Governo Renzi e laboratori a scuola: bastano due scatole

da La Stampa

Governo Renzi e laboratori a scuola: bastano due scatole

piero bianucci

La scuola italiana ha pochi laboratori. Ancora in gran parte ispirata alla filosofia idealistica di Giovanni Gentile e Benedetto Croce, forse la scuola italiana non sa neppure che gli studenti hanno le mani. Tanto meno sa che le mani sono un prolungamento del cervello, come dimostra la grande area che i polpastrelli e il pollice opponibile occupano nella corteccia cerebrale. Con l’ultima riforma della scuola, quella del governo Renzi, la parola laboratorio è ricomparsa ma nulla è cambiato nelle attrezzature a disposizione di insegnanti e allievi, né qualcosa potrà cambiare nel breve periodo. Stando così le cose, è bene sbarazzarsi del luogo comune secondo cui i laboratori costano e richiedono una gestione tecnica onerosa. Non sempre è così. Non sempre, almeno, se a surrogare i soldi che non ci sono provvedono intelligenza e creatività.

Spesso il laboratorio non è negli strumenti dell’aula di fisica o di chimica. Il laboratorio è intorno a noi nelle cose di tutti i giorni: basta saperlo vedere e farlo vivere animandolo con buone idee. Cosa che è particolarmente vera per la scuola primaria, dove la curiosità e lo stupore dei piccoli allievi davanti ai fenomeni naturali sono un patrimonio incommensurabilmente più prezioso di qualsiasi strumento scientifico. Il cielo, con le nuvole, la Luna, il Sole e le sue ombre sempre diverse a seconda delle ore e delle stagioni, è, per esempio, un magnifico laboratorio. Ma lo sono anche un giardino, un prato, una cucina, una normalissima aula scolastica.

Lo sa bene Beniamino Danese, che da anni, aiutato dal suo fratello gemello Emanuele, lavora con classi dalla prima alla quinta elementare e ora ha appena pubblicato “Laboratorio in scatola – esperimenti di scienze per la scuola primaria” (Edizioni Reinventore, 95 pagine, 20 euro), volume che a sua volta rimanda ai video disponibili nel sito www.reinventore.it e a due “Scatolab”, scatole a basso costo che contengono quasi tutto il materiale necessario per fare in classe una settantina di esperimenti, mentre ciò che manca si può trovare facilmente in qualsiasi casa. Niente di improvvisato, però: Beniamino Danese ha un dottorato di ricerca in didattica della fisica conseguito lavorando sotto la guida di Stefano Oss, professore all’Università di Trento.

Con mezzi semplicissimi – candele, calamite, aceto, bicarbonato, tappi di sughero, viti, qualche goccia di olio, siringhe, una pompa da bicicletta, un uovo… – è possibile scoprire che le piante prendono dall’aria il carbonio di cui sono fatte e necessario ad ogni forma vivente; come e perché certi corpi galleggiano e altri affondano; perché l’ago della bussola si orienta verso il Nord; per quale meccanismo fisiologico sentiamo il dolce, l’amaro, il salato; come si formano i cristalli; in che modo si può costruire una pila di Volta con otto monetine da 5 centesimi di euro e accendere un LED… e tante altre cose.

Nell’esecuzione di un esperimento c’è un aspetto teatrale, come ben sapeva Michael Faraday (1791-1867), pioniere degli studi sull’elettricità e protagonista di veri e propri spettacoli scientifici organizzati sia per le scuole sia per il grande pubblico. Se poi gli studenti eseguono l’esperimento in prima persona, diventano essi stessi attori, cosa che li coinvolge e diverte, fissando più facilmente le nozioni apprese.

Tutto funziona ancora meglio se l’esperimento è incastonato in un racconto, che sarà naturalmente la storia degli scienziati che per primi lo hanno eseguito. L’uomo vive di racconti, la comunicazione umana in ogni sua forma, è soprattutto racconto, e se invece di raccontare fiabe o storie di improbabili bambini maghetti con gli occhiali tondi racconteremo storie vere, sarà tanto di guadagnato. Un ago che si muove rispondendo a forze invisibili, un uovo che sale e scende in un barattolo pieno di acqua più o meno salata, una goccia d’olio che si raccoglie in una sfera isolandosi dall’acqua in cui è immersa, appaiono proprio come magie, ma se trasformiamo le magie in esperimenti succederà qualcosa di molto importante: lo stupore davanti alla “magia” della natura diventerà un atteggiamento indagatore razionale, si scoprirà il metodo scientifico, e che il metodo scientifico è un “linguaggio” universale che mette d’accordo uomini di ogni colore, fede religiosa, nazionalità, idea politica.

Sul “fare” per “capire” c’è una letteratura intera. Dopo Faraday e altri scienziati ottocenteschi, Jean Perrin, premio Nobel per la chimica, riprese questo concetto in modo sistematico fondando a Parigi il Palais de la Découverte (1937), seguito da Frank Oppenheimer con l’Exploratorium di San Francisco (foto) e tanti altri.

Ora le neuroscienze ci insegnano che i racconti vanno a finire nella “memoria episodica” e le esperienze manuali nella “memoria operativa” (quella, per esempio, che ci permette di andare in bicicletta). La memoria operativa è la più duratura, persino nei malati di Alzheimer è l’ultima a svanire. Se mettiamo insieme il fare con il raccontare, ciò che impariamo rimarrà fissato nel modo più stabile e senza fatica. Tutto ciò non richiede laboratori sofisticati. Bastano due Scatolab, un po’ di curiosità e un po’ di intelligente fantasia.