Il mito seduttivo della carriera docente

IL MITO SEDUTTIVO DELLA CARRIERA DOCENTE 

di Alessandro Basso 

Lo storico percorso di reclutamento che la buona scuola ha accompagnato all’interno del sistema scolastico, ha trascinato con sè un fenomeno particolarmente strano di richiamo di interesse nei confronti della professione docente da parte di persone che avevano scelto nel corso della propria vita di fare tutt’altro.

Non è novità, anzi, è storia che l’accesso al pubblico impiego e alla scuola sia stato legato negli anni passati a una esigenza di reclutamento che a volte ha avuto il sapore di ammortizzatore sociale.

A fianco di persone con una vocazione nei confronti dell’insegnamento particolarmente spiccata, vi sono sacche di insegnanti che sono assurti a tale rango o perché avevano una laurea o perché, peggio ancora, qualcuno li ha chiamati da una graduatoria nella quale ci si inseriva d’ufficio.

Sorge l’interrogativo se esista una vera e propria “vocazione” nei confronti dell’insegnamento e se questa sia necessaria o perlomeno sufficiente per poter esercitare bene la complessa sfida della didattica e dell’educazione.

Volendo riferirsi ad una vocazione di natura innata o addirittura trascendentale, non si spiegherebbero gli sforzi e le attenzioni che abbiamo coltivato nel corso degli ultimi decenni per codificare la professione docente all’interno delle scienze non esatte e per fornire dei parametri sempre più scientifici e meno spontaneistici alla base dei processi di insegnamento- apprendimento.

Per molti l’ insegnamento non ha nulla di scientifico. Invece, è proprio il contrario, perché è un mestiere che si poggia su solide competenze di natura epistemologica che la formazione universitaria accompagna attraverso l’implementazione di altre competenze in campo socio-psico pedagogico- giuridico- relazionale.

Risulta particolarmente evidente che per essere docenti un minimo di approccio vocazionale sia necessario, accompagnato da un congruo “piacere” nello stare a contatto con le nuove generazioni, con una buona dose di pazienza ed empatia. Requisiti necessari, ma non esclusivi.

Ci sono docenti dalla preparazione universitaria spiccatissima con master, corsi di perfezionamento, specializzazioni (anche lasciando da parte il fatto che questi titoli siano stati acquisiti per migliorare la posizione nelle speriamo moribonde graduatorie) che garantiscono alla scuola un certo valore aggiunto che però non si traduce immediatamente in una chiara capacità ad entrare in contatto con gli alunni. Quest’ultimi, a volte, beneficiano maggiormente di insegnanti molto più “semplici” ma che si dimostrano competenti nella relazione e nell’empatia con i propri discenti, a qualsiasi livello di istruzione, costruendo un positivo dialogo educativo prosociale che sta alla base di qualsiasi apprendimento.

 

Durante i primi giorni di settembre si è verificato un fenomeno nuovo per la scuola ovvero l’ingresso nei ranghi di docenti in graduatoria da molti anni, privi di qualsiasi esperienza di insegnamento ( requisito non fondamentale, è bene dirlo) che hanno sentito il richiamo della sirena di un’opportunità da non perdere. Ho sentito frasi del tipo “da bambino volevo insegnare”, o “ricordo ancora la prof. di lettere e volevo provare questa esperienza”o ancora “non volevo lasciare la laurea nel cassetto per tutta la vita.

Risultato dell’esperimento? Non pienamente riuscito, ne sono la riprova i tentativi di fuga in corso d’anno e i pentimenti fuori tempo utile.

Questa esperienza dovrebbe servire al legislatore, al governo in carica o a quelli futuri per accelerare il processo di elaborazione di un codice deontologico del docente, che si accompagni alla disanima della figura del “buon docente” sia dal punto di vista professionale sia, come detto in altre occasioni, quale atto prodromico alla valutazione della qualità della docenza nonchè base di senso e significato per il rinnovo del contratto di lavoro.

Servirà, probabilmente, all’apertura di una nuova fase concorsuale, un’attenta ricognizione della tipologia delle prove, favorendo percorsi attitudinali e pratici piuttosto che l’esplicitazione di conoscenze teoriche, seppur necessarie e fondamentali.

 

Questo a beneficio delle generazioni presenti e future e soprattutto in ossequio ai principi di legalità espressi financo dalla Costituzione, per fare in modo che non siano i giudici, come sta accadendo di fatto, a scegliere chi starà in classe con i notri studenti.