Le Regioni e il “Sistema educativo professionalizzante”

Le Regioni e il “Sistema educativo professionalizzante”

di Gian Carlo Sacchi

Merita una particolare attenzione un documento della Conferenza delle Regioni del dicembre scorso che cerca di disegnare un profilo del nostro “sistema educativo professionalizzante”. L’interesse nasce da una serie di fattori: è la prima volta che in tempi recenti le Regioni motu proprio si pronunciano sul sistema educativo nel suo complesso, perlopiù hanno espresso pareri o stipulato intese per iniziativa governativa; sono tornate a far sentire la loro voce in un momento in cui le riforme istituzionali sembrano diminuire i loro poteri: le “competenze concorrenti” sono sparite dal nuovo testo costituzionale, da un lato l’ordinamento scolastico rimane saldamente nelle mani e dello stato, e, dall’altro, il ministro Poletti ritiene di dare maggiore organicità alla formazione professionale attraverso la sua nazionalizzazione, non limitandosi al già esistente repertorio delle qualifiche. Per le Regioni il sistema è educativo professionalizzante forse non solo per mantenersi nell’ambito delle proprie attribuzioni, ma perché l’interesse prevalente a questo livello è quello del lavoro e dell’occupazione.

Il riferimento è a Europa 2020 ed alle previsioni circa la domanda di professionalità ad alto livello di qualificazione che in altri Paesi arriva direttamente dal canale professionale, mentre da noi si raggiunge soprattutto passando per i licei. Qui c’è una questione dirimente: qual è il ruolo che viene attribuito in termini di obiettivi formativi, di esiti occupazionali e di governance alla “istruzione e formazione professionale” indicata dalla Costituzione come competenza esclusiva delle regioni stesse. Il governo nazionale con il documento sulla “buona scuola” sembra non affrontare con chiarezza il problema, è più disponibile a piegare tutto il sistema formativo verso il mondo del lavoro, anticipando le scelte professionalizzanti e riportando le competenze di governo, come si è detto, verso lo stato nazionale, piuttosto che riorganizzare i diversi segmenti del sistema, magari trasferendo gli istituti statali del settore alle regioni, evitando però la polarizzazione con i licei e mantenendo le relazioni, soprattutto in termini di risultato, tra competenze generali e professionali. Dove poi vadano collocati gli istituti tecnici è un problema tutto italiano, in riferimento ai profili che gli stessi devono sviluppare a scala nazionale soprattutto in relazione con la grande impresa.

L’ambiguità che dovrebbe essere risolta è proprio quella della confluenza di diversi indirizzi e modalità di governance nel momento in cui si debbono attribuire qualifiche riconosciute anche a livello europeo e costruire percorsi territoriali ad alta qualificazione (ITS, Poli Tecnici) che vadano in aiuto perlopiù alle piccole e medie imprese. Il nuovo Senato delle autonomie potrebbe essere un luogo adatto a presidiare tale complesso sistema e proprio per questa ragione la divaricazione di competenze istituzionali renderebbe difficile una gestione integrata dei curricula utile non solo all’occupabilità, ma alla crescita delle persone, allo sviluppo delle competenze ed alla formazione continua.

A proposito di centralismo c’è da notare che nel decreto così detto “collegato per il lavoro” si riportano allo Stato le “politiche attive per il lavoro”, oltre al predetto ordinamento scolastico, e compare l’istituzione di un’agenzia nazionale per l’occupazione e la gestione dei servizi per l’impiego. Tali politiche, precisa il decreto, si occuperanno di attivazione dei soggetti che cercano lavoro….al fine di incentivare la ricerca di una nuova occupazione secondo percorsi personalizzati…..A regioni ed enti locali la programmazione sul territorio.

Istruzione e formazione professionale, un sistema frammentato, sia per i riconoscimenti delle qualifiche, sia per la qualità delle prestazioni e questo lo si vede da un lato con il tentativo di arginare la dispersione mediante la formazione professionale regionale e l’apprendistato (il 73% dei dispersi, rileva il documento regionale, proviene da quegli indirizzi scolastici), e, dall’altro, dalla sgangherata collaborazione tra istituti professionali ed enti di formazione regionali per quanto riguarda le qualifiche triennali.

L’ISFOL rileva che questi livelli di preparazione sono più facilmente spendibili nel mondo del lavoro e quindi più richiesti, come prima scelta, da quelle famiglie che, complice anche la crisi economica, rinunciano a percorsi di studio più lunghi.

La proposta ordinamentale delle Regioni è di unificare l’istruzione tecnica e professionale, con un primo livello di qualificazione dopo il terzo anno, arrivare al quarto già presente nell’IFP, prevederne un quinto come IFTS, per proseguire poi con ITS/università. Questo potrebbe avvicinarsi all’idea di concludere la scuola superiore a 18 anni, di rinforzare il carattere terziario non accademico, di guadagnare diverse opportunità lavorative anche europee. Può trattarsi di scuola a tempo pieno o a tempo parziale con contratti, come avviene in Germania, di apprendistato retribuito, finalizzati al completamento del percorso formativo. Il tutto seguito dall’aumento delle ore destinante alle materie professionalizzanti, ai laboratori, per creare un solido ancoraggio con la vocazione del territorio. E da qui, come si è detto, lanciare la formazione permanente, come sequenza di opportunità di uscite e rientri tra formazione e lavoro.

