblica. Ma le sorti della monarchia erano così compromesse che Pippetto preferì uscire di scena, tentando così di rafforzare l’istituto monarchico. E poi il 2 giugno del ‘46. Le prime elezioni politiche libere dopo tanti anni di dittatura fascista. Fummo chiamati a due scelte importanti: la forma del nuovo Stato, monarchia o repubblica; l’elezione di un assemblea costituente, che avrebbe dovuto darci una nuova Costituzione, che sostituisse in via definitiva quello Statuto albertino che dal 1848 in poi non era mai riuscito a garantire la sovranità popolare – il sovrano di fatto era pur sempre il re – e non aveva evitato l’avvento della dittatura fascista.
Ma io non potevo votare. Non ero maggiorenne. Eppure mi sentivo privato di un diritto. Io che forse più di mille altri ero profondamente convinto di una scelta repubblicana. Antifascista e democratica. Io non potevo votare. La battaglia nelle strade era più che accesa. I manifesti rivestivano muri e monumenti. I giornali tutti con caratteri cubitali. E comizi, quanti comizi. Non c’era la Tv, e la radio nazionale – non c’erano radio private – non dava notizie di parte. Tutto era nelle piazze e nelle strade. Ogni partito aveva i suoi propagandisti. Il Pci si avvaleva degli agitprop, i responsabili di agitazione e propaganda. Il Pci era agli occhi di tutti quello più organizzato e più deciso per l’opzione repubblicana. La svolta di Salerno si era manifestata una scelta vincente. Nessun estremismo. Accettazione, in via provvisoria, della monarchia. E promozione di un governo di unità nazionale. Così, quei partiti che, dopo l’8 settembre si sarebbero accapigliati, si ritrovarono tutti uniti nei Comitati di Liberazione nazionale. Parola d’ordine: prima cacciamo i tedeschi, vinciamo la guerra, e solo dopo mettiamo sul tappeto la questione istituzionale, monarchia o repubblica, e la questione sociale: a chi i mezzi di produzione e di scambio? L’ipoteca comunista, o social comunista, tutto il potere economico alla mano pubblica: oppure l’ipoteca liberale, la libera iniziativa, perseguita dalla DC, dai repubblicani dai liberali.
Questioni grosse, qui ricordate “in soldoni”, come si suol dire, ma anche allora – se non ricordo male – avanzate più in pillole che non in meditate riflessioni. In effetti, un Paese che per vent’anni era stato fuori dal mondo, tagliato fuori dalla ricerca che su tutti i campi si faceva sempre più internazionale, un popolo con alti tassi di analfabetismo funzionale – quella strumentale bene o male aveva toccato soglie attendibili, perché il Duce voleva che tutti sapessero leggere e scrivere, anche se solo per osannare le scelte del Fascismo con tanto di EFFE maiuscola – non possedeva gli strumenti necessari per “leggere” un Keynes o un White o per sapere che cosa avessero deciso inglesi e americani a Bretton Woods. E non li possedevo neanch’io, ovviamente. E forse neanche adesso.
Il 2 giugno votarono più di 20 milioni di italiani e votarono anche le donne. Ricordo la grande emozione della mamma, quasi piangeva, lei che ancora portava all’anulare la fede di ferro perché quella d’oro l‘aveva donata alla Patria… E io l’accompagnai e feci una lunga fila – l’emozione era sul volto di tutti – per vedere come si votava… ma al seggio non mi fecero entrare. Non ero maggiorenne e non avevo diritto al voto. E poi seguirono lunghe giornate di attesa. Il ministro degli Interni, Giuseppe Romita, non ci dava mai i risultati. I grandi sospetti di tutti. Che cosa staranno facendo al ministero? Repubblicani e monarchi erano sicuri di aver vinto. Ma quanto ci voleva per la conta delle schede? Non c’erano gli exit poll. Non c’erano le proiezioni. Bisogna solo pazientemente aspettare. Tutti sospettavano dei brogli, ma a favore di chi? Poi finalmente i risultati il 12 giugno. 12 717.923 voti alla Repubblica. 10.719.284 alla Monarchia. Lo scarto era tale che i monarchici gridarono ai brogli, ma fu lo stesso re a tacitarli. Umberto II di Savoia il 13 giugno parte per Cascais dove rimarrà in esilio volontario fino al giorno della sua morte. E solo il 18 giugno la Corte di Cassazione proclamò ufficialmente la vittoria della Repubblica. Quanta attesa. Ma la macchina della democrazia doveva ancora essere oliata. I tempi delle “decisioni irrevocabbbiliii” e, ovviamente, rapide erano ormai terminati. La dittatura è veloce, la democrazia è lenta.
Il 28 giugno l’Assemblea Costituente elesse Enrico De Nicola come Primo Presidente Provvisorio del nuovo Stato repubblicano. Com’è noto, l’Assemblea Costituente lavorò per poco più di un anno e il 27 dicembre del ’47 Enrico De Nicola, Umberto Terracini e Alcide De Gasperi apposero la loro firma alla Costituzione repubblicana che entrò in vigore il primo gennaio del ’48. In tempi brevissimi i Padri Costituenti ci hanno dato una delle Costituzioni più belle del mondo. E non lo dico solo io.
Ma erano uomini veri. E donne vere. Non posso non ricordarne alcuni, e in rigoroso ordine alfabetico, per la loro onestà, la loro cultura, e le sofferenze che avevano affrontato e sopportato negli anni bui della dittatura fascista:

