È ancora possibile una sanità gratuita e per tutti?

da Vita

È ancora possibile una sanità gratuita e per tutti?

di Raffella Pannuti

Un modello di cura integrata tra pubblico e privato sociale come risposta ai bisogni assistenziali complessi legati alla fragilità e al fine vita, il contributo della presidente di Fondazione ANT

Con questo documento desidero porre alla Vostra attenzione la necessità di strutturare in modo più definito ed omogeneo i percorsi di collaborazione e di integrazione assistenziale tra pubblico e privato sociale accreditato nell’ambito delle reti di cure palliative, così da assorbire le lacune che quotidianamente mostra l’attuale modello di cura e che rischiano inevitabilmente di ampliarsi a ritmo costante nei prossimi decenni. Ciò si rende a nostro avviso inevitabile alla luce delle sfide sempre più evidenti che la sanità italiana si trova ad affrontare di fronte alle esigenze assistenziali di crescente complessità legate all’aumento delle patologie cronico-degenarative e dei pazienti che necessitano di cure palliative.
Nonostante il trend positivo in termini di erogazione delle cure palliative, mostrato dai monitoraggi ministeriali e nazionali,[1],[2] un recente studio pubblicato da The Economist[3] pone all’attenzione dei nostri amministratori quanto ancora l’Italia, a 5 anni dalla sua emanazione, sia lontana da un adeguato recepimento della Legge 38. Questo studio infatti, che si occupa di misurare la capacità degli Stati di assicurare ai malati un fine vita dignitoso grazie alle cure palliative, trova l’Italia al 21esimo posto su 80 Paesi presi in esame, in una classifica che vede primeggiare la Gran Bretagna seguita dai maggiori Stati europei posizionati nei primi 20 posti. Questo primato non deve meravigliare, come ben espresso nel testo a commento dei risultati che spiega come questi riflettano l’attenzione data nei Paesi anglosassoni alle cure palliative sia dal settore pubblico sia dal non profit in un’ottica di collaborazione che mira ad integrare questo settore assistenziale sempre più profondamente all’interno del sistema sanitario.

Anche in Italia, stando ai dati dell’Osservatorio Age.na.s. citato, il 70% delle Unità di Cure Palliative (UCP) è supportato da volontari attraverso un accordo formale e il 35,6% di tali UCP sono centri erogatori non profit accreditati. Tuttavia il terzo settore, pur essendo parte integrante delle reti di CP italiane da ormai 40 anni durante i quali ha cercato di colmare le lacune istituzionali nell’assistenza ai pazienti terminali, continua ad essere ignorato, quando non ostracizzato, da numerose pubbliche amministrazioni. I 113.866 pazienti che ancora nel 2014 sono deceduti per tumore senza essere intercettati dalle reti di CP mostrano bene le criticità che derivano da questo atteggiamento! Citando i numeri contenuti nel Rapporto al Parlamento 2015 infatti, se dei 176.119 pazienti oncologici deceduti nel 2014, 44.842 sono stati assistiti al domicilio e 17.411 in hospice, non sappiamo quale percorso di fine vita abbia seguito il 64% di questi malati. E la situazione si fa ancora più grave se si considerano i pazienti non oncologici, che i servizi di cure palliative faticano molto di più ad intercettare.

Questi dati ci mostrano chiaramente la necessità di intervenire urgentemente sui punti deboli del nostro sistema sanitario nazionale e di pensare a soluzioni adeguate per un futuro sostenibile. In questo senso, nonostante il ministero della Sanità abbia ribadito il proprio appoggio alle organizzazioni non profit, le Asl locali spesso non sono favorevoli alla collaborazione con il terzo settore, o comunque non lo considerano come un partner da coinvolgere nella programmazione sanitaria e nei processi decisionali. Il risultato di questo modello ancora troppo focalizzato sul concetto di “sanità per tutti” intesa come “sanità pubblica” e non “sanità integrata”, sono reti di cure palliative ancora insufficienti e molto disomogenee sul territorio nazionale.

L’appello che quindi facciamo ai decisori del SSN e alle amministrazioni locali, è quello di valorizzare maggiormente le risorse legate al volontariato presenti sul territorio, inserendole in modo formalizzato nei percorsi assistenziali delle reti locali di CP, secondo un modello definito a livello nazionale che possa declinarsi in modo flessibile in base alle esigenze delle diverse aree geografiche. Se infatti il compito del servizio pubblico è quello di assicurare il rispetto dei LEA a favore di tutti i pazienti, il valore aggiunto del non profit deve essere di sartorizzare gli interventi in base alle peculiarità regionali. Rispetto a questo, nel momento storico di avvio e sviluppo delle cure palliative, la maggiore libertà dai vincoli stabiliti dalla pubblica amministrazione ha permesso ai vari enti di volontariato di cogliere le esigenze espresse dalle realtà locali e di adattarsi rapidamente ad esse, favorendo l’evoluzione stessa delle reti. Ora però dobbiamo fare un passo avanti e riconoscere che, nell’attuale contesto di crescente complessità e di contrazione delle risorse, per mantenere un modello di sanità pubblica appropriato Stato e terzo settore devono unire le proprie forze in un modello di reale sussidiarietà circolare.

La soluzione auspicabile è secondo noi quella di prevedere, da parte della pubblica amministrazione, un capitolo di spesa destinato all’integrazione del profit nei servizi di cura dedicati alle cure palliative. Ovviamente tale contributo avrebbe lo scopo di sostenere solo in parte i costi assistenziali a carico delle onlus, che provvederebbero direttamente a impegnare i propri fondi per la parte restante. In questo modo non rischieremo di perdere il contributo prezioso di un non profit che complessivamente vale oltre il 4,1% del pil italiano (67 miliardi di euro) e che sta contribuendo in modo massivo all’erogazione delle cure palliative in molte parti della nazione. A tal proposito basti citare l’esperienza della Fondazione ANT, che nel solo 2014, con meno del 20% di denaro pubblico, ha assistito 3.525 pazienti in convenzione con il SSN (circa l’8% dei 44.842 pazienti oncologici seguiti al domicilio secondo il Flusso Siad) e altri 6.878 pazienti non in convenzione che quindi verosimilmente non sono stati intercettati dalle reti “ufficiali” di CP. Se si pensa che l’assistenza domiciliare ANT viene svolta, in 9 regioni, da gruppi multidisciplinari dedicati e operativi 365 giorni l’anno, h24 per una media di circa 100 giorni a paziente, risulta chiaro come l’impegno per continuare a rendere sostenibile tale servizio debba essere condiviso tra stato e privato sociale sia in termini progettuali sia per quanto riguarda gli aspetti economici.

Affinchè tale modello di integrazione sia percorribile, se da un lato lo Stato deve impegnarsi nel favorire un modello di concreta recirprocità, dall’altro lato il non profit ha bisogno di maturare aderendo a ben definiti criteri e requisiti di accreditamento e deve “prevedere la definizione di indicatori di processo e di risultato per consentire la misurazione su basi oggettive dell’impatto sociale del servizio”, così come ben definito nel disegno di legge sulla riforma del Terzo settore approvata in Senato a luglio scorso. Infatti, l’unico modo che ha il non profit per caratterizzarsi come un valido interlocutore per il SSN, è quello di definirsi come una realtà organizzata, efficiente e strutturata, in grado di garantire elevati standard e costanti meccanismi di controllo e verifica del proprio operato.

Note

[1] Rapporto al Parlamento sullo stato di attuazione della Legge 38 del 15 marzo 2010, anno 2015