A proposito di EaG 2015: un ottimismo giustificato?

A proposito di EaG 2015: un ottimismo giustificato?
Luigi vs Walter

di Maurizio Tiriticco

 

Luigi Berlinguer conduce su educationduepuntozero un’attenta disanima dei dati della ricerca “Education at a Glance” 2015 e afferma che l’analisi longitudinale dei dati rivela un trend positivo sull’istruzione in Italia.

Leggiamo tra l’altro: “È vero che, in un’analisi comparativa con i Paesi più avanzati, la nostra nazione non sempre regga il confronto e risulti indietro, talvolta con gravi insufficienze sulle quali è doveroso riflettere per operare. Tuttavia è possibile che uno sguardo frettoloso ai dati Ocse ci mostri una verità parziale. Azzardando una valutazione d’insieme, si può intanto dire che l’Italia di oggi è meglio di quella di venti anni fa, è cresciuta, ha temperato in parte l’iniquità di fondo prodotta da una scuola classista, come la nostra – che tuttavia resta ancora classista, ma un po’ meno. Va subito aggiunto, però, che – salvo per alcuni aspetti – in complesso siamo educativamente indietro rispetto alla media OCSE ed a quella Europea”.

A me sembra che dal rapporto, che riguarda ben 34 Paesi, emergano non poche criticità. In Italia, il tasso di occupazione dei giovani laureati è il più basso. Tra i giovani di 25/34 anni, nel 2014 solo il 62 per cento era occupato, 5 punti percentuali in meno rispetto ai dati del 2010, e 20 punti percentuali in meno rispetto alla media Ocse. Circa il 35 per cento dei giovani tra i 20 e i 24 anni di età non lavora, non studia, non segue corsi di formazione: si tratta della seconda percentuale più alta tra i paesi membri dell’Ocse. I nostri insegnanti, tra tutti i Paesi Ocse, sono i più anziani e ricevono gli stipendi più bassi. A fronte di tale situazione a tutt’oggi solo lo 0,9% del Pil viene investito nell’istruzione terziaria.

In tale contesto Luigi Berlinguer individua, comunque, alcuni fattori di crescita. “In Italia gli iscritti agli ultimi anni della scuola secondaria giovani (di anni dai 15 ai 19) erano ben sotto l’80%: un risultato interessante. Salvo che non regge il confronto con il dato dei giovani di 26 paesi OCSE (su 37) che si collocano fra l’80% ed il 90%, o più. E se si considerano i diplomati della scuola superiore, confrontati con il numero complessivo dei ragazzi italiani sotto i 25 anni, rispetto ad una media OCSE dell’88% abbiamo un dato del nostro paese del 78%”.

Insomma, tra le pieghe del rapporto EaG è possibile individuare elementi che non ci facciano oltre modo disperare. “Sono personalmente convinto – soggiunge Berlinguer – che l’Italia di oggi è meglio di quella di ieri, ma ciò mi porta ad una ulteriore considerazione e cioè che la scuola e l’università, nel loro complesso, nonostante taluni aspetti contraddittori, abbiano rappresentato un fattore di crescita sociale e di consolidamento culturale. Anche qui, ripeto, non si può essere assolutamente né soddisfatti né paghi, non si può abbassare la guardia dello sprone ad un allargamento consistente del fenomeno, ma il quadro oggettivo non può essere sottovalutato, anche per comprendere che cosa la scuola e l’università hanno effettivamente dato al nostro Paese”.

Confesso che non comprendo fino in fondo queste valutazioni di Berlinguer, anche perché è sotto gli occhi di tutti lo sbando attualmente esistente nelle nostre scuole. Le urgenze da affrontare sono tante e vanno affrontate in modo diffuso e con criteri unitari: Purtroppo, le impasticciate sollecitazioni della legge 107 spingeranno le nostre scuole a misurarsi tra loro, l’un contro l’altra armata! Addio a quei principi di eguaglianza e di equità, cardini costituzionali del nostro sistema di istruzione! Perché saranno sostituiti dai principi contrari: concorrenza e competizione! Altro che eguaglianza delle opportunità formative! Avremo la corsa dei DS ad accaparrarsi gli insegnanti cosiddetti “migliori”, ma non per i titoli di studio, bensì per altri mille variabili che solo il mercato libero è solito offrire. Non dico altro e non voglio ripetere cose già dette nei miei scritti precedenti. Siamo di fronte a una legge che ignora volutamente il problema numero uno del nostro sistema di istruzione: il riordino dei cicli e degli ordini di studio!

