Animazione e apprendimento

Animazione e apprendimento

di Maurizio Tiriticco

 

Com’è noto, con la rivoluzione avviata da Gutemberg, i libri e, più tardi, i libri di testo per le scuole, divennero le più importante forma di divulgazione della cultura e dell’apprendimento scolastico. E nelle scuole la parola scritta era – e lo è tuttora – sostenuta dall’autorevole rinforzo della parola orale, della lectio ex cathedra. Oggi però, con la seconda rivoluzione avviata dalla Information and Communication Technology, rafforzata dalla ricerca e dall’insegnamento di autori quali Steve Jobs – chi non ricorda quell’accorato discorso augurale ai laureati di Stanford del 12 giugno 2005, e quel finale: Stay Hungry! Stay Foolish! – le informazioni non viaggiano più solo sulla carta, ma anche e soprattutto su questa impalpabile ragnatela mondiale del web. Il che significa che le conoscenze, una volta privilegio di pochi, oggi sono alla portata di tutti. E non fruirne è deleterio per ciascuno di noi. La società della conoscenza non perdona: l’obbligo di istruzione è diventato un diritto/dovere e l’apprendere ci accompagna e ci sostiene per tutta la vita. Se non conosci, sei tagliato fuori dalla vita sociale e dalla stessa attività lavorativa. E la scuola ha oggi una responsabilità ben più grande rispetto anche a un non lontano passato.

Una delle questioni più importanti che riguarda la nostra scuola, anzi il nostro “sistema nazionale di istruzione e formazione”, è che questa non riesce ad essere quell’ascensore sociale – come si suol dire – che dovrebbe garantire lo sviluppo civico e culturale dell’intera popolazione. Com’è noto, tutte le ricerche internazionali – anche il rapporto Education at a Glance, edizione 2015 – collocano sempre gli esiti del nostro sistema scolastico agli ultimi posti. Tale situazione non è data dal caso ma, a mio giudizio, da due concause: a) la prima riguarda l’ordinamento generale – i gradi e gli ordini – che sono quelli di sempre, una sorta di spezzatino verticale e orizzontale che non facilita quel rinnovamento strutturale finalizzato alla certificazione di quelle competenze di cui tanto si parla, ma che costituiscono ancora una sorta di araba fenice; b) la seconda riguarda il metodo di insegnamento, che in larga misura ancora su fonda sulla lezione cattedratica.

Per quanto riguarda la variabile a), la questione è politica [1]; ma, per quanto riguarda la variabile b), la questione riguarda quel concreto “comportamento insegnante”, su cui esistono numerosi studi [2], ma scarsissime applicazioni. In effetti, non solo in tutte le nostre scuole è ancora largamente dominante la lezione frontale – la cattedra, i banchi, i tempi rigidi e a tutti comuni la sostengono e la veicolano – ma è attivo anche un comportamento non verbale non controllato e non consapevole dell’insegnante, che spesso condiziona molto di più di quello verbale. Questa è la questione più capziosa. E si tratta di un condizionamento di cui, invece, occorre prendere atto e procedere per studiarlo ed eliminarne gli effetti negativi [3].

Per tutta questa serie di ragioni, ormai da più parti – e soprattutto anche dalle Indicazioni nazionali per il primo ciclo e per i licei e dalle Linee guida per gli istituti tecnici e professionali – emerge la cosiddetta didattica laboratoriale. E’ opportuno ricordare che, con questa espressione, non è chiamato in causa il laboratorio fisico attrezzato che, com’è noto, offre quegli oggetti e quei mezzi concreti che a volte contano molto più delle parole, ma il concreto agire dell’insegnante, responsabile dell’azione educativa. Di qui discende la felice metafora dell’insegnante “muto”, o meglio dell’insegnante che rinuncia alla spiegazione diretta – non dispiega il suo sapere su un dato oggetto/referente (la funzione referenziale di Jakobson) – ma sollecita gli alunni a ricercare, a fare e a dire; che pone problemi, invece di offrire soluzioni (la funzione conativa di Jakobson); quindi, dell’insegnante che “scende dalla cattedra” e “vi fa salire gli alunni”; dell’insegnante che “non sa”, ma che “stimola” a costruire saperi altrui attraverso la sollecitazione del fare.

Ne discende un insegnante che non spiega le guerre puniche, o il pessimismo leopardiano o l’area del rettangolo; ma un insegnante che stimola, incuriosisce, sfida, aiuta nella ricerca, suggerisce un metodo nella raccolta e nella selezione dei materiali e nella composizione di un nuovo manufatto. Le guerre puniche non sono quelle dei mille manuali di storia o delle mille informazioni trovate sul web, ma quelle scritte da quel gruppo di alunni con cui è stato concordato il compito. E, se dovessimo rifare il pavimento della nostra aula, quante mattonelle servirebbero alla bisogna? Prima viene il “bisogno”, poi si scopre come calcolare l’area del rettangolo: e non il contrario, come da sempre avviene. La didattica laboratoriale pone al centro l’alunno, le cose e il fare: per certi versi ci riconduce all’attivismo di un tempo [4].

