Federalismo fiscale: un decreto fuori tempo massimo?

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Federalismo fiscale: un decreto fuori tempo massimo?

di Gian Carlo Sacchi

 

Un decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri varato il 27 marzo 2015 ha dato applicazione al D. Leg.vo n. 216 del 26 novembre 2010 in materia di determinazione dei costi e fabbisogni standard di Comuni, Città Metropolitane, Province. Tale decreto era a sua volta attuativo della L. n. 42 del 2009 che introduceva il così detto “federalismo fiscale”.

Si tratta di un’opera monumentale (due volumi di Gazzetta Ufficiale) che indica le note metodologiche per la definizione dei fabbisogni standard, dai quali nasceranno i costi e le relative coperture per i comuni delle regioni a statuto ordinario su diverse materie tra le quali risaltano per l’interesse di questo contributo l’istruzione pubblica e gli asili nido.

Un’approfondita indagine sulla gran parte dei comuni italiani che a partire dai loro conti consuntivi hanno compilato questionari con indicatori standard, di carattere interno, sulla gestione dei servizi, ed esterno sulle situazioni territoriali, attraverso i quali è stato possibile individuare coefficienti considerati appunto di fabbisogno. Un lavoro che può servire per superare, com’era nelle intenzioni dei provvedimenti di allora, il criterio della “spesa storica” generale per arrivare ad individuare le esigenze per ogni singola realtà locale.

Rispetto ai compiti assegnati dal citato decreto 216, l’elaborazione ha riguardato i Comuni, per le città metropolitane di standard c’è ancora molto poco e le Province non ci saranno più, ciò a significare i cambiamenti che in cinque anni si sono verificati nello scenario istituzionale e che ancora sono in atto.

Intanto che i Comuni compilavano i questionari il federalismo scemava ed oggi viene da chiedersi perché questo provvedimento è passato quasi inosservato e benchè possa essere sempre utile in termini di efficienza andare oltre la spesa storica ci si potrebbe trovare ad utilizzarlo proprio nel modo opposto a quello ipotizzato all’origine, cioè a livello centrale piuttosto che decentrato.

Con la predetta legge 42 si delegava il governo a realizzare il federalismo fiscale, cioè una mescolanza di tributi riscossi dallo Stato, ma anche dalle Regioni e dai Comuni ed in passato anche dalle Province, che andavano a sostenere servizi indicati dal citato decreto 216 come “funzioni fondamentali”, in una visione di integrazione per cercare così di rendere non solo efficiente i servizi stessi, ma anche di favorire investimenti per l’eccellenza in un contesto di spesa pubblica virtuosa. Tra queste funzioni ci sono l’istruzione pubblica e gli asili nido. Mentre è stata un’importante ammissione togliere i nidi dall’ambito dei servizi a “domanda individuale”, a totale carico dei comuni e degli utenti, per il sistema dell’istruzione ci si è limitati alle attività di supporto: assistenza, refezione, integrazione disabili, edilizia scolastica.

Su quest’ultimo punto si è giocata e si sta ancora giocando una partita decisiva per il governo del sistema e per il mutamento del ruolo istituzionale e sociale delle scuole. L’art. 117 della Costituzione riformato nel 2001 prevedeva un compito per lo Stato legato alle norme generali, ai principi fondamentali ed ai livelli essenziali delle prestazioni (LEP), e competenze “concorrenti” tra Stato e Regioni sull’intero sistema. Va da sé che l’applicazione di tale provvedimento avrebbe dovuto dar vita ad un “sistema di autonomie” territoriali (reti, ambiti locali ottimali, ecc.), nel quale fosse riconosciuta anche l’autonomia scolastica, in un’ottica di decentramento amministrativo: un impianto già introdotto dalle norme applicative delle leggi Bassanini di riforma della pubblica amministrazione. Fabbisogni e costi standard, assieme ai LEP, avrebbero dovuto funzionare da regolatori del rapporto tra riscossioni e investimenti, con fondi perequativi dello stato nei confronti di quegli enti locali che non avevano abbastanza “capacità fiscale”, “indicatori rispetto ai quali comparare e valutare l’azione pubblica”.

La riforma dell’art. 117 attualmente in cantiere sembra però invertire la tendenza riportando il tutto alle competenze statali . Infatti nelle dichiarazioni tecnico-normative riportate nel ddl Giannini si evidenzia la compatibilità con le competenze delle regioni, dopo aver sottratto tutto quanto era concorrente con lo stato, non solo, ma nelle deleghe al governo si rientra anche in quanto era loro attribuito in via esclusiva, come ad esempio una si prevede una legge nazionale per l’istruzione e formazione professionale.

Tutte le materie indicate nel decreto sulla buona scuola vengono attribuite allo stato intendendole come norme generali, principi fondamentali e livelli essenziali delle prestazioni per i diritti civili e sociali e quindi tali da non intralciare la predetta concorrenza con le regioni svuotate ormai completamente di capacità decisionali, e, per conseguenza, “non si determineranno nuovi ed onerosi compiti a carico degli enti locali”.

