Programmazione territoriale di area vasta

PROGRAMMAZIONE TERRITORIALE DI AREA VASTA

di Gian Carlo Sacchi

 

E’ un concetto, quello di “area vasta”, che ha fatto la sua comparsa con la legge Del Rio sul riordino degli enti locali ed in particolar modo delle province, in vista della loro soppressione per effetto della riforma del titolo quinto della Costituzione. Si tratta di superare una modalità di programmazione istituzionale del territorio che sia gli amministratori che i cittadini sono abituati a praticare fin dall’unità d’Italia e che cambiare significa disorientamento per entrambi, circa la qualità e la maggiore efficienza di fruizione dei servizi e per le modalità organizzative e di rappresentanza democratica.
La legge non definisce infatti l’area vasta ma la pone come obiettivo di una nuova configurazione sociale e amministrativa che coinvolge i comuni secondo prospettive di maggiore ampliamento attraverso meccanismi di aggregazione/fusione, l’introduzione delle città metropolitane, in una concezione più europea dei grandi agglomerati urbani, un nuovo ruolo delle regioni collegato con il senato delle autonomie.
Questo disegno esclude le province, che andavano già superate quarant’anni fa con l’introduzione del regionalismo nel nostro ordinamento, che a sua volta avrebbe dovuto dare compimento al dettato costituzionale, nel tentativo, rimasto però incompiuto, di decentrare il governo del Paese verso i territori.
Il ruolo delle province in questo ultimo quarto di secolo è stato di supporto a comuni piccoli e così più deboli oppure ha gestito attività per delega regionale. L’area vasta è dunque un concetto che pone a diretto contatto regioni, che a loro volta avrebbero potuto subire modifiche di confini, e comuni con dimensioni e quindi capacità di governo molto più importanti di prima.
L’area vasta non può essere dunque un nuovo ente, ma una tendenza ad organizzare problemi e servizi, emergenze naturali e culturali del territorio secondo maggiore efficienza/efficacia, legittimati da un lato dal comune come rappresentante della comunità e dalla regione come snodo dello stato. Essa rappresenterà anche un indicatore di maggiore flessibilità per andare oltre gli stessi confini regionali, attraverso il meccanismo delle intese, o vedere attribuito dallo stato stesso ad una determinata regione poteri particolari in base a particolari esigenze locali.  Area vasta è sinonimo di partecipazione e di coinvolgimento di aggregazioni della società civile, valorizzando il principio di sussidiarietà; un rapporto tra pubblico e privato può agire in modo semplice ed equo per soddisfare le necessità e sollecitare responsabilità e qualità anche da parte delle stesse formazioni sociali. Una gestione integrata nei servizi per l’infanzia, gli anziani, i disabili, ecc., mantiene una visione pubblica del servizio medesimo, cercandone allo stesso tempo una maggiore economia nella gestione.
E’ nell’area vasta che si deve riproporre la riflessione sugli strumenti di governance che nel recente passato avevano introdotto sistemi misti in aiuto soprattutto alle difficoltà economiche dei comuni ed alla eccessiva complicazione burocratica nell’applicazione della normativa degli enti locali a tali servizi e nella gestione dei loro bilanci (si veda ad esempio l’impossibilità di omogeneizzare le funzioni degli educatori dei nidi di infanzia comunali e degli altri impiegati dell’ente), che non dovevano andare a gravare eccessivamente sulle tasche dei cittadini. Sembra che i comuni vadano verso la privatizzazione tout court, il che mette a rischio la fruizione di un diritto ritenuto sempre più universale per lo sviluppo del bambino e non solo un sostegno alle famiglie a fronte di una pura convenienza economica. Tra le deleghe della legge 107 c’è anche la riforma del ciclo 0-6 anni per superare un servizio ancora oggi definito a domanda individuale e quindi molto condizionato dai costi e dalle disponibilità economiche delle famiglie, per farlo diventare servizio pubblico, con l’intervento dello Stato. Sicuramente si tratta di un passo avanti sul fronte finanziario, ma anche questo segmento deve rientrare nella più ampia discussione sul governo complessivo del sistema per evitare che diventi parte di una rigidità della particolare amministrazione scolastica, come già accade per la scuola dell’infanzia, sganciandolo dall’intimo rapporto con il comune e la comunità di riferimento.
