Le Regioni e la Buona Scuola

LE REGIONI E LA BUONA SCUOLA

di Gian Carlo Sacchi

Di solito i pareri o le intese sono documenti molto stringati e mirati ai singoli problemi ed è quindi difficile cogliere la posizione delle Regioni in materia scolastica. Quanto restituito al Governo sulla “buona scuola” è qualcosa di più articolato che ci da modo di intravvedere una posizione più complessiva, e, quello che più ci interessa, ci permette di considerare l’evoluzione dei rapporti tra i due versanti, statale e regionale, che ancora oggi non hanno scelto tra autonomia e centralismo.

Di tutti gli argomenti di cui si occupa la Conferenza delle Regioni in risposta alle sollecitazioni governative ci limitiamo a considerare quelli della governance, più legati all’impianto istituzionale, da sempre ondivago, alla base del quale ci sono le questioni finanziarie e di gestione del sistema a livello nazionale e locale.

Non vogliamo andare molto indietro nel tempo per recuperare i termini di questo dialogo tra sordi: ci basti constatare che nel periodo di maggiore discussione su questi temi, quello cioè tra le due riforme costituzionali, del 2001 e l’attuale appena avviata, ad un’azione politica assai arrogante del governo centrale, che non ha mai dato seguito alle modifiche istituzionali richieste dalla riforma del Titolo Quinto, ha corrisposto una enorme debolezza delle Regioni che non solo non hanno mai rivendicato in modo energico e organico le proprie prerogative in materia, poche infatti sono quelle che hanno legiferato sull’argomento, ma si sono limitate ad agire di rimessa, in una posizione di perenne sudditanza.

Insomma ogni volta che c’era uno spazio le regioni non sono andate più di in la di ricercare, quando non vi erano costrette, un’intesa, e quando timidamente avanzavano qualche proposta regolamentare , rimaneva lettera morta, non si usciva nemmeno dalla Conferenza stato- Regioni per la decisa opposizione del ministero, qualunque fosse la maggioranza politica in quel momento in auge.

Altro che federalismo, che tra alterne vicende propagandistiche e referendarie, poteva anche essere una strada per dare piena espressione alla riforma degli enti locali del 1990 ed a quella della pubblica amministrazione del 1997, nella quale fu “riconosciuta” l’autonomia scolastica e venne conferita loro la personalità giuridica.

Da come le cose si sono sviluppate potremmo dire che niente può ostacolare la burocrazia dei ministeri (vedi la spending review quanto poco ha colpito a centro e quanto nelle periferie) e la scarsità delle risorse porta le regioni a non farsi avanti per paura che lo stato scarichi le competenze e i debiti. Qualche modifica nel senso di una finanza decentralizzata fu tentata con le politiche di bilancio del secondo governo Prodi; gli enti locali però quasi non raccolsero e quando ci fu da organizzare la governance delle autonomie scolastiche sul territorio, le regioni si limitarono a pochi interventi formali del tutto marginali.

L’autoregolamentazione delle scuole autonome poteva trovare nelle regioni stesse un punto d’appoggio per spostare il baricentro verso un “sistema delle autonomie”, invece oggi è chiaro che sono una realtà politica che dialoga con un’entità amministrativa quale l’Ufficio Scolastico Regionale, che è ancora quello che nomina i commissari ad acta per coloro che si discostano dalle norme e obbedisce al ministero centrale. Esso infatti si rinforza con l’ultima versione del Titolo Quinto, ma soprattutto con l’immagine neoimperialista degli attuali governanti. Ci sarà molto da fare nei prossimi mesi per riorganizzare gli enti territoriali, dopo l’abolizione delle province e con l’introduzione del nuovo Senato, ma tutto questo sarà un diversivo per distogliere dalle vere battaglie, quelle per i poteri locali.

La scuola non cambierà e forse non vuole cambiare: la Minerva rimarrà sempre il faro nazionale, se mancano le risorse forse sarà meglio introdurre i bond o l’8 per mille.

Si è data la colpa al contenzioso presso la corte costituzionale per eliminare la “legislazione concorrente”; nel settore dell’istruzione le sentenze sono state veramente poche; alcune cercavano di far fronte ai tagli di personale e della rete scolastica messe in campo da certi ministri ed una sola ha ridisegnato il sistema e a ben guardare si poteva prendere ad esempio per fare un decisivo passo sull’applicazione del precedente titolo quinto, ma si è preferito modificarlo di nuovo anziché applicarlo. Diminuendo le materie di competenza regionale non è detto che si elimini il contenzioso sul piano qualitativo.