Eppure lo stesso Berlinguer alla fine del secolo corso aveva visto giusto, quando non solo innalzò l’obbligo di istruzione, ma volle riordinare l’intero sistema, anche per consentire ai nostri giovani di uscirne a 18 anni di età. E afferma anche nel testo citato: “Sono personalmente convinto che, da questo punto di vista, l’Italia di oggi è meglio di quella di ieri; ma ciò mi porta ad una ulteriore considerazione e cioè che la scuola e l’università, nel loro complesso, nonostante taluni aspetti contraddittori, abbiano rappresentato un fattore di crescita sociale e di consolidamento culturale”. Certamente “hanno rappresentato un fattore di crescita”, ma quando? Lo sbando esistente nel nostro sistema di istruzione secondario e terziario è sotto gli occhi di tutti! E’ dall’inizio del nuovo secolo che, in forza di scellerati ministri, la nostra scuola è in declino.

Ed è qui che voglio opporre all’ottimismo di Berlinguer il pessimismo accorato di Walter Tocci. Questa è la sua recentissima pubblicazione: “La scuola, le api e le formiche, come salvare l’educazione dalle ossessioni normative”. E questa è la fascetta della copertina: “La Buona scuola è una riforma mancata. E’ questa la critica più benevola, e insieme la più severa”. E in quarta di copertina: “Ecco una sorta di manuale per i riformatori dell’istituzione scolastica: formicai accoglienti per le domande dei giovani, per i migranti, per gli adulti che tornano a studiare. E favi sapienti, alimentati dalla curiosità per il nuovo mondo e dalla creatività didattica. Sono questi i mondi vitali che salvano l’educazione dalle ossessioni normative”.

E’ un libro che si può leggere tutto d’un fiato, come si suol dire, ma che contiene tante pillole di saggezza che non vanno affatto perdute. Mi limito ad alcune citazioni.

“Poco meno di un terzo della popolazione attiva possiede le competenze necessarie per interagire consapevolmente nella società del XXI secolo. In gran parte gli italiani faticano a gestire le attività di lettura e di calcolo che si accompagnano a un pieno esercizio della cittadinanza. È una tendenza al neoanalfabetismo che si riscontra in molti paesi civili ma che solo da noi riguarda il 70% dei cittadini dai 16 ai 65 anni. Al risultato contribuiscono per la lettura tre componenti: 6% di analfabeti primari, molto di più delle autodichiarazioni al censimento; 22% di analfabeti di ritorno che perdono nel corso della vita le competenze acquisite sui banchi di scuola; 42% di analfabeti funzionali che pur sapendo decifrare un testo non riescono a padroneggiarne il significato per le funzioni necessarie; in altri termini, questi soggetti si trovano costantemente in una condizione di inadeguatezza che per un momento può essere quella anche della persona istruita quando si impappina di fronte a una pratica insolita, in un’occasione di dipendenza psicologica oppure alle prese con una nuova tecnologia” (p. 65).

“Il figlio di genitori che non hanno studiato, che vive nelle periferie sociali, che sceglie l’istruzione professionale cammina per un sentiero incerto e rischioso. Non era così nell’Italia povera del dopoguerra, anzi la nostra generazione è arrivata alla laurea spesso partendo da genitori quasi analfabeti. È intollerabile che invece oggi si riduca la mobilità sociale, in un paese comunque più ricco di allora. Significa che si è spezzato qualcosa nella dinamica di emancipazione delle classi subalterne e che l’istruzione è rimasta impigliata in questa frattura sociale” (p. 71).

“Se non è una crisi dell’educazione ma una crisi nell’educazione, i problemi e le soluzioni devono ampliare il campo di analisi e di azione. Certamente si richiede un impegno didattico più forte e inclusivo, ma non si può dimenticare che dietro c’è la montagna del disagio del 70% della popolazione. In molti casi per migliorare i risultati dei figli bisogna riportare sui banchi anche i genitori che non hanno studiato o che tendono a perdere le capacità acquisite. In un paese siffatto l’educazione permanente dovrebbe essere al primo posto dell’agenda, non solo come formazione professionale, né solo come supporto alle attività del tempo libero, ma come politica che si prende cura della cittadinanza” (p. 76).

“Le imprese realizzano un investimento in ricerca più basso di quello dello Stato, unico caso tra i paesi occidentali; la bassa domanda di tecnologie ICT da parte delle aziende rivela una scarsa innovazione dei processi produttivi in vasti settori della struttura economica” (p. 91).

“Se in Germania il governo avesse espresso l’intenzione di tagliare otto miliardi di euro (l’autore allude ai tagli del Ministro Gelmini), non avrebbero protestato solo gli insegnanti ma l’intero establishment economico,

ben consapevole del valore del sistema formativo per la competitività. Al contrario, in Italia la classe dirigente ha sollecitato i tagli perché non impensierivano un’economia a bassa domanda di qualità della forza lavoro” (p. 92).

“Nel dopoguerra un paese affamato, distrutto e in gran parte analfabeta riuscì in poco tempo a raggiungere i vertici del sapere moderno: la plastica di Natta; il grande calcolatore Olivetti a transistor sviluppato prima degli americani; il primo satellite spaziale europeo di Broglio; il sincrotrone di Amaldi; il CNEN di Ippolito e l’ENI di Mattei; l’istituto superiore di sanità di Marotta, crocevia di ben tre premi Nobel; l’innovazione tecnologica dell’IRI; il design industriale; cinema, teatro e letteratura di livello internazionale. Che a tutto ciò si sia accompagnata nel 1962 anche la più avanzata riforma scolastica, dimostra che le politiche dell’educazione sono i segnavia del progresso di un paese” (p. 94).