Giorgio Amendola, Giulio Andreotti, Lelio Basso, Bianca Bianchi, Laura Bianchini, Walter Binni, Ivanoe Bonomi, Paolo Bonomi, Piero Calamandrei, Giulio Cerreti, Maria Angela Cingolani, Tristano Codignola, Arturo Colombi, Emilio Colombo, Elisabetta Conci, Epicarmo Corbino, Carlo Cremaschi, Olindo Cremaschi, Benedetto Croce, Alcide De Gasperi, Giuseppe Di Vittorio, Edoardo D’Onofrio, Giuseppe Dossetti, Luigi Einaudi, Giuseppe Ermini, Amintore Fanfani, Andrea Finocchiaro Aprile, Antomio Giolitti, Igino Giordani, Guido Gonella, Achille Grandi, Giovanni Gronchi, Luigi Gui, Fausto Gullo, Leonilde Iotti, Maria Jervolino, Arturo Labriola, Giorgio La Pira, Giovanni Leone, Girolamo Li Causi, Oreste LIzzadri, Carlo Lombardi, Ivan Matteo Lombardo, Emilio Lusso, Luigi Longo, Pietro Mancini, Concetto Marchesi, Gaetano Martino, Bernardo Mattarella, Teresa Mattei, Carlo Matteotti, Matteo Matteotti, Lina Merlin, Riccardo Momigliano, Rita Montagnana, Rodolfo Morandi, Aldo Moro, Pietro Nenni, Umberto Nobile, Vittorio Emanuele Orlando, Gian Carlo e Giuliano Pajetta, Giuseppe Paratore, Giulio Pastore, Giuseppe Pella, Sandro Pertini, Luigi Preti, Giuseppe Romita, Paolo Rossi, Meuccio Ruini, Mariano Rumor, Giuseppe Saragat, Oscar Luigi Scalfaro, Mario Scelba, Antonio Segni, Ignazio Silone, Nadia Spano, Pietro Secchia, Emilio Sereni, Fiorentino Sullo, Fernando Tambroni, Umberto Terracini, Palmiro Togliatti, Umberto Tupini, Paolo Treves, Leo Valiani, Ezio Vanoni, Benigno Zaccagnini.
E sono solo alcuni dei 556 Padri… e Madri Costituenti…

La maturità

Fu la prima estate di pace, ma, per certi versi, non per me. Fu una guerra il mio studio matto e disperatissimo… Avevo studiato tantissimo per prepararmi agli esami di maturità. Tutte le materie, e dell’intero triennio. La mia cameretta… aveva cambiato carta da parati. Perché, giorno dopo giorno, dal mese di marzo in poi, affiggevo fogli protocolli in verticale, con rigorosissimi appunti in caratteri piccolissimi e di diverso colore, materia per materia. Tutta la storia, dalla solita caduta dell’Impero Romano fino alla solita prima guerra mondiale… e lì ci si fermava, per mia fortuna. Secoli e secoli, anno dopo anno in colonna il susseguirsi delle date, e in altrettante colonne gli avvenimenti Paese per Paese, e l’Italia al primo posto. Italocentrismo ed eurocentrismo erano dominanti. Altri Paesi di altri continenti comparivano solo in rare occasioni: la scoperta dell’America, la guerra di Crimea (ma guarda dove avevano spedito i nostri poveri bersaglieri) i 500 di Dogali, le colonie dei Paesi europei, la guerra dell’oppio, e via dicendo. Analogo criterio per la nostra letteratura, dalla Carta Capuana, Sao ko kelle terre per kelli fini qui ki contene trenta anni le possette parte Sancti Benedicti… a D’annunzio… e quanto mi piacevano Il Piacere e Il Fuoco. Ma nulla di Shakespeare o di Molière… un italocentrismo anche letterario duro a morire. E la stessa cosa per le altre due letterature, latina e greca, più i testi gli autori latini e greci. Orazio, Saffo, Euripide, e non ricordo più. E per la storia dell’arte. Dai kouroi greci a De Chirico. Per non dire delle altre materie: tutteee… Un preparazione durissima, all’insegna di un rigore metodologico che stupì i miei genitori. E la mamma che mi sosteneva con uova battute a colazione e zabaioni al pomeriggio. E come soffrivo perché la battaglia del referendum non poteva essere il pensiero primario. E gli esami non finirono lì, perché latino e greco me li portai – come si usava dire – a settembre… tutta colpa di un commissario esterno durissimo, il prof. Cossu.
Poi, finalmente, la libertà… Via i libri, basta con gli esami, anche se di notte in sogno qualche incubo insisteva nel perseguitarmi. E basta con le materie letterarie. Andavo bene nelle materie scientifiche… si fa per dire. O meglio, non andavo poi tanto male – per cui la decisione… irrevocabile. Eredità del ventennio? «Mi iscriverò a ingegneria». E l’irrefrenabile gioia di mio padre, lui perito tecnico, avrebbe avuto un figlio laureato… ingegnere… E i complimenti di zio Lele, ovviamente. E di zio Gino e di tutti i parenti.

(omissis)