R. Sennett, La cultura del nuovo capitalismo

Quella bestemmia del “Capitalismo Sociale” di Sennet
– ovvero i paradigmi culturali del Job-Act –

di Luigi Manfrecola

 

La cultura del nuovo capitalismoIl termine di “bestemmia”non l’ho usato a caso, malgrado Sennet non se ne stia rendendo conto. Di CAPITALISMO SOCIALE parla infatti il celebre sociologo e scrittore statunitense, pluripremiato docente universitario e direttore di numerose Commissioni di studio Unesco . Ed è il caso di ribadire che stiamo parlando di uno dei massimi ricercatori esperti dei temi della socialità e del lavoro, un’Autorità del settore che a vario titolo ha esplorato il recente dogma del “LAVORO FLESSIBILE”, predicato dai nostri giovani politici tuttologi – anche dai rampolli della rampante pseudosinistra – come una   nuova frontiera obbligata e necessitata nella società globalizzata, tecnologizzata e “mutante”.

I mass-media e la stampa internazionale e nostrana vanno pappagallescamente predicando da decenni il Nuovo Verbo, travestendolo e contrabbandandolo come stimolante modalità esistenziale, come desiderabile stile di vita capace di smantellare il “mito” pigro e declinante del cosiddetto “posto fisso”. A ciò saremmo comunque indotti dall’impellente necessità imposta dalla mobilità dei ruoli sociali e dall’incalzante DELOCALIZZAZIONE di industrie, di fabbriche e perfino di “servizi”(Sennet riporta l’esempio dei call-canter) verso il Sud del mondo, ormai pronto ad offrire lavoro e manodopera a più basso costo di quanto non sia possibile nell’Occidente di più antico e consolidato benessere; un Occidente attestatosi sui parametri di una “società del welfare” che finisce fortemente col limitare i profitti del Capitale. In più, osserva Sennet, la fuga non è più condizionata o limitata dalla sola disponibilità di manodopera a basso costo poiché l’India , la Cina e le altre potenze emergenti possono ormai offrire operatori laureati ed altamente qualificati a prezzo concorrenziale. Certamente la sua diagnosi è esatta ma si lega, come è evidente, all’attuale modello di sviluppo legato alla produttività ed al profitto inteso a beneficio di pochi . Ciò nell’ottica di un Capitalismo senza più freni né confini, né regole se non quelle arbitrarie del Mercato e della massimizzazione dei guadagni di ristrettissime oligarchie e che si trova liberato e sganciato da ogni antico asservimento alla Politica: una politica impotente e teatrale “che fa del cittadino uno spettatore-consumatore indotto ad assumere atteggiamenti passivi e rinunciatari” (pag.119 in “La Cultura del nuovo capitalismo”). Fatto sta che questo modello di sviluppo non è il solo possibile o auspicabile e lo stesso Sennet ha ben chiare le idee quando scrive che “L’ECONOMIA da sola non risolve tutto e NON E’ UN DESTINO”.

Su questa consapevolezza, che assolutamente condividiamo, il sociologo tuttavia si spinge ad interrogarsi sulle alternative possibili e si chiede quali antidoti adottare, nella situazione data, per ricondurre anche il lavoro flessibile (che egli stesso mostra di criticare) nell’alveo di una eventuale e sempre più improbabile società del WELFARE.

Ed è a questo livello che segnaliamo il nostro dissenso e giudichiamo le sue intelligenti osservazioni, che esamineremo di qui a poco, assolutamente insufficienti ad una sia pure parziale modifica. A Sennet, uomo incardinato nel Sistema, sfugge (e non potrebbe essere altrimenti) l’inconciliabilità dei termini per cui non può esistere quel CAPITALISMO SOCIALE di cui discute nell’ultimo capitolo dell’opera già citata.

Il sistema capitalistico tende, per sua stessa natura, a privilegiare l’accumulo delle risorse economiche a spese del lavoro, sottopagandolo il più possibile. Negli ultimi decenni , peraltro, i capitali di cui discutiamo non hanno più alimentato gli investimenti produttivi ed il vecchio capitalismo industriale s’è trasformato in capitalismo finanziario e parassitario che ha ridotto le opportunità occupazionali. E, secondo Sennet, vale a poco aver puntato su una “economia fondata sulle qualifiche” al punto che « il Sistema scolastico produce ormai un gran numero di giovani istruiti che non trovano impiego nei settori per i quali erano stati formati…Nella “Società del sapere”, in effetti, molti disoccupati hanno una buona formazione scolastica e professionale , eppure il lavoro che cercano è emigrato in altre parti del mondo dove la manodopera qualificata è meno cara». Si profila dunque lo SPETTRO DELLA INUTILITA’ (Cap.II- Op. cit.) per molti giovani, che trae origine da una triplice minaccia moderna: l’offerta mondiale di forza lavoro; l’automazione e il prolungamento delle prospettive di vita.