“C’è forse da riscoprire un altro incipit della modernità, meno fortunato ma gravido di promesse per l’avvenire, quello di Comenio, di una educazione integrale che rifugge ogni divisione: «Vogliamo proporre, dunque, tre cose inconsuete […] e cioè che vengano istruiti all’universale cultura 1) tutti gli uomini; 2) intorno a tutte le cose; 3) affinché divengano colti totalmente. Tutti, cioè tutte le nazioni, le classi sociali, le famiglie, le persone, nessuno escluso, in nessun luogo, perché tutti sono uomini»” (p. 118).

“La riforma dei cicli è l’assenza più clamorosa della Buona scuola. Qui si vede che la nuova generazione non si è liberata degli incubi dei predecessori. Che hanno esagerato per eccesso e per difetto. Per tanto tempo l’argomento è stato sopravvalutato, fino a considerarlo la panacea di tutti i mali, poi è diventato un tabù. Quella proposta da Berlinguer era una soluzione di alto livello, forse l’ambizione migliore del ventennio. Non meritava l’ostilità della sinistra che pure ne aveva condiviso l’intenzione né la furia distruttiva della destra che la cancellò senza alcun rispetto per la continuità istituzionale” (p. 120).

“La famiglia si è frammentata in nuclei sempre più piccoli, spesso con genitori separati e tendenzialmente più anziani. È saltata la funzione educativa della bottega familiare che secondo Tullio De mauro fino al miracolo economico ha sopperito alle carenze della scolarizzazione. La «piccola» famiglia, invece, scarica le proprie tensioni sulla scuola in forme divaricanti: da un lato la trascuratezza spesso associata a povertà minorile, e dall’altra un assillo protettivo che interferisce nella didattica e a volte condiziona la formazione delle classi secondo criteri selettivi. L’educazione integrale è l’unica via per allentare la tensione crescente tra istituzione scolastica e famiglia. La scuola aperta distende le relazioni tra insegnanti, ragazzi e genitori rielaborando nella dimensione sociale la funzione che fu della bottega familiare” (p.129).

“Non è stata una scelta felice il messaggio della didattica del potenziamento (di cui alla legge 107); piuttosto è tempo di una didattica mite che si ritira dalla volontà di conoscere tutto, per dedicarsi ai percorsi degli apprendimenti e ai nodi fondanti dei saperi. Una didattica mite che si ritira dalla volontà di conoscere tutto, per dedicarsi ai percorsi degli apprendimenti e ai nodi fondanti dei saperi” (p. 133).

“La lettura è sovrastata dalla visione, passando più frequentemente dalla logica sequenziale a quella simultanea. Ritorna il primato della percezione iconica dei significati, come era prima dell’avvento della scrittura. Il testo perde altresì quel carattere di stabilità che lo aveva posto a fondamento della legge e della sovranità. La scrittura digitale diventa un’infinita interpolazione, un copia e incolla, una chiosa che apre il testo ad ogni contaminazione, come avveniva nelle compilazioni medievali. Il futuro è spesso alle nostre spalle. Queste e tante altre novità contribuiscono a creare un fossato tra il maestro e l’allievo: «lento contro veloce, complicato contro semplificato, articolato contro elementare, noioso contro divertente, profondo contro brillante» (da Raffaele Simone, Presi nella rete, la mente ai tempi del web, Garzanti Milano, 2012, p 115). La scuola è lacerata dalla divaricazione tra l’endopaideia costrittiva e gerarchica dell’istituzione e l’esopaideia vitale e suadente del mondo giovanile” (p. 135).

Si tratta di riflessioni importanti e significative! Che colgono, a mio vedere, alcuni dei nodi chiave della problematica dell’Educazione, dell’Istruzione e della Formazione (sì, con tanto di maiuscole!) oggi nel nostro Paese. Che denunciano situazioni sulle quali occorre intervenire prima che sia troppo tardi. Dove sono i segni di ripresa che Luigi Berlinguer vuole forzatamente vedere passim, tra un dato e l’altro di un rapporto internazionale che certamente non è affatto benevolo verso la nostra scuola? Segnali positivi diffusi, a mio vedere non esistono, anche se so di iniziative di grande interesse (il Pacioli di Crema, il Fermi di Mantova, il Volta di Perugia, il Savoia Benincasa di Ancona, il Marco Polo di Bari, il Majorana di Brindisi) che Berlinguer ben conosce. E non vorrei che una legge improvvida si abbattesse come un uragano a distruggere formicai accoglienti e favi sapienti di cui, invece, dobbiamo andar fieri.