A quando la certificazione delle competenze dei nostri 19enni?

A quando la certificazione delle competenze dei nostri 19enni?
memoria per gli amici del Miur

di Maurizio Tiriticco

 

Nel clima degli anni Sessanta delle scorso secolo, determinato dal movimento studentesco del Sessantotto, si adottarono una serie di provvedimenti in favore dei giovani, tra cui la quinquennalizzazione degli istituti professionali e la possibilità dei loro studenti di accedere all’università, alla pari dei loro colleghi dei licei e degli istituti tecnici: un balzo in avanti di importanza notevole per quanto riguarda l’elevamento culturale dei nostri giovani e dell’intera popolazione. Nel 1969, con la legge 119 venne anche rinnovato l’esame di Stato conclusivo degli studi del secondo ciclo. La legge prevedeva tra l’altro che “l’esame di maturità ha come fine la valutazione globale della personalità del candidato” e che “a conclusione dell’esame di maturità viene formulato, per ciascun candidato, un motivato giudizio, sulla base delle risultanze tratte dall’esito dell’esame, dal curriculum degli studi e da ogni altro elemento posto a disposizione della commissione”.

Negli stessi anni, però, la ricerca educativa e quella docimologica sostenevano e dimostravano che la valutazione complessiva della personalità di un qualsiasi soggetto è impresa ardua, perché mancano indicatori oggettivi di riferimento; ne conseguiva che la formulazione di un giudizio di maturità è sempre vaga e generica, anche nonostante la professionalità degli esaminatori. Comunque, per molti anni quel tipo di esame non venne mai messo in discussione.

Solo nel 1997, con la legge 425 (ministro pro tempore Luigi Berlinguer), decidemmo di riordinare quell’esame, non solo come suggerito dalla ricerca pedagogica, ma anche – potremmo dire – come imposto dall’esigenza che i nostri titoli di studio circolassero nei Paesi di quell’Unione europea che con il Trattato di Maastricht del 1992 aveva cessato di essere una semplice Comunità economica.

Fu così che con la nuova legge si liquidò il concetto stesso di MATURITA’ per dare posto al concetto di COMPETENZA. Le commissioni, pertanto, non avrebbero più dovuto formulare una “valutazione globale della personalità del candidato”, ma certificare le concrete competenze da lui conseguite. L’articolo 6 della nuova legge prevedeva testualmente: “Certificazioni. Il rilascio e il contenuto delle certificazioni di promozione, di idoneità e di superamento dell’esame di Stato sono ridisciplinati in armonia con le nuove disposizioni, al fine di dare trasparenza alle COMPETENZE, CONOSCENZE e CAPACITA’ acquisite secondo il piano di studi seguito, tenendo conto delle esigenze di circolazione dei titoli di studio nell’ambito dell’Unione europea”. Di qui le famose tre C che rivoluzionarono non solo un esame ma, per certi versi, lo stesso modo di “fare scuola”.

Alla legge, varata dal Parlamento, doveva seguire un provvedimento esecutivo, di competenza dell’allora Ministero della Pubblica Istruzione. Ed è qui che nacquero le difficoltà. Erano anni in cui sul concetto stesso di competenza non circolavano definizioni univoche. E non era neanche chiaro che cosa lo stesso legislatore intendesse per ciascuna della tre C. La stessa ricerca educativa ne dava letture e interpretazioni diverse. Comunque, la legge 425 era stata promulgata il 10 dicembre del ’97 e occorreva varare il regolamento attuativo in tempi brevi, se si voleva giungere al nuovo esame con la tornata del ’99. In effetti, in mancanza di indicazioni e di suggerimenti certi da parte della ricerca educativa, anche europea, in materia di competenze, non era affatto facile dare indicazioni certe alle scuole e alle commissioni. Passare dalle consuete prove tradizionali a prove fortemente innovative, dal regime consolidato di voti e giudizi verbali a quello innovativo dei punteggi, dalla valutazione di conoscenze alla certificazione di competenze non era cosa facile né per le commissioni, tanto meno – horribile dictu – per l’amministrazione che in materia, invece, era tenuta a dare indicazioni più che chiare.

Fu così che, dopo affannose discussioni in sede ministeriale, si giunse a dare alle scuole e alle commissioni le attese indicazioni, ma – almeno a mio vedere – più sibilline che certe. All’articolo 1 del Regolamento applicativo, dpr 323/1998, testualmente, tra l’altro, leggiamo: “L’analisi e la verifica della preparazione di ciascun candidato tendono ad accertare le CONOSCENZE generali e specifiche, le COMPETENZE in quanto possesso di abilità, anche di carattere applicativo, e le CAPACITA’ elaborative, logiche e critiche acquisite”. Si trattava di definizioni assolutamente insufficienti e vaghe, data soprattutto l’assoluta assenza di un conforto teorico univoco.