Di qui nascono la figura e il ruolo dell’insegnante cosiddetto animatore, che si coniuga con quella dell’insegnante cosiddetto programmatore. Sulla programmazione sappiamo tutto e abbiamo scritto tonnellate di libri [5]; ma sull’animazione abbiamo scritto ben poco [6]. Mi tornano in mente quei Saggi per la mano sinistra di Jerome Bruner, pubblicati per la prima volta a Cambridge nel lontano 1964. Sintetizzo il volume. Il nostro cervello è diviso in due emisferi: con quello sinistro elaboriamo operazioni matematiche e il linguaggio logico (soggetto, predicato e complementi); l’emisfero destro, invece, è quello delle emozioni, dei sentimenti, delle intuizioni, della poesia, dell’arte. Si sottolinea che con il sinistro elaboriamo operazioni a tutti comuni e condivise (due più due fa quattro: Leopardi ha scritto L’Infinito; la prima guerra mondiale è scoppiata nel 1914, ecc: si tratta di dati oggettivi e da tutti condivisi); con il destro elaboriamo giudizi, emozioni, intuizioni, attese assolutamente personali (Dante fino a tutta l’età dei lumi è stato considerato un poeta oscuro; quel film che è piaciuto a te, a me non è piaciuto affatto, ecc.). Il cervello destro agisce sulla mano sinistra e viceversa. Quindi, con i saggi per la mano sinistra Bruner volle sostenere che l’apprendimento non è solo quello logico-matematico, ma anche quello intuitivo ed emotivo. Un tema pieno di errori (emisfero sinistro, mano destra), può essere, comunque, ricco di idee e di personalissime emozioni (emisfero destro, mano sinistra). Sollecitare gli insegnanti a tenere nel debito conto le operazioni della cosiddetta mano sinistra fu, quindi, una felice intuizione di Bruner.

Con la didattica laboratoriale, quindi, non si spiega e non si ascolta, ma si sollecita il fare, l’imparare, quell’imparare della etimologia latina, il raccogliere, il predisporre, l’apprestare, riferito a cose concrete più che a pensieri astratti. L’insegnante, quindi, lavora più con la mano sinistra che con la mano destra. L’alunno diviene protagonista del suo apprendimento attraverso il ricercare, il trovare materiali, raccogliere appunti anche, il predisporre testi e oggetti concreti, risolvere problemi anche con procedure originali e creative. In concreto, potremmo dire che i ruoli routinari di sempre, “spiegazione, compito, interrogazione, voto”, sono stravolti: non si insegna e non si impara, ma si lavora insieme (il metodo cooperativo, la peer education). L’insegnante, quindi, diviene la guida esperta del cammino che chi apprende deve percorrere.

Mi piace concludere con quanto ci suggerisce Dario Nicoli, dell’Università di Brescia, quando individua sette regole per condurre una didattica laboratoriale: 1. Non premettere le lezioni, ma fornire compiti ragionevolmente più alti dei livelli di partenza degli alunni; 2. Finalizzare il lavoro a prodotti reali riferiti a destinatari concreti che li possano apprezzare; 3. Definire un piano di lavoro incalzante che non lasci tempi vuoti; 4. Alternare il lavoro di gruppo al lavoro individuale; 5. Inserirsi per incoraggiare, indirizzare e rispondere a specifiche domande; 6. Rispondere alle richieste di sapere, fornire lezioni puntuali, ordinare e sedimentare il materiale mobilitato per mezzo delle discipline; 7. Valutare tramite prodotti, processi e linguaggi.

Sono indicazioni che stravolgono quanto avviene ogni giorno nelle nostra aule: ma sono indicazioni che occorre perseguire e realizzare, se si vuole che il frequentare la scuola non sia un pedaggio obbligatorio da pagare a uno Stato padrone, ma una felice e produttiva crescita, in cui l’apprendere venga prima dell’insegnare! Solo così la scuola non è un’imposizione, ma una felice occasione di ricerca quotidiana e di scoperta! Per la vita!


 

[1] In altri scritti ho sostenuto che la legge 107/2015 non mette in discussione proprio il nodo essenziale di un riordino dei cicli per perseguire, invece, finalità e obiettivi che rischiano di rompere quei principi di eguaglianza e di equità delle opportunità educative, istruttive e formative sanciti dalla Costituzione repubblicana. In effetti con tale legge si rischia di costruisce un sistema di istruzione “altro”, che condurrà alla concorrenza tra scuole e scuole e alla differenziazione tra scuole “buone” e scuole “cattive”.

[2] Si vedano almeno i classici: il belga Gilbert Leopold De Landsheere scrisse Les comportements non-verbaux de l’enseignant, in collaborazione con A. Delchambre, nel 1979; Graziella Ballanti si è occupata sperimentalmente dei metodi adottati in genere in aula dai nostri insegnanti. Si veda il suo Il comportamento insegnante, Armando, Roma, 1996.

[3] Anche la prossemica e la cronemica – e non solo i riferimenti di cui alla nota 2 – quindi, grosso modo, le distanze interpersonali e i ritmi delle interazioni verbali, ci aiutano a comprendere quanto il “non verbale” sia più producente, in positivo come in negativo, del comportamento verbale, che in genere è sempre sotto il controllo di chi lo agisce. Forse siamo maestri della parola, ma non del “non detto”.

[4] Mi piace suggerire un recente volume di Alain Goussot, dell’Ateneo bolognese: L’educazione nuova per una scuola inclusiva, edizioni del Rosone, Foggia, 2014. Si tratta di una ricerca sulla cosiddetta Scuola Nuova, della fine dell’800, di cui furono rappresentanti Adolphe Ferrière, Edouard Claparède, Roger Cousinet, autori legati al primo attivismo pedagogico. La centralità dell’alunno come protagonista attivo del suo apprendimento sembra tornare di attualità con l’adozione della cosiddetta didattica laboratoriale.

[5] Si rinvia ad autori ormai “classici” come Mario Castoldi, Mario Comoglio, Gaetano Domenici, Roberto Maragliano, Michele Pellerey, Benedetto Vertecchi.

[6] Mi piace ricordare il mio Programmazione come animazione, pubblicato da Tecnodid, Napoli, nel lontano 1986.