Se questo è parlare di scuola…

Se questo è parlare di scuola…
Considerazioni dell’ Associazione Europea Scuola e Professionalità Insegnante sul rapporto sulla scuola del Governo Renzi

Nel lungo testo redatto dagli esperti
del Governo, denominato “La buona
scuola”, al di là del proposito, astrattamente
condivisibile, di dare all’Italia
una buona scuola, proposito contraddetto
da dichiarazioni d’intenti
vacue e generiche, emergono indicazioni
di rotta assai preoccupanti.
Nelle 136 pagine, non abbiamo mai
letto né la parola “cultura”, né la parola
“libertà”: come si fa, ci si chiede
con sorpresa, a formulare un qualsiasi
piano di riforma o di semplice innovazione
del sistema scolastico italiano,
tacendo che cultura e libertà
stanno alla base di ogni innovazione,
di ogni proposta di spesa, di ogni organizzazione
? Viene il dubbio che
questo non sia effetto di dimenticanza,
bensì una voluta scelta politica
tendente ad orientare l’opinione
pubblica verso soluzioni che ignorano
tanto la cultura, quanto la libertà.
Qui desideriamo mettere a fuoco alcuni
fra quelli che ne costituiscono,
o ci sembrano costituire, i punti salienti
della sua prima parte, e cioè:
stato giuridico della docenza, carriera,
retribuzione. Ad altre tematiche,
pure importanti, dedicheremo successivamente
ulteriori interventi.
A pag. 50 viene affrontato lo stato
giuridico. È una sorpresa in se stessa
piacevole, perché la locuzione sembrava da qualche tempo scomparsa
dal pubblico dibattito sulla scuola.
Ebbene, le misure escogitate per
rinnovarlo costituiscono effettivamente
delle novità, ma delle novità
che non promuovono la condizione
dell’insegnante, anzi ne polverizzano
la funzione in una miriade di
attività eterogenee. Seguiamo l’iter
concettuale (ma Dio non voglia
legislativo!) che perviene a questo
risultato. Il documento annuncia
l’ambizioso progetto di eliminare il
precariato, assumendo stabilmente
entro il settembre 2015 ben 149.000
docenti. L’ipotesi è in sé allettante,
ma il prezzo da pagare altissimo. La
parte preponderante di questi insegnanti,
infatti, non verrebbe stabilizzata
su cattedra, ma su quello che si
definisce “organico dell’autonomia”.
A quanto si può comprendere, l’insegnante
viene immesso in un alveo
indistinto costituito da una rete
di scuole, nei confronti delle quali
egli si impegna all’espletamento di
compiti assai variegati: docenza in
classe, ma anche “attività di laboratorio
ed extracurriculari”, supplenze
brevi, copertura di lezioni in materie
“collaterali” alle proprie, imprecisate
attività “funzionali all’offerta
formativa”. Si prospetta una figura
di docente tuttologo e itinerante
che smarrisce le due dimensioni
fondamentali della professione: la
competenza in discipline specifiche
(semplicemente: la cultura) e la stabile
relazione con l’allievo. Non è,
la nostra, una preoccupazione ingiustificata:
basta leggere. Si presti
infatti attenzione al seguente passaggio
in pretto didattese infarcito di
anglicismi: “Ci si aspetta inoltre che
[gli insegnanti] non insegnino solo
un sapere codificato (più facile da
trasmettere e valutare), ma modi di
pensare (creatività, pensiero critico,
problem-solving, decision-making,
capacità di apprendere), metodi di
lavoro (tecnologie per la comunicazione
e collaborazione) e abilità per
la vita e per lo sviluppo professionale
nelle democrazie moderne”.
CARRIERA E
RETRIBUZIONI DEGLI
INSEGNANTI
Posto in rilievo tutto ciò, consideriamo
ora il nesso carriera-retribuzione
come si configura nel documento del
3 settembre. In esso si insiste molto
sul fatto che si deve introdurre nella
scuola un dinamismo della carriera
sganciato dall’anzianità. Questo dinamismo
è legato a cosiddetti “scatti
di competenza” la cui entità è di 60
euro l’uno e che possono essere attribuiti
ognuno ogni triennio. Ad essi
si aggiunge una seconda componente
economica, attribuibile annualmente
in relazione a “svolgimento
di ore e attività aggiuntive ovvero
progetti legati alle funzioni obiettivo
o per competenze specifiche (BES,
Valutazione, POF, Orientamento, Innovazione
Tecnologica. Tali aumenti
vengono legati all’acquisizione di
“crediti” i quali possono essere di
natura didattica (qualità dell’insegnamento),
formativa (cioè relativi
all’aggiornamento) o professionale
(ruoli organizzativi svolti nella scuola).
I crediti vengono raccolti in un
“portfolio” elettronico di pubblica
consultazione. Chi li attribuisce, e a
quanti insegnanti? Par di capire: il
“nucleo di valutazione” interno ad
ogni istituto. Rinviando a un successivo
documento ogni giudizio su
questo organismo per ora nebuloso
e che sarà sicuramente occasione di
problemi e contenziosi, quello che
si deve rimarcare è che esso può
riconoscere lo scatto a un massimo
del 66 % dei docenti della scuola (o
della rete di scuole). Si di una procedura
macchinosa, arbitraria che
privilegia il “fare altro” rispetto
all’insegnamento, a conferma di una
ridefinizione della figura del docente
dai tratti deboli e incerti, orientata
verso incombenze organizzative,
funzionali, para-didattiche, ben lontana
dalla figura del docente come lo
concepisce questa associazione: un
soggetto volto all’approfondimento
delle discipline nelle quali è competente,
dotato di umano interesse per
la persona in formazione che ha di
fronte a sé in classe, provvisto di un
profilo professionale sostenuto da
idonee garanzie di legge e da un diffuso
riconoscimento sociale.