1- L’offerta mondiale di forza-lavoro si traduce nella corsa economica al salario più basso e genera , come detto, una forte delocalizzazione. Ciò induce un fondato timore nei nostri Paesi del più opulento Nord del mondo :«Qui lo spettro dell’inutilità si collega alla paura dello straniero …ed il timore ha un certo fondamento nella realtà. Il concetto di “globalizzazione” designa, tra l’altro, la sensazione che le fonti dell’energia umana si stiano spostando e che perciò chi si trova nel mondo già sviluppato possa essere lasciato fuori…»

2- L’automazione costituisce la seconda minaccia che non insidia soltanto il lavoro di fabbrica ma si spinge a cambiare anche il settore dei servizi con computer e microprocessori; il che vanifica le ottimistiche previsioni di Touraine e di Bell che leggevano come positiva l’introduzione di macchine nel lavoro, preconizzando una “società post-industriale” che avrebbe visto la positiva ridistribuzione del lavoro col passaggio dal campo dalle mansioni manuali al campo dell’amministrazione e dei servizi.

3- L’allungamento delle vite, con l’innalzamento dell’età, rappresenta un terzo problema che lo “Stato Sociale” non mostra di saper affrontare. Lo sviluppo dei sistemi pensionistici e sanitari pubblici del ventesimo secolo può esser inteso come una redistribuzione della ricchezza che sposta risorse dalla popolazione più giovane a quella più anziana. Almeno, così è stato finora, ma…Ma , osserva l’Autore, nell’attuale situazione l’ethos del nuovo capitalismo svolge un ruolo particolare: riduce la legittimazione dei bisognosi ed i lavoratori giovani mal sopportano di dover pagare per i più anziani. Gli orientamenti culturali oggi prevalenti stanno dettando nuove regole anche nel settore pubblico puntando sul paradigma della responsabilità individuale . Così, i novelli “riformatori dello Stato sociale” si mostrano convinti del fatto che «ognuno deve essere il consulente sanitario di se stesso e il gestore dei propri fondi pensionistici». Questa logica del disimpegno istituzionale trova ampie sponde nel mondo politico attuale, al punto che , «come affermava Hannah Arendt,il politico di professione, il tecnico del potere, è un “nemico del cittadino” poiché non si dovrebbe applicare ovunque il criterio di praticità e di utilità, in quanto questo criterio si concentra solo su ciò che è, anziché su ciò che dovrebbe essere».

Non possiamo non concordare con queste convinzioni che, detto alla nostra maniera, spiegano l’acquiescenza d’una Politica, asservita all’Economia, alla presente situazione storica , senza spingersi ad immaginare un mondo diverso e migliore che pure è possibile…

In effetti, secondo Sennet, il primo Capitalismo Sociale era stato reso possibile dalla forza militaresca di Istituzioni piramidali e di burocrazie weberiane che legavano insieme Potere ed Autorità. Ciò aveva consentito l’affermarsi di un’organizzazione burocratizzata e pianificatrice capace di regolare gli assetti di vita e l’economia collettiva. I Sindacati si erano così resi interpreti di una tutela allora ritenuta doverosa dei diritti di cittadini e dei lavoratori in una cornice temporale stabile che dava continuità e significato ai racconti di vita individuale.

A partire dagli anni ’70 (Bretton Woods) e per tutti gli anni ’80 e ’90 l’economia mondiale però ha accelerato ed il Capitalismo, “svincolatosi” da ogni sorta di lacciuolo, ha affermato la sua provocatoria cultura di liberazione da ogni vincolo, orientando perfino la coscienza collettiva ad apprezzare le presunte “libertà” guadagnate in senso individualistico e facendo del cittadino un semplice consumatore passivo, non più protagonista di scelte politiche. La Politica stessa si vede oggi ridimensionata nelle sue pretese e possibilità reali di governo in un mondo globalizzato ed il Potere (che è sempre più esercitato dal decisore economico) si trova tragicamente separato dall’Autorità , svuotando la forza delle stesse Istituzioni. La precarietà che dunque viviamo e che ci viene truffaldinamente contrabbandata come libertà di autodeterminazione è figlia di questa storia e di quella che, a parere nostro, si configura come una vera e propria truffa socio-culturale.

Ebbene, data per buona l’analisi di Sennet, quali sono le sue proposte?

Si tratta di tre suggerimenti illuminanti che, a nostro giudizio, non possono valere da soli a mutare l’architettura di un Sistema iniquo da smantellare.