Fin dall’introduzione dell’autonomia della scuola nel 1998 la personalità giuridica delle scuole autonome venne conferita con atto unilaterale dello Stato, in base a parametri numerici di popolazione scolastica indipendentemente dalle scelte di programmazione territoriale e di organizzazione locale dei servizi con i quali le scuole stesse avrebbero dovuto venire in contatto. Oggi sembra necessario rivedere tali assetti sulla base del riordino dei comuni e quindi dell’organizzazione funzionale del predetto 0-6, ma anche del primo ciclo per il quale dovranno essere generalizzati gli “istituti comprensivi” ,che si completerà con il passaggio degli istituti superiori dalle province ai quali potrà essere utile mantenere il modello del campus, che favorirà il rapporto tra diversi indirizzi di studio, anche nell’ottica di un maggior e più efficace orientamento. Il tutto andrà posto in relazione con il sistema di istruzione e formazione professionale che la riforma costituzionale affida alle regioni e agli Istituti Tecnici Superiori gestiti da Fondazioni con la partecipazione delle università e delle imprese; dei poli tecnologici, dei laboratori territoriali per l’occupabilità previsti dalla predetta legge 107.
E’ necessario che quanto prima anche la programmazione scolastica, insieme a quella sanitaria, dei servizi sociali e per il lavoro, divenga una prerogativa regionale e si possa arrivare ad un’Azienda Scolastica Locale, con l’individuazione di “ambiti ottimali di servizio”, già indicati dal DL 233/1998 e ribaditi dalla legge 1907, che dovrebbe unificare sul territorio l’organizzazione istituzionale e l’assegnazione del personale (che siano i presidi o meno a scegliere gli insegnanti). La volontà di questo governo è di “completare l’autonomia scolastica”, ma ciò sarà impossibile se le scuole rimarranno legate a doppio filo all’ufficio scolastico regionale e se lo stato, proprio in sede di riforma costituzionale, cerca di ritornare in possesso di tutte le competenze di governo, anche di quelle che in un primo tentativo con la riforma del 2001 si era cercato di condividere, purtroppo senza andare fino in fondo, con le regioni.
I predetti ambiti sono scelte di area vasta che possono comprendere tutti gli ordini e i gradi di scuola, che in primis verranno identificati all’interno delle regioni, ma che attraverso intese, come si è detto, potranno andare oltre, al fine di ottenere migliori risultati sul piano educativo, sociale ed economico. Autonomia vuol dire esercizio pieno dei poteri previsti per le scuole dal DPR 275/1999 e rappresentanza a livello territoriale, regionale, fino ad arrivare al consiglio nazionale delle scuole autonome, strumento di dialogo con l’amministrazione centrale per quanto riguarda le politiche di indirizzo e di controllo.
Alla debolezza delle governance nei vari settori, che si nota anche per la disomogeneità di sviluppo tra i territori del nostro Paese, non si pone rimedio con le “agenzie nazionali” , ma con un’integrazione effettiva delle politiche da realizzarsi nel nuovo senato delle autonomie, altrimenti resta da capire quale sarà il suo ruolo se alla parola autonomia non corrisponderà nessun potere reale e nessuna responsabilità.
E’ illusorio pensare che ci possa essere una ripresa se prima di tutto non si rilancerà sulla motivazione e sull’intraprendenza delle realtà locali, ponendo al centro la scuola come elemento di sviluppo, assicurando ad essa il necessario sostegno economico e politico per quanto attiene alla sua funzione per tutto il Paese, ma lasciando spazio ad un’autonomia “pedagogica” che può far rilevare il valore aggiunto. Non si vorrebbero paragoni mal compresi, ma il modello sanitario potrebbe essere utile: qualità professionale, finanziamento nazionale, gestione regionale e locale.
Il rapporto tra stato e regioni a questo riguardo sembra il passaggio più ambiguo di tutta l’operazione. Lo stato vuole conservare, come si è detto, tutti i poteri sul piano gestionale, e ciò ha provocando il fallimento della precedente riforma costituzionale e gli intralci che hanno prodotto un enorme contenzioso; ora il nuovo titolo quinto della costituzione sembra voler ricentralizzare l’ordinamento scolastico, ma lascia ancora spazio per una revisione interna ed esterna del governo degli istituti scolastici, anch’essi oggetto di una delega della legge 107. Le regioni però non si sono mai rivelate entusiaste di una tale acquisizione per paura di dover ereditare situazioni che non sono mai state in grado di controllare, a differenza ad esempio, della formazione professionale, e in grave difficoltà finanziaria.
Oggi qualche passo in avanti è stato fatto con l’incremento da parte dello stato degli organici per il “potenziamento” dell’offerta formativa, nei rapporti con i privati, soprattutto con le aziende, per quanto riguarda l’importante settore del lavoro, nonché la riconsiderazione dei servizi 0-6 anni da parte dei comuni, causa una spesa non più sostenibile. E’ dunque l’occasione per rimettere a posto il mosaico, ridistribuendo poteri e risorse.
Contro il federalismo devolutivo che ha moltiplicato i centri di decisione ed i livelli di conflittualità questo governo vorrebbe realizzare, come ha detto il ministro Boschi, un regionalismo cooperativo, anche se il testo della riforma sembra più attribuire alle regioni competenze amministrative di area vasta.
Quest’ultima deve rimanere una prospettiva innovativa e di sviluppo e non può rischiare di diventare una forma depressiva di risparmio.