Comunque, di qui ebbero inizio le famose Tre C che appassionarono e afflissero la scuola italiana di quegli anni. Di certo, occorreva anche varare per le commissioni un modello di certificazione che più nulla avrebbe avuto a che vedere con il vecchio diploma. Però, se era difficile definire che cosa è una competenza, era anche difficile certificarla, nonché adottare un adeguato modello. Di fatto, fu assunta una decisione pilatesca: con il dm 450/1998 venne varato un modello che, salvo qualche piccola modifica, è ancora vigente, in cui però non vennero indicate le competenze acquisite dal candidato, ma solo i punteggi ottenuti nel corso delle prove d’esame. E il medesimo dm così si concludeva: “I modelli delle certificazioni integrative del diploma hanno carattere sperimentale e si intendono adottati limitatamente agli anni scolastici 1998-99 e 1999-2000”. Il che lasciava intendere che l’amministrazione si concedeva due anni di tempo per “ragionare” sulle competenze e dare infine alle scuole un modello consono. Ma, i due anni sono trascorsi e, con il succedersi di ministri in altre faccende affaccendati, del modello e della certificazione stessa non se n’è più parlato… quanto meno scritto!

Al silenzio ministeriale supplì la ricerca di molti volenterosi al fine di offrire alle scuole un minimo di indicazioni concrete per operare, se non sul piano della certificazione formale su quello della operatività. Eccone un esempio di definizioni:

CONOSCENZA come acquisizione di contenuti, cioè di dati, informazioni, termini, regole, procedure, metodi, tecniche, concetti, principi…, come insiemi di date conoscenze afferenti ad una o più aree disciplinari;

COMPETENZA come utilizzazione delle conoscenze acquisite, necessarie per risolvere situazioni problematiche o produrre nuovi “oggetti”, in quanto applicazione concreta di una o più conoscenze teoriche;

CAPACITA’ come utilizzazione responsabile e significativa di determinate competenze in situazioni organizzate in cui interagiscono più fattori e/o più soggetti e si debba assumere una decisione.

Per alcuni anni indicazioni di questo tipo sono servite a qualcosa. Ma poi, finalmente è stata l’Europa stessa – o meglio l’Unione europea – la quale ha preso posizione su tale tematica. Alludiamo alla Raccomandazione del Parlamento europeo e del Consiglio europeo [1] del 23 aprile 2008, in cui leggiamo testualmente:

CONOSCENZE: risultato dell’assimilazione di informazioni attraverso l’apprendimento. Le conoscenze sono un insieme di fatti, principi, teorie e pratiche relative ad un settore di lavoro o di studio. Nel contesto del Quadro Europeo delle Qualifiche le conoscenze sono descritte come teoriche e/o pratiche;

ABILITA’: indicano le capacità di applicare conoscenze e di utilizzare know-how per portare a termine compiti e risolvere problemi. Nel contesto del Quadro Europeo delle Qualifiche le abilità sono descritte come cognitive (comprendenti l’uso del pensiero logico, intuitivo e creativo) o pratiche (comprendenti l’abilità manuale e l’uso di metodi, materiali, strumenti);

COMPETENZE: comprovata capacità di utilizzare conoscenze, abilità e capacità personali, sociali e/o metodologiche, in situazioni di lavoro o di studio e nello sviluppo professionale e personale. Nel contesto del Quadro Europeo delle Qualifiche le competenze sono descritte in termini di responsabilità e autonomia.

Stando così le cose e, soprattutto, disponendo a monte di definizioni che hanno valore almeno per tutti i 28 Paesi dell’Unione europea, gli amici del Miur della Buona scuola non dovrebbero trovare molte difficoltà a dare indicazioni sia alle scuole che alle commissioni di esame. Le Linee guida degli istituti tecnici e degli istituti professionali danno già indicazioni chiare – anche se perfettibili, ovviamente – sulle competenze terminali da certificare in sede d’esame. Le Indicazioni nazionali per i licei sono ondivaghe in materia di competenze, ma ciò non significa che una loro rilettura e riscrittura non possa in breve tempo ovviare a tale carenza.

Del resto, è la stessa legge 107/2015 che al comma 180 prevede tra l’altro un provvedimento delegato che riguarda la “revisione delle modalità di svolgimento degli esami di Stato relativi ai percorsi di studio della scuola secondaria di secondo grado in coerenza con quanto previsto dai regolamenti di cui ai decreti del Presidente della Repubblica