La legislazione concorrente dunque non c’è più (quella che cioè diceva che l’ultima parola nel governo del sistema era delle regioni), resta la leale collaborazione, che c’era anche prima, ma a giudicare dai fatti di leale c’è stato ben poco. Per leale le Regioni timidamente intendono le intese, ma in sede di riforma costituzionale si prevede quasi esclusivamente i pareri. E il senato cosa farà ? Farà l’eco alla Camera e questa a sua volta esaminerà perlopiù provvedimenti governativi, compresa l’eventuale attribuzione di maggiori poteri alle regioni stesse.

Auspicabile che le Regioni nel loro documento parlino di governance condivisa, anche per evitare duplicazioni e sovrapposizioni, ma queste situazioni si risolvono se ogni livello avesse un proprio compito e vi fossero adeguati strumenti di coordinamento e di sussidiarietà, compreso il così detto finanziamento “multilivello”; se invece si gestisce tutto dal centro le diversità dei territori diventano elementi di sperequazione e di inefficienza.

Ci sono due pezzi di governance che devono essere rifondati e collegati: quello top down del decentramento delle competenze fino ad arrivare alle scuole e quello bottom up che vede la riforma dei così detti organi collegiali, fino ad arrivare ad un consiglio nazionale per la rappresentanza dell’autonomia scolastica. Qui le idee non sono chiare, o meglio, ancora una volta prevale un atteggiamento gattopardesco; staremo a vedere cosa ci suggerirà la consultazione in atto, se e quando al di la dei titoli e dei twitt si potranno esaminare rapporti e concrete proposte.

Com’è noto l’enfasi in questo momento è posta sulla valutazione; è il miur che predispone tutto tranne quello che serve e cioè i “livelli essenziali delle prestazioni” e gli standard (che non sono le indicazioni nazionali) che definiscono il range di trasparenza e di efficacia del sistema. Che vi sia l’individuazione condivisa di tali obiettivi le Regioni lo chiedono, ma anche qui bisognerà vedere se verrà loro attribuito un ruolo di rappresentanza del territorio o semplicemente di organizzazione della rete scolastica. E’ interessante il lavoro predisposto sul riparto degli organici, che però non ha trovato alcun riscontro in sede ministeriale: non si passa per ora con gli organici di istituto, di rete e sulla flessibilità nell’uso del personale sulla base delle reali esigenze territoriali.

Una maggior corrispondenza di amorosi sensi parrebbe esserci sul versante del rapporto tra studio e lavoro nella riaffermazione degli istituti superiori e delle relative fondazioni, nell’apprendistato, anche se non sappiamo bene ancora che fine farà la formazione nel decreto governativo sul job act, nelle esperienze regionali di istruzione e formazione professionale (IeFP). Ci si sarebbe aspettato anche per queste ultime una proposta di riorganizzazione dell’intero settore che comprendesse anche gli istituti professionali di stato, una novità, istruzione e formazione, che la costituzione assegna esclusivamente alle regioni.

La situazione è confusa se pensiamo agli intrecci tra gli istituti statali e i centri formativi regionali. E’ l’occasione per costruire anche in Italia il doppio canale alla tedesca, al quale tanto si guarda con invidia, ed invece finirà che ci si limiterà ad un angusto percorso di seconda scelta le cui criticità, compreso l’abbandono, finiranno per non soddisfare nemmeno la sola occupabilità, mettendo a rischio il successo formativo. Qui ad esempio ci sarebbe un gran bisogno di politiche per l’orientamento, per il quale non esiste una normativa ad hoc e che per tradizione costituisce un obiettivo pedagogico delle scuole.

C’è bisogno più che mai di un sistema “integrato” stato-regioni, anzi di un nuovo contenuto su base regionale che identifichi non attraverso intese burocratiche e difficili convergenze di diversi strumenti di governo, il nuovo contenitore costituzionale: istruzione e formazione professionale. Si sa che in questo settore esistono finanziamenti europei in particolare per le regioni della così detta convergenza, ma anche qui i progetti languono.

Questa breve carrellata per evidenziare lo stato del regionalismo nel nostro Paese; forse la mala politica di questi tempi consiglia di abbassare i toni, ma si vuol sapere a chi interessa ancora il tanto declamato federalismo.

“In Italia si può parlare di regioni non come una burocratica divisione del territorio, ma come di una ragione geografica, storica e morale, come una realtà esistente e vivente nell’unità nazionale….Il compito degli organi centrali dello stato sia soltanto di direzione, coordinamento e vigilanza….Le regioni siano un organo di decentramento amministrativo e di rappresentanza politica di interessi locali”. Lugi Sturzo in un discorso del 1921.

Un regionalista (meridionalista, ma non assistenzialista) convinto sosteneva che il “decentramento amministrativo rafforza l’unità nazionale, invece nel centralismo si trovano difficoltà maggiori di funzionalità e di rispondenza ai bisogni….L’attività delle amministrazioni locali non è semplicemente soggetta e attribuita, ma libera e responsabile”.

C’è forse più bisogno di maturazione che di rottamazione !