Il digitale innova a scuola. Ma non da solo

da Il Sole 24 Ore

Il digitale innova a scuola. Ma non da solo

Mentre parte il Piano scuola digitale del Miur, proseguono le polemiche sulla reale efficacia delle tecnologie nell’apprendimento. Il digitale certo non sostituisce completamente gli altri strumenti didattici, ma offre opportunità. Ed è compito della scuola anche educare i ragazzi a un uso corretto. Perché sono anzitutto i buoni insegnanti che possono fare una buona scuola

di Pierangelo Soldavini

Nella Bella addormentata nel bosco la principessa alla fine cade nel tranello che realizza la maledizione lanciata dalla fata cattiva: a quindici anni si punge il dito con un fuso e muore. Nonostante il re avesse proibito gli arcolai in tutto il regno. La fiaba avrebbe potuto seguire un percorso diverso se il padre avesse istruito la figlia a usare in maniera corretta gli arcolai, in modo da non pungersi. Silvano Tagliagambe ricorre a questa metafora per spiegare l’approccio che il sistema scolastico dovrebbe avere oggi di fronte alle tecnologie: “E’ innegabile che possano avere controindicazioni e rischi – afferma il filosofo della scienza ed esperto di modelli didattici -: non c’è dubbio che la velocità insita nel multitasking digitale possa diminuire la capacità di concentrazione e la memoria, ma questo non significa che la soluzione sia escluderle dalla scuola: al contrario bisogna riequilibrarne gli utilizzi in modo da favorire un uso consapevole e utile sia in classe che all’esterno”.

Il tema dell’introduzione del digitale a scuola è uno di quelli che ancora oggi divide e crea polemiche. Non ci sono evidenze scientifiche certe sull’effetto delle tecnologie sull’apprendimento, mentre l’esperienza quotidiana di utilizzo da parte dei giovani (ma non solo) di smartphone e tablet va nella direzione di uno sfruttamento superficiale e parziale delle enormi potenzialità degli strumenti che hanno in mano.

Lo conferma anche il rapporto sul digital reading pubblicato recentemente dal ministero dell’Istruzione: gli studenti italiani hanno buone capacità di navigazione generica sul web, ma si smarriscono facilmente quando si tratta di fare ricerche più raffinate e approfondite. E ancora, in linea, con i risultati del rapporto Pisa dell’Ocse, anche in Italia l’uso del computer è fortemente condizionato dalle condizioni socio-economiche: “La disparità digitale sembra essersi spostata dalla differenza di possibilità di accesso alle tlc all’utilizzo che gli studenti ne fanno: gli svantaggiati navigano più per motivi ludici rispetto agli avvantaggiati che si connettono anche per un uso informativo e di comunicazione”, afferma il rapporto. Il quale conclude che “emerge chiaramente la necessità di integrare le tecnologie digitali nella didattica e di sperimentare nuove metodologie nella pratica pedagogica quotidiane”. E più avanti sottolinea come “l’insegnamento nel XXI secolo non deve considerare la tecnologia come il centro del processo educativo, deve piuttosto promuoverne l’uso consapevole e critico, attraverso pratiche che abbiano l’obiettivo di formare studenti in quanto e-citizen consapevoli, aggiornati e creativi”.

“Sia chiaro, il digitale non risolve proprio nulla, anzi ti crea problemi”, afferma senza mezzi termini Roberto Maragliano, docente di Tecnologie dell’istruzione e dell’apprendimento presso l’Università Roma Tre. E precisa: “La tecnologia ha il grosso pregio di essere trasparente: permette di vedere cose che prima non potevi vedere. Quindi oggi ci permette di comprendere che l’apprendimento è un processo complesso, per il quale non è più sufficiente il vecchio modello di apprendimento statico frontale basato sulla spiegazione e sulla restituzione, molto semplice e rassicurante, ma non adatto ai tempi attuali”. Il digitale permette così di portare anche tra le mura delle classi la complessità della realtà esterna e consente, per esempio, di sfruttare l’integrazione tra vari linguaggi: non solo la lingua scritta, ma anche l’audio, il video, l’immagine, tutti insieme.

“Ma – prosegue Maragliano – costringe a rimettersi in gioco per ridiscutere cosa e come insegnare, così come a cambiare la qualità dei contenuti, e non è un caso che oggi il digitale sia sfruttato più facilmente nella scuola primaria, laddove c’è maggior flessibilità e maggior attenzione all’apprendimento spontaneo, mentre nella secondaria prevale la disciplina rigida dettata dalle materie”.

Ma non tutti concordano con queste visioni: c’è chi lascia spazio allo scetticismo e alle paure di fronte all’innovazione digitale. “La tecnologia può produrre risultati eccezionali se applicata nella scuole con funzioni strumentali e se non proposta in chiave imitativa, così come è successo finora – sostiene Benedetto Vertecchi, docente di Pedagogia sperimentale all’Università Roma Tre -: i bambini hanno bisogno di stabilire una connessione funzionale tra la capacità mentale e la sua traduzione in azioni: è un processo molto complesso, che deve essere supportato nel suo sviluppo. La scrittura è un’attività assolutamente necessaria a questo scopo costringendo a elaborare il pensiero per arrivare a ragionamenti logici e strutturati, mentre la sostituzione con la tastiera impedisce questo apprendimento”.