il tanto decantato modello tedesco tiene ben distinte la formazione liceale da quella professionale, mentre noi dobbiamo ancora capire se la buona scuola sia quella completamente funzionale all’economia, e su quest’ultimo versante molta strada resta ancora da compiere per quanto riguarda la continuità verticale fino ad arrivare alle più alte qualificazioni (messa a sistema degli ITS) e quella orizzontale nei rapporti tra scuola e imprese (dare impulso alle varie forme di apprendistato). A tenere questa impalcatura i tedeschi hanno alle spalle una storica pedagogia del lavoro ed un grosso impegno, anche finanziario, delle aziende private. il Confronto con la nostra realtà è piuttosto evidente. I numerosi pronunciamenti di Confindustria sulle riforme della scuola non mettono in campo risorse dirette, ma chiedono investimenti pubblici, che nelle regioni più avvedute hanno visto nascere i poli tecnici.

Dall’altra parte la governance della nostra scuola non facilita certo rapporti efficaci con il territorio: autonomia degli istituti, flessibilità dei curricoli, modifica delle classi di concorso per i docenti, organici funzionali, reti territoriali, di cui si parla nel documento delle regioni sono condizioni già note da tempo ma mai compiutamente realizzate.

Parlare di “costi standard” anche per il settore scolastico significa avere una visione federalista, di cui però c’è ragione di dubitare; in quest’ottica il compito dello Stato è quello di definire i “livelli essenziali delle prestazioni” per la garanzia dei diritti sociali, cosa che non sembra essere tra le preoccupazioni della politica.

E’ interessante cogliere la necessità di consolidare un’efficace azione orientativa che nella scuola deve riprendere la dimensione della crescita personale ed ispirare la valutazione: non serve infatti ripristinare una selezione che porta a sacche di abbandono che risultano essere di peso per la società, ma per ognuno bisogna cercare la strada giusta, che non è semplicemente un rapporto meccanicistico tra domanda e offerta o un apprendistato precoce, se non vogliamo che le politiche attive del lavoro siano destinate quasi esclusivamente al riorientamento.

Istruzione e formazione professionale hanno bisogno di un forte rinnovamento nella organizzazione pedagogica e didattica: se un tale intervento avrà successo sul piano occupazionale non dipende direttamente dalla “vision” formativa, ma il valore aggiunto nel lavoro è il lavoratore e la cura delle sue capacità non solo professionali, ma personali e di cittadinanza. Ed è bene che siano le Regioni a ripartire perché in questi anni si è avuta l’impressione che tranne alcune eccezioni, giocassero di rimessa nei confronti dello stato, e la qualità formativa ne abbia risentito. Un rinnovato rapporto tra competenze generali e professionali, che non vuole rieccheggiare modelli scolastici considerati obsoleti, dato anche l’alto tasso di abbandono, ha bisogno di ricerca e di innovazione, ma anche la comunità scientifica su questo fronte, a parte certi enti di tradizione pedagogica, non sembra particolarmente impegnata. Indagini effettuate dicono che i risultati formativi sembrano migliori nei centri di formazione accreditati che negli istituti professionali.

Siamo ad un bivio: da una parte si vuole configurare un nuovo asse tecnico-professionale su tutto il territorio nazionale che gradualmente lascia scomparire quella che oggi è la formazione professionale regionale, dall’altra si può pensare ad istituti statali e centri regionali insieme per una nuova istruzione e formazione professionale, indicata dalla riforma della Costituzione come competenza esclusiva delle regioni stesse.

Ma quello che un po’ sconcerta è che negli anni settanta del secolo scorso le Regioni avevano un gran fretta di entrare in possesso di tale competenza, oggi sembra che il loro atteggiamento coincida con quello citato del ministro Poletti. Il documento in discussione chiede una funzione di coordinamento e di responsabilità dello stato anche in questo settore come parte del sistema nazionale di istruzione, in modo che quello che resta si limiti a qualcosa di molto più simile alla formazione aziendale, di supporto all’apprendistato, alla riconversione professionale, ecc. Sarà una questione economica o si dichiara fallimento sul piano del governo del sistema da parte delle realtà regionali ? L’allarme lanciato dalle Regioni sul finanziamento dell’istruzione e formazione professionale, o meglio di un sistema ancora a pezzi, basato su intese con il ministero dell’istruzione, che nonostante venisse previsto nel 2001 ancora non si riesce a costruire in modo organico, dimostra da un lato che il federalismo fiscale viene progressivamente svuotato, con buona pace del movimentismo impresso dagli enti locali su tutto il capitolo risorse, dall’altro che lo Stato in questi anni ha investito ancora meno nell’istruzione e non si sa se questo atteggiamento rinunciatario delle regioni servirà a convogliare maggiori soldi statali.

Che il governo centrale adotti un comportamento gattopardesco non stupisce più di tanto, anche se verrebbe da chiedersi di cosa abbiamo parlato, con tanto di leggi e decreti mai applicati, dal 1997 ad oggi, lamentandoci del centralismo burocratico dello stato e dei suoi organi territoriali. In questo orizzonte non serve più la potestà legislativa alle regioni, le quali possono tranquillamente andare a sostituire le province ad esercitare mere funzioni amministrative.

L’efficacia del decentramento è sotto gli occhi di tutti, ma lo è altrettanto la debolezza della politica. Anche questa volta pare che non riusciremo proprio ad orientare i processi formativi verso l’apprendimento permanente, altra caratteristica che ci distanzia in profondità dalla realtà europea.