Tramonta il principio di sussidiarietà?

Tramonta il principio di sussidiarietà?

di Gian Carlo Sacchi

 

Nella carta europea delle autonomie locali si dice che “l’esercizio delle responsabilità pubbliche deve, in linea di massima, incombere di preferenza sulle autorità più vicine ai cittadini. L’assegnazione delle responsabilità ad un’altra autorità deve tener conto dell’ampiezza e della natura del compito e delle esigenze di efficacia e di economia”. L’Unione fissa gli obiettivi e lascia agli Stati la competenza per quanto riguarda la forma e i mezzi. Ci sono competenze esclusive dell’UE e competenze condivise con gli Stati che sono regolate dal principio di sussidiarietà: in queste ultime rientrano la salute, l’industria, la cultura, il turismo, l’educazione, la formazione professionale, la gioventù e lo sport, la protezione civile e la cooperazione amministrativa. Su questo impianto è stata modellata la riforma del titolo quinto della nostra Costituzione approvato nel 2001, nel quale lo Stato doveva proporre le “norme generali sull’istruzione”, mentre nel governo del settore intervenivano competenze “concorrenti” con le Regioni.

Tale principio deve operare in tutti gli stadi della procedura legislativa, in riferimento alla capacità di azione non solo dello Stato, ma anche delle entità regionali e locali. Esso infatti riconosce da un lato la piena responsabilità dei diversi livelli di governo di una comunità e giustifica la supplenza da parte di un’istanza superiore comune resasi necessaria per assumere iniziative che non avrebbero successo se condotte a livello locale.

Non si tratta però soltanto di una gerarchia di livelli di governo, la sussidiarietà per attivare le risposte ai bisogni della società stando sempre più vicini ai cittadini, deve rilanciare la partecipazione nella società civile, chiedendo al pubblico di fissare le regole, ma lasciando al privato la possibilità di organizzarsi per svolgere servizi, anche pubblici, a vantaggio di tutta la comunità. Le amministrazioni hanno sempre meno risorse e quindi delegano a soggetti esterni che possono essere anche l’aggregazione di cittadini stessi e di famiglie. La sussidiarietà coniuga la libertà dell’iniziativa con la responsabilità per il bene comune, ma deve fare i conti con l’adeguatezza del servizio pubblico, che comporta da un lato criteri per l’accreditamento di soggetti privati (si pensi al dibattito tutt’ora in corso sulle “tages mutter”), e, dall’altro, evitare di incorrere in un uso lobbistico dei finanziamenti degli enti pubblici.

La polemica politica coinvolge maggiormente questo secondo tipo di sussidiarietà, che da un lato viene tacciata come disimpegno delle amministrazioni rispetto ai servizi di pubblico interesse, ma dall’altro i sindaci individuano in essa un’arma contro gli sprechi, per la trasparenza e la responsabilità nell’uso delle risorse. Tutto questo è anche affermato nell’epoca del federalismo fiscale. E’ a livello del Comune che si poteva fare sintesi tra la sussidiarietà verticale, nei confronti con le Regioni e lo Stato e orizzontale nel rapporto con i privati.

Papa Benedetto XVI aveva puntualizzato che la sussidiarietà deve coniugarsi con la solidarietà, senza della quale scadrebbe nel particolarismo sociale, viceversa si avrebbe un assistenzialismo che umilia il portatore del bisogno (Caritas in Veritate n.58).

Più società e meno stato è lo slogan che è circolato agli inizi del terzo millennio quando nel nostro Paese era maturata una convinzione comune circa il superamento del centralismo statalista, anche se c’era chi premeva per il coinvolgimento dei privati in una programmazione di enti pubblici ma territoriali. Quello che veniva definito “servizio pubblico integrato” di cui aveva dato prova il sistema dei servizi per l’educazione dell’infanzia della Regione Emilia Romagna e culminato sul piano nazionale con la legge n.62/2000.

