La Cassazione precisa: «Per l’esenzione Ici la scuola deve provare il no profit»

da Il Sole 24 Ore

La Cassazione precisa: «Per l’esenzione Ici la scuola deve provare il no profit»

di Gianni Trovati

Tocca al contribuente che chiede l’esenzione dall’Imu il compito di «provare in concreto» che l’immobile non sia occupato da attività «svolte con modalità commerciali», quindi nel caso delle due scuole di Livorno la Cassazione ha annullato con rinvio la sentenza perché il giudice d’appello «non aveva congruamente motivato» e quindi sarà lui a dover rivalutare le sentenze.

Il caso Ici-Imu sulle scuole paritarie ha scaldato il dibattito fino a spingere lo stesso presidente della Suprema corte, Giorgio Santacroce, a tornare sulle due sentenze con una nota per respingere le «polemiche in larga parte fuor d’opera» fiorite sull’idea di una Cassazione che «obbligherebbe» le scuole al pagamento dell’Ici. «Per evitare qualsiasi strumentalizzazione» Santacroce torna sui punti caldi delle due pronunce (descritte sul Sole 24 Ore del 15 luglio) ricordando che le regole sull’imposta nel “non profit” sono state oggetto «di un’indagine comunitaria per sospetti aiuti di Stato agli enti della Chiesa che sarebbero potuti derivare da un’interpretazione dell’esenzione non rigorosa e in possibile contraddizione con i principi della concorrenza».

Il punto è proprio questo, e basta rileggere le sentenze 14225 e 14226/2015 per capire che l’analisi dei giudici, al di là dello specifico caso livornese, è andata dritta al problema del rapporto con i criteri Ue, che resta un nervo scoperto anche dopo la complicata riscrittura delle regole intervenuta nel 2012 proprio per evitare la procedura d’infrazione.

Nelle polemiche di questi giorni in effetti si è sentito di tutto, compresa l’esigenza di chiarire aspetti in realtà già affrontati dalle norme come la distinzione fra le scuole paritarie e quelle che tali non sono, ma il punto chiave è ancora una volta legato alla definizione di attività «commerciale», quindi soggetta all’Ici ieri e all’Imu oggi, e «non commerciale», e di conseguenza esente.

Questa distinzione, spiega la sentenza 14225/2015 richiamando orientamenti precedenti (per esempio quello scritto dalla stessa Cassazione nella sentenza 5485/2008), non può essere desunta «a priori», sulla base di documenti «che attestano il tipo di attività cui l’immobile è destinato», ma va verificata «in concreto», perché anche le attività richiamate nell’elenco delle esenzioni (fra cui rientra l’istruzione; articolo 7, comma 1, lettera i del Dlgs 504/1992) fanno scattare l’obbligo di pagamento quando sono svolte «con modalità commerciali». E «il corrispettivo», cioè la retta nel caso della scuola, secondo la sentenza «è un fatto rivelatore dell’esercizio dell’attività con modalità commerciali». In questo quadro, non ha rilievo il fatto che il bilancio della scuola sia in perdita, perché il «carattere imprenditoriale» va escluso quando il servizio «sia svolto in modo del tutto gratuito».

Passaggi come questi possono mettere in crisi anche l’argine anti-Imu faticosamente costruito dal Governo nel 2012, e contenuto in un regolamento (il decreto 200/2012 dell’Economia) e non nella legge primaria che proprio per contrastare le obiezioni comunitarie si limita a prevedere l’esenzione per gli immobili in cui le attività sono svolte «con modalità non commerciali».

Fin qui l’accordo fra principi Ue, legge italiana e Cassazione è totale, ma i problemi nascono quando si arriva al decreto attuativo; il regolamento dell’Economia stabilisce infatti l’Imu si evita fino a quando la retta media non supera il «costo medio per studente» pubblicato dal Miur (5.739,17 euro negli asili, 6.914,17 alle superiori), e fissa quindi il confine in un punto radicalmente diverso da quello che distingue servizio gratuito e attività accompagnata da un «corrispettivo». Un confine, quest’ultimo, che può mettere a rischio il meccanismo delle esenzioni anche in altri settori, per esempio quello della sanità.