Come si vede la riorganizzazione dei poteri fatta discendere da una nuova versione del predetto art. 117 vede la scuola rientrare nell’orbita del presidio territoriale dello Stato, con un’autonomia, com’è ora “funzionale”. Un passo avanti verso l’autodeterminazione sarebbe avvenuto qualora si fossero portate le autonomie scolastiche a far parte delle autonomie locali e pertanto legate ad una fiscalità multilivello, per la quale era indispensabile l’analisi dei fabbisogni e dei costi standard.

In quest’ottica c’è da chiedersi a cosa potrà servire al riguardo il Senato delle autonomie se le regioni verranno in tal modo svuotate della capacità legislativa e saranno ridotte ad area vasta a prender in carico le deleghe una volta attribuite alle province.

Per il finanziamento del servizio scolastico anziché far ricorso alla sussidiarietà verticale: dal comune alla regione allo stato attraverso diverse fiscalità e corrispondenti politiche di investimento, si preferisce quella orizzontale, cioè ricorrere ai privati, tramite lo school bonus e il crowdfunding o defiscalizzare chi accede alle scuole private, in un sistema di parità ancora molto incerto e mal regolamentato.

Senza nulla togliere al valore di questo procedimento che assicura una maggiore trasparenza ed equità nella redistribuzione delle risorse pubbliche, non si può non evidenziare a che cosa sarebbe dovuto servire, in base al quadro politico di quegli anni ed invece a che cosa servirà in base ad una nuova inversione di tendenza che sta intervenendo ai nostri giorni.

Il decreto comprende le competenze comunali integrative di supporto al servizio scolastico, ma che non attengono alla funzione educativa vera e propria. Il dibattito attualmente in atto sulla riforma costituzionale fa ritenere che le cose continueranno in questa ottica, mentre una fuga in avanti si era ipotizzata agli inizi del duemila con la precedente revisione del titolo quinto, suffragato peraltro da un referendum popolare, che prevedeva la definizione dei LEP attinenti ai diritti delle persone e allo sviluppo sociale ed economico del Paese che avrebbero fatto da sfondo integratore ad una reale autonomia delle scuole e “l’ulteriore autonomia “delle regioni in tale settore. Si sarebbe così arrivati ad “un’unità scolastica locale”, con una serie di indicatori di valutazione dei servizi e della continua ridefinizione del fabbisogno, per far seguito alla necessità di miglioramento continuo. Il discorso sui LEP inoltre impedisce di prendere la strada dei soli risultati, cercando risorse su base per così dire meritocratica e inducendo una competizione nel Paese o addirittura su scala internazionale: qui c’è il problema delle disuguaglianze insito in tutti i processi di autonomia. I LEP sono infatti la sentinella del giusto rapporto che si instaura con i fabbisogni soprattutto in periodi di crisi economica, dove questi ultimi cercano di conculcare i diritti. Ed è in questa situazione che si manifesta la diffidenza tra lo stato, le regioni e gli altri enti territoriali in termini di decentramento amministrativo.

Il dato sull’impegno dei comuni per le scuole private è molto interessante in quanto di solito è assente nel dibattito che si ferma sul livello nazionale anche per quanto riguarda l’applicazione dell’art. 33 della Costituzione. Incrocia le problematiche relative a recenti prese di posizione sul calcolo di un costo standard universale per lo studente italiano che porta con sé una quota capitaria di finanziamento pubblico che viene incassata dalla scuola frequentata. Senza contare poi, per essere completi, le tassazioni locali sugli immobili e sui servizi così detti indivisibili.

Sono stati presi in considerazione i modelli organizzativi praticati dall’EL, le modalità di svolgimento del servizio e la collocazione territoriale del comune, visto anche nelle sue forme associate. Il decreto individua così il fabbisogno standard per tutti i comuni.

Una particolare attenzione viene riservata agli asili nido, che attualmente sono a gestione diretta dei comuni o in convenzione con i privati fino ad arrivare ad un costo unitario del servizio. Ma anche per loro è in atto un processo di statalizzazione, che se da un lato li si vuole far uscire dalla domanda individuale e diventare a tutti gli effetti servizi educativi, dall’altro vedranno i comuni titolari di una concessione ed i privati rientreranno nel sistema paritario regolamentato dallo Stato, come accade per la scuola per l’infanzia. Nella buona scuola è infatti prevista una delega al governo per la riorganizzazione in tal senso di tutto il segmento 0-6 anni.

E’ così determinato il livello ottimale del servizio pubblico e il suo costo di fornitura unitaria.

La filosofia di tutta quanta l’impostazione è condensata in un frase che merita di essere riportata a conclusione: “si consideri uno stato suddiviso in vari giurisdizioni il cui governo locale, eletto democraticamente dai cittadini residenti, abbia la funzione di amministrare la fornitura dei servizi pubblici locali”. La domanda sorge spontanea: in questi tempi di revisionismo questo decreto non è fuori tempo massimo?