Un’altra possibilità era legata all’affidamento a privati accreditati di funzioni pubbliche, e qui facendo leva sull’autonomia delle istituzioni scolastiche si proponeva un unico sistema pubblico che accredita le scuole indipendentemente dal soggetto che le gestisce. Nel mezzo ci stanno altrettante politiche a sostegno del diritto allo studio considerato dai più in maniera univeralistica, eccettuate alcune operazioni lobbistiche per favorire l’accesso alle scuole paritarie. Un tentativo “bipartisan” è sfociato in una proposta di legge sull’autogoverno delle istituzioni scolastiche, approvata dalla Camera nel 2012 .

Il principio di sussidiarietà pur con i noti profili di ambiguità ha tentato di ispirare il governo dei servizi agganciandolo alle dinamiche europee, soprattutto ad un’Europa delle Regioni, ed una sua equilibrata applicazione avrebbe potuto consolidare una prospettiva federalista ed una governance territoriale sostenuta dalle diverse parti politiche.

Dai recenti provvedimenti legislativi, a cominciare dalla “controriforma” del titolo quinto della Costituzione, questo principio sembra essere stato cancellato ed è stato messo in atto un ritorno al centralismo statalista al quale si accompagna una forma di privatizzazione del sistema: tutto ripassa attraverso il ministero che tratta le politiche internazionali, gli ordinamenti e i rapporti con Confindustria per l’alternanza tra scuola e lavoro.

Sussidiarietà voleva il potenziamento dei corpi intermedi, mentre la legge 107 li indebolisce: è lo Stato che interviene anche sulla didattica finanziando e approvando i progetti delle scuole o chiamandole a partecipare a bandi nazionali. Non sarà la sussidiarietà orizzontale a far crescere la capacità di risposta ai bisogni dei cittadini, l’efficienza, l’economicità del servizio, la maggiore responsabilità e la semplificazione amministrativa, ma la valutazione e la competitività tra le scuole. Non sarà la sussidiarietà verticale a far dire al ministro Giannini che se la Sicilia non è capace di fare formazione professionale allora ci deve pensare il ministero.

Erano i corpi intermedi a stimolare l’elaborazione politica, oggi è il governo che convoca i tavoli sulle riforme ed il mondo associativo svolge funzioni occasionalmente consultive, anziché essere quest’ultimo ad innescare un processo partecipativo che arriva fino al livello nazionale, compreso il riconoscimento della rappresentanza alle scuole autonome. Un tale processo a livello locale non è più un valore educativo e di coesione sociale, ma anche i comuni organizzano gare di appalto come se i servizi alla persona, ai bambini, agli anziani, ecc. non fossero una parte della stessa vita e sviluppo della comunità, ma semplicemente procedure amministrative.

Un fronte caldo della sussidiarietà ha riguardato il finanziamento delle scuole e le provvidenze regionali per il diritto allo studio, soprattutto nei confronti del predetto rapporto tra pubblico e privato. E’ pronto a decollare lo school bonus che favorisce la detrazione fiscale da parte di chi finanzia non solo le paritarie, questione in atto da tempo, ma anche la scuola statale, così come per una serie di servizi al secondo ciclo si cerca di coinvolgere le imprese offrendo flessibilità nel curricolo e ricercando spazi di lavoro. Bisognerà vedere se la defiscalizzazione verrà prodotta nei confronti dello Stato o della singola scuola, o sotto forma di voucer da spendere da parte delle famiglie, per sapere se ci sarà veramente autonomia finanziaria degli istituti scolastici, cosa che per ora non si vede, rimanendo ancora tutto legato alla legge di stabilità. Mentre sembrava che il dibattito richiamasse i concetti di libertà di educazione e di laicità all’interno di un sistema delle autonomie territoriali e di una politica finanziaria multilivello e sussidiaria, ora è lo Stato stesso che fa intese con i privati, sia sul versante delle entrate che delle spese.

Alcune Regioni hanno impugnato la legge 107 davanti alla Corte Costituzionale accusandola di neocentralismo che esclude il coinvolgimento di altri livelli di governo, soprattutto perché funzioni avocate allo Stato non tengono presenti le caratteristiche dei territori uscendo così dalla cultura della sussidiarietà.

Da indagini effettuate emerge che i cittadini preferiscono servizi erogati da corpi sociali piuttosto che dallo Stato, il che sembra normale in un Paese dove si respira davvero aria di democrazia.