AUTENTICA ED UNICA
RATIO DEL PROGETTO
GOVERNATIVO
Non siamo per partito preso contrari
alle riforme a costo zero. Pensiamo
anzi che il legislatore intelligente ed
oculato possa, in alcuni casi, ottenere
risultati apprezzabili senza gravare
sul bilancio dello Stato. In questo
caso, però, ci sono alcuni passaggi
che – per così dire – si richiamano e
si rischiarano a vicenda, conducendo
il lettore a formulare una valutazione
d’insieme, che identifichi, al
di là del dichiarato, l’autentica ratio
della riforma.
In questi passaggi si colgono i seguenti
punti fermi:
1) l’assenza di qualsiasi miglioramento
dello stato giuridico degli
insegnanti negli elementi che potrebbero
effettivamente determinarlo,
i quali sono: sganciamento
dal pubblico impiego – contrattazione
separata – autonomia della
categoria attraverso Ordine, Albo,
organismi di autodisciplina – eliminazione
delle RSU;
2) la polverizzazione della funzione
docente in una molteplicità di
ruoli che consentono di utilizzare
il personale per soddisfare esigenze
di natura formativa e culturale
ma anche – e sempre di più – di
organizzazione, di valutazione, di
custodia, di intrattenimento, di
chissà cos’altro;
3) la mancanza di riferimenti alla
libertà d’insegnamento protetta
dall’art. 33 Cost., coerentemente
con l’illustrata rimodulazione del
ruolo docente ad un livello polifunzionale
impiegatizio;
4) la scarsissima enfasi posta sui concetti
di preparazione e di cultura,
che nel testo in esame appaiono
posposti a tutta una serie di competenze
di altro genere;
5) l’assenza di un reale miglioramento
delle retribuzioni commisurato
alla responsabilità e delicatezza
della docenza e alla particolare
usura che il suo esercizio
produce.
Di fronte a questo quadro composito,
ma in fondo coerentissimo, la
domanda: a che scopo? All’origine di
tutto vi è il rischio di dover incorrere
nelle onerosissime sanzioni che
inevitabilmente scatterebbero al termine
della fase giurisdizionale della
già iniziata procedura di infrazione
della Commissione Europea. L’immissione
in ruolo della legione dei
149.000 docenti, dunque, non è un
mezzo per rendere più funzionale il
sistema-scuola, ma semplicemente
un “atto dovuto” che il timore degli
strali della Commissione induce
ad espletare al più presto. Da ciò la
necessità inderogabile di stabilizzare
quanti più precari è possibile e
di identificare per loro una funzionalità
non rigida ma plasmabile, in
modo da potersi adattare a multiformi
esigenze nonché alla fluttuazione
della popolazione scolastica.
Dunque il documento, con il suo
didattese di marca anglosassone,
con l’esibizione a pag. 7 dei santini
di una pedagogia fortemente orientata
– Montessori, Don Milani, Don
Bosco, Malaguzzi, dove Don Bosco è
probabilmente un refuso dell’estensore
distratto tanto poco c’entra con
gli altri, e da dove Giovanni Gentile
è naturalmente espunto – con il suo
mettere assieme elementi disparati
(eccellenze, laboratorio, merito,
apertura al territorio, assunzioni di
massa, concorsi ecc. ecc.) si qualifica
come nient’altro che una vasta e
variopinta pezza a colori utile demagogicamente
a coprire un’esigenza
meramente finanziaria, cioè ad impedire
il danno che deriverebbe dalle
sanzioni europee.
Concludendo: nessuna illusione.
Non si intravede per i docenti italiani,
nella riforma che si prepara,
alcuna promozione professionale,
sociale, economica. Non vi sono,
rispetto al passato, né inversioni di
rotta, né più modeste correzioni di
marcia. Il docente, perso il collegamento
stabile con la sua cattedra e
assunte sempre di più funzioni di
intrattenitore e facilitatore culturale,
smarrirà il residuo credito sociale
che gli rimane. Il livello generale degli
studi subirà un ulteriore abbassamento.
Il polpettone indigesto viene servito
con colorate guarnizioni e il suo anfitrione
approfitterà della gratitudine
degli immessi in ruolo. Conseguenza
di tutto ciò è l’ufficializzazione della
scuola quale ammortizzatore sociale
dal quale usciranno le future generazioni
come meri “consumatori”
(ma di che cosa, vista la crisi in atto?)
È il mondo di Berlinguer, misero
quale prospettiva per i giovani.
CONCLUSIONE
In conclusione, le linee – guida
del Governo, contenute nel testo
“La buona scuola” andrebbero
riscritte integralmente con l’apporto
di persone competenti; così come
sono formulate, vanno respinte in
blocco per l’evidente inconsistenza
culturale e l’altrettanto evidente
misconoscimento della dimensione
educativa e formativa che una scuola
degna di tale nome deve possedere.