Prima che il gallo canti

Prima che il gallo canti


di Stefano Stefanel

Tra qualche giorno tutta l’attenzione del mondo della scuola sarà orientata verso i provvedimenti ministeriali nati da La Buona Scuola. Una parte consistente del mondo della scuola è già pronta a dare battaglia e credo che fin dai primi minuti dopo l’emanazione dei provvedimento ci saranno già le grida d’allarme e i richiami alla Costituzione tradita. Il Governo e la sua maggioranza parlamentare sembrano orientati su provvedimenti che eliminino le graduatorie dei precari, aumentino la flessibilità didattica e organizzativa con la generalizzazione dell’organico funzionale, introducano principi di valutazione, spingano verso un’uscita degli studenti dalla sola attività didattica nelle scuole con forti immissioni di alternanza scuola lavoro. Contro questa impostazione ci sono una vasta gamma di operatori della scuola che si sbracciano per spostare l’attenzione sulla Legge di iniziativa popolare (LIP) che vuole riportare la scuola italiana agli Anni Settanta del secolo scorso. I progressisti vogliono cambiare ma vengono tacciati di aziendalismo e di volontà privatistiche, i conservatori vogliono portare indietro le lancette della globalizzazione con ricette totalmente stataliste. Staremo a vedere, ma penso sia facile predire uno scontro frontale senza grandi possibilità di mediazioni e con un’ennesima “riforma” della scuola che si porta dentro sia le cose buone sia quelle meno buone per il rifiuto da parte dei contraddittori di intervenire sui singoli particolari e non solo sull’insieme (è già successo con Berlinguer, Moratti, Gelmini).


I VERI NODI PERO’ SEMBRANO ALTROVE


Scrivevo a inizio anno che “Si è spostato l’orizzonte”, ma poco meno di due mesi dopo devo dire che l’orizzonte è proprio sparito. Perché l’orizzonte dovrebbe essere il punto di arrivo che toglie alla scuola italiana le sue debolezze. So bene che le debolezze della scuola italiana indicate da tutti gli osservatori stranieri ed italiani (orari rigidi, poca autonomia delle scuole e degli studenti, poca flessibilità, esami di stato privi di alcun valore ma fortemente condizionati, orientamento dal primo al secondo ciclo e dal secondo ciclo all’Università molto debole e produttore di dispersione, discipline obsolete dominate da classi di concorso fuori dal tempo, orario settimanale rigido, valutazione attraverso medie matematiche di astrusi prodotti, dispersione nel biennio del secondo ciclo troppo alta, dominio delle lezioni frontali e delle interrogazioni, compiti in classe scritti su carta con penna, debolezza del 2.0, troppa teoria, ecc.) sono rivendicate da molti come la sua forza, ma credo non sia difficile da dimostrare che agendo solo su organici e docenti non si va a toccare il nocciolo culturale della questione. Cioè l’orizzonte.

La recente circolare sugli esami di stato conclusivi del secondo ciclo dell’istruzione mostra desolatamente come le forze della conservazione hanno vinto ancora e alla grande. L’occasione dell’esame finale per le prime classi nate dopo la Riforma Gelmini  è stato perso in maniera eclatante, ripetendo lo schema vecchio e mettendo una vera ipoteca su qualsiasi futuro cambiamento. La seconda prova d’esame condiziona ancora le didattiche disciplinari dell’intero quinquennio, mentre la terza prova è una vera esposizione del nullismo mnemonico-nozionistico della nostra scuola. Non capisco perché non si sia ribaltato completamente quell’esame, facendolo diventare anche nel diritto quello che è già nei fatti: una chiusura della carriera dello studente con un aumento della valutazione ottenuta nel suo corso di studi. Poiché in quell’esame nessuno viene bocciato e poiché non serve a nulla, non è chiaro perché si sia voluto perpetrare lo scempio e lo spreco di tempo e ricorse per ottenere risultati scontati e che non interessano più nessuno (due giorni d’estate sulla stampa, poi basta).

Non si parla poi molto dei percorsi didattici flessibili per gli studenti e dell’importanza che le esperienze extrascolastiche ed extracurricolari devono avere nel percorso formativo e culturale dello studente. Un buon metodo era quello di dare meno peso ai voti nelle discipline e più peso ad un punteggio che coniugasse valutazioni disciplinari, valutazioni extradisciplinari ecertificazione delle competenze e che andasse più verso una logica descrittiva e non solo sommativa. L’Italia ha bisogno più di altre Nazioni di sapere cosa sanno fare i suoi studenti, mentre l’unica cosa che sappiamo è che voto hanno preso. Con tutto quello che questo comporta in termini di perdita di competenze, opportunità e competitività.

La debole cultura valutativa italiana permette ai docenti di valutare gli alunni in base al rapporto insegnamento-apprendimento, anche quando l’insegnamento vale poco o riguarda cose da poco. Tutto il resto pare non interessare, anche se poi il sistema scolastico italiano viene valutato nella società della conoscenza attraverso le prove Ocse-Pisa e Invalsi e non attraverso i voti. Ma un ragionamento sulla valutazione parte sempre dall’idea che ci si deve difendere dai ricorsi, quasi che senza bocciature l’Italia non sappia più insegnare. Forse c’è da chiedersi perché in una società della conoscenza sia così importante mantenere strutture organizzative che nascono quando la società era del lavoro (forse) o dei consumi (forse). Oggi c’è bisogno di competenze e la modulazione dei percorsi degli studenti già molto dice su questo argomento. Eppure non c’è alcun interesse a ragionare attorno a sostanziali modifiche di tutto il sistema di valutazione (degli studenti, delle scuole, dei dirigenti, dei docenti).

Prima che si scateni il dibattito su provvedimenti che toccheranno soprattutto il personale docente mi è sembrato necessario ricordare flebilmente che la scuola italiana sta dentro una società della conoscenza di cui si ostina ad ignorare i contorni, quasi che il mondo non stesse cambiando giorno dopo giorno. Le possibilità ci sarebbero e sarebbero molte, rese più tangibili dall’autonomia scolastica, ma queste possibilità vengono bloccate dal rapporto tra la società della conoscenza che si ostina a non volersi far racchiudere nella scuola italiana e l’idea di scuola come luogo dei diritti contrapposti: quelli dei docenti in quanto lavoratori e quelli degli studenti. Solo la flessibilità didattica, educativa e curricolare può portare la scuola dentro quella società della conoscenza che guida la globalizzazione. Le rigidità del passato invocate come diritti costituzionali e dei lavoratori tengono soltanto la scuola lontana dal mondo che cambia, rendendo i nostri studenti poco competitivi nel mercato del lavoro, soprattutto italiano. A nessuno è mai venuto in mente un rapporto diretto tra disoccupazione post laurea e post diploma e obsolescenza della scuola italiana. Ma se magari a qualcuno viene in mente capisce dove bisognerebbe andare a parare.

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