Ingrao non c’è più

Ingrao non c’è più: un compagno come pochi

di Maurizio Tiriticco

 

Pietro Ingrao è stato mio direttore a l’Unità, dove nel 1953/54 fui redattore agli esteri con Alberto Jacoviello e Ennio Polito. C’erano anche Maurizio Ferrara, padre di Giuliano, Alfredo Reichlin, Tommaso Chiaretti et al: una bella squadra! Dalle quattro del pomeriggio – riunione di redazione per impostare il numero – fino alla tarda serata, dopo avere scritto i pezzi, con le rumorose macchine da scrivere, rafforzati dai ritagli delle telescriventi, sempre attesi e sempre benvenuti. E, quando si sentiva il loro ticchettio, si correva! Che ci dice l’Ansa? Che dice la Reuters? Che cosa è successo nel mondo? Notizie grosse, importanti, da richiedere riflessione e scrittura attenta, eventualmente da ridiscutere in redazione! E poi notizie meno importanti, quelle brevi brevi, “a una colonna”, che spesso finivano con il riempire i “buchi” della pagina esteri.

E, a fine giornata… scendi giù in tipografia dove si stampa il giornale. E lì a discutere faccia a faccia con i tipografi e i linotipisti, sempre poco disponibili… “qui devi tagliare”… “questo titolo non c’entra” e poi… le rotative… e io a sistemare articoli, occhielli, titoli e titoletti. Quanto piombo! Quanto rumore! Quanto vociare: redattori e compositori hanno sempre a che dire! Questo pezzo è troppo lungo! Questo troppo corto. E poi i caratteri dei titoli: altre discussioni! E aggiungi poi un grande odore di acetato e tante bottiglie di latte. E tutto in grande fretta! Il giornale deve chiudersi, deve partire!

L’Unità, direzione, redazione e stampa allora erano situate, a Roma ovviamente, in Via Nazionale, un po’ più su della libreria di Tombolini. Un edificio grande a più piani. E tornare a casa alle tre o alle quattro di notte non era sempre facile, con i mezzi notturni dell’Atac, anche allora sempre scarsi. Eravamo già nel cuore del boom economico, ma le prime Seicento sarebbero apparse solo nel ’55. Pertanto, piedi, biciclette, vespe e lambrette avevano un bel da fare!

Due gravi lutti in quegli anni, Stalin, nel 1953, e De Gasperi nel 1954. E Ingrao sempre lì con noi tutti: una presenza soft, sempre discreta, poche parole, molti incoraggiamenti e molto molto lavoro. Ingrao, antifascista della prima ora: eppure era stato iscritto ai GUF, gruppi universitari fascisti, come me all’ONB, opera nazionale balilla e poi alla GIL, gioventù italiana del littorio. E quante chiacchiere cattive allora da parte dei missini su questa iscrizione: Ingrao, un voltagabbana!!! Va detto, invece, e con forza, che l’iscrizione alle organizzazioni fasciste, giovanili e non, era assolutamente obbligatoria! Per tutti, dai figli della lupa alla tarda età, per la quale c’era il dopolavoro, spesso nella casa del fascio. E non era un caso che il PNF, partito nazionale fascista, da tutti era letto diversamente: per necessità famigliari! I GUF avevano le loro riviste, e su queste si discuteva, anche se con tutte le cautele del caso. E non è un caso che, secondo Giorgio Napolitano, il Guf “era in effetti un vero e proprio vivaio di energie intellettuali antifasciste, mascherato e fino a un certo punto tollerato” (Edmondo Berselli. Lord Giorgio d’Italia , L’Espresso del 18 maggio 2006). Altra cosa era, invece, la “Critica fascista”, diretta da Giuseppe Bottai! Per non dire de “La difesa della razza”, rivista fascistissima, sputatamente antiebraica, diretta da Telesio Interlenghi.

Dopo l’esperienza all’Unità non ho più avuto occasione di interagire con Ingrao, ma ne sono stato sempre un suo attento osservatore, se non un fautore. E, quando nel Partito il centralismo democratico, di lontana matrice staliniana (com’è noto, il Partito comunista d’Italia era nato nel 1921 per opera di Amedeo Bordiga, Antonio Gramsci e Palmiro Togliatti, come sezione italiana della Terza internazionale comunista), cominciò a sfaldarsi (in seguito ai fatti di Ungheria del ’56, all’invasione della Cecoslovacchia nel ’68, all’improvvisa e inattesa morte di Togliatti a Yalta sempre nel ‘68) e alla nascente “destra” di Giorgio Amendola si oppose la “sinistra” di Pietro Ingrao, io fui con e per quest’ultimo. Ingrao riteneva che la sirena della socialdemocrazia potesse allontanare il partito dalla sua naturale e storica vocazione di promuovere un cambiamento radicale nell’assetto della società. Avvertiva – come del resto tanti di noi – che la crisi delle Terza internazionale comunista potesse spingere tutti i partiti comunisti sulle sponde di quella socialdemocrazia che di fatto da tempo aveva rinunciato a una lotta radicale contro l’organizzazione capitalistica della società e lo stesso Stato borghese. La “via italiana al socialismo” non era l’obiettivo della socialdemocrazia.

Sono stato un ingraiano – come si soleva dire – perché la visione politica di Ingrao era di lungo respiro. Ma poi le vicende del ’68 hanno suscitato e prodotto quel Sessantotto che ha spinto tutti noi verso posizioni “altre”: innescate da quella palingenesi che nel giro del breve tempo avrebbe indicato nuove prospettive di lotta e orizzonti assolutamente diversi e nuovi. E poi nuovi e sempre più intensi rivolgimenti! La caduta del muro di Berlino ha aperto brecce che vanno ben oltre le polemiche tra ingraiani e amendolaiani. E fu ed è così che oggi la destra amendoliana e la sinistra ingraiana sono più oggetto di studio che non prospettive reali di cambiamento! Ruit hora o, se vogliamo, tout passe, tout casse, tout lasse!

Addio Pietro! Sei stato un grande! Ci hai insegnato molto! E vivrai sempre nei nostri cuori! E nelle nostre teste!