Vertecchi elenca quelli che, sulla base di un’adozione scriteriata e mirata al breve periodo della tecnologia nelle aule, sono le conseguenze che sta verificando tra i ragazzi: una caduta nella capacità di scrivere, sia sotto forma di difficoltà nell’ortografia – affidata ai correttori automatici – che nella capacità di organizzare correttamente i concetti; il dominio del “copia e incolla” provoca una seria difficoltà di coordinare e strutturare il pensiero che si trasforma in conseguenti problemi dell’apprendimento; la certezza di riuscire a trovare sempre una risposta all’esterno della propria testa porta a un preoccupante deterioramento della memoria. Insomma Vertecchi non ha dubbi: la scuola deve tornare a puntare sulle attività manuali libere e sulla scrittura e vietare i device tecnologici prima dell’adolescenza.

A denunciare il modo casuale e controproducente con cui sono state introdotte le tecnologie nelle aule italiane – nello specifico il vecchio progetto Classi 2.0 – è anche Adolfo Scotto di Luzio nel recente libro Senza educazione. I rischi della scuola 2.0 (Il Mulino), in cui denuncia la fiducia eccessiva nel potere quasi magico del digitale che avrebbe potuto risolvere in un sol colpo tutti i problemi della scuola italiana. E indica come conseguenza lo strapotere che tablet e computer hanno oggi nella scuola con conseguenti problemi nell’apprendimento. La sua conclusione è lineare: sono in primo luogo i buoni insegnanti a fare una buona scuola.

Su questo concorda anche Dianora Bardi, vicepresidente di ImparaDigitale e pioniera dell’utilizzo del digitale nella scuole: “Non c’è dubbio che la tecnologia da sola non faccia una buona scuola, anzi è inutile parlare di didattica digitale: la didattica è didattica e basta, e deve essere ripensata in una modalità di costruzione del sapere condivisa e partecipata tra docenti e studenti, in cui i ragazzi possano diventare protagonisti del loro stesso percorso di apprendimento”. La tecnologia può certo isolare, ma se ben usata può aprire nuovi spazi di collaborazione e di approfondimento: “Dobbiamo così rendere consapevoli i nostri studenti per poterla utilizzare al meglio, in maniera consapevole e critica: ci può aiutare moltissimo nel costruire un modello di scuola nuova, che possa mettere i ragazzi in condizione di affrontare il mondo che li aspetta”.

Anche l’Ocse sottolinea nel suo report dedicato al digitale a scuola che “aggiungere le tecnologie del XXI secolo alle pratiche di insegnamento del XX semplicemente diluisce l’efficacia dell’insegnamento: la tecnologia può amplificare l’effetto di un ottimo insegnamento, ma un’ottima tecnologia non può sostituire un cattivo insegnamento”

Si tratta allora di essere innovativi nell’utilizzo della tecnologia e saperla utilizzare in maniera mirata. Come nel progetto messo a punto, sotto la guida di Silvano Tagliagambe, da Up School, scuola primaria paritaria di Villino Campagnolo, nel cagliaritano, dove à stato introdotto un fablab, dove la stampanti 3D vengono direttamente montate spiegando il processo conoscitivo connesso a ogni passaggio, per poi utilizzare la macchine per stampare degli oggetti progettati direttamente dai bambini: un metodo che esalta il valore della progettazione, della verifica e delle correzioni in corso d’opera, in un processo necessariamente lento di riflessione e di capacità creativa: “Il bambino viene accompagnato in un uso consapevole della tecnologia, in un procedimento che replica i problemi che ci troviamo di fronte nella realtà, fatti di fenomeni complessi e interconnessi che non possono essere scomposti in sottoproblemi separati, come si fa a scuola dove si affrontano le materie in maniera separata”.

Si tratta di un approccio in buona parte adottato anche dal Piano nazionale scuola digitale, partito operativamente nell’ultimo scorcio dell’anno scorso: “Più che su strutture tecnologiche pesanti, come è stato fatto in passato, abbiamo scelto di puntare su infrastrutture leggere – la connessione in banda larga e il wifi negli edifici, con investimenti complessivi per 600 milioni di euro – spiega Damien Lanfrey, della segreteria tecnica del ministro dell’Istruzione – proprio perché non vogliamo investire su infrastrutture che possono risultare inutili, ma su persone che siano in grado di innovare”.

A inizio hanno iniziato a operare ufficialmente gli 8mila animatori digitali, insegnanti scelti dalle singole scuole e deputati a far da volano alla progettazione innovativa in chiave digitale: a marzo partirà la loro formazione, mentre è già partita una community informale degli animatori per condividere i progetti e i piani dell’offerta formativa digitale, un processo che diventerà sempre più rilevante. Circa 500 di loro saranno scelti per una formazione specifica all’estero: “Il focus è spostato sulla didattica – prosegue Lanfrey -: la scelta dell’animatore ha avuto il merito di mettere già l’innovazione digitale al centro della scuola”.

L’importante intanto è che non prevalgano posizioni integraliste in un senso o nell’altro. D’altra parte la fine della Bella addormentata la sappiamo già: la principessa deve aspettare cento anni per essere risvegliata dal Principe azzurro. Ma per il digitale un secolo è un’era geologica: la scuola deve adeguarsi velocemente prima che sia troppo tardi.