Tre proposte dunque che lo studioso sintetizza nell’esigenza di un TRIPLICE RECUPERO : – della continuità biografica; – del senso individuale dell’utilità; – dell’ abilità artigianale.

1-Al primo livello si tratta di assicurare la tranquillità personale di poter restare produttivi e tutelati per tutta una vita, anche se con modalità flessibili. Sennet cita la trasformazione subita dai Sindacati Americani, trasformatisi in “Istituzioni parallele” che cercano di garantire ai lavoratori la continuità e la durevolezza che mancano nelle organizzazioni flessibili, orientate sul lavoro a breve termine. In tal senso essi funzionano ormai come agenzie di impiego, uffici di collocamento che si fanno carico anche della previdenza e dell’assistenza sanitaria per fornire quell’esperienza comunitaria che manca sul posto di lavoro. In tal senso i Sindacati non privilegiano più ,come avveniva nel vecchio capitalismo sociale, il servizio e le anzianità di servizio. Essi tendono oggi a riportare ad un continuum biografico chi non ha ancora i capelli bianchi. Ed è il caso dell’esperienza olandese del JOB SHARING che ha progettato un sistema nel quale il lavoro disponibile viene ripartito in due o tre impieghi a tempo parziale: il che consente di potere svolgere più lavori part-time,recuperando tempo per le esigenze della vita familiare e comunque occupandosi a lungo termine senza grosse interruzioni ed evitando la paura del cambiamento continuo, tipica dei contratti a breve termine.

2- Per il secondo aspetto si tratta di assicurare a ciascuno di poter conservare il senso della propria UTILITÀ SOCIALE, sull’assunto che ci si sente utili solo quando si fa qualcosa di utile per gli altri. In tal senso va rivisto anche il consenso fin qui accordato al pur prezioso Volontariato che crea alibi e tuttavia sostituisce quello che potrebbe essere un impegno delle Istituzioni che dovrebbero preoccuparsi di gestire con mano pubblica anche le attività di cura e di assistenza rivolta alle famiglie (anche le proprie) ed agli anziani. Qui si pone dunque la questione di retribuire il lavoro familiare e domestico, principalmente per dare dignità di status ad un’attività diffusa, vitale e colpevolmente sottostimata

3- L’abilità artigianale, da valorizzare anch’essa seriamente, potrebbe fare ugualmente da contrappeso alla cultura del nuovo capitalismo, soprattutto per l’ispirazione che l’ anima e che porta l’artigiano a fare bene il proprio lavoro, con un impegno disinteressato e concentrato che trovi gratificazione in se stesso. Al contrario, oggi il “riformatore politico” si limita ad imitare la cultura delle istituzioni private alla costante ricerca del nuovo. Occorre invece «recuperare il gusto di fare bene una cosa per se stessa» e non unicamente in vista d’una remunerazione solo economica, come viene sempre più imposto dalla «moderna cultura sempre più superficiale».

Con queste CONCLUSIONI Sennet chiude la sua opera, fra le sue più celebri (La cultura del nuovo capitalismo- Ed. Il Mulino) e chiaramente mi riporta alla mente e restituisce validità alle antiche intuizioni di Maslow sulla funzione dell’autostima oltre che alle lezioni di E.Mayo sulla motivazione sociale  e sulle dinamiche di integrazione nel gruppo e di cooperazione alla base della elevata performance…

Il che non è poco in questa epoca tormentata che rinnega il valore della stabilità emotiva, della solidarietà, della socialità e che, in nome di un individualismo egoistico , forsennato ed insensato pretende di trasformare, alla luce delle metafore illuminanti di un Bauman, il fiume lento delle esistenze individuali in tante frammentate e fangose pozzanghere e piscine, con serio rischio per l’equilibrio della personalità.

E se avete avuto la pazienza di seguirmi fin qui , dovrebbe esservi chiaro il motivo per cui il Job Act Renziano mi lascia profondamente perplesso. Troppo semplicisticamente sembra voler condividere la superficiale ed avventuristica visione anglosassone d’una vita “rassegnata” all’inquietudine che per sempre abbandoni il mito del “posto fisso”.

Ma chi mai l’ha detto, chi l’ha deciso?

Siamo proprio certi di dover accettare il paradigma d’una mentalità estranea alla nostra cultura mediterranea? Siamo certi di doverci piegare al diktat del Dio Mercato che vuole porci al suo servizio? Io non lo penso e Voi nemmeno. Cerchiamo di restare almeno artefici del nostro destino !!

E come qualcuno va dicendo inascoltato da qualche tempo: un altro mondo è possibile…Anzi, secondo me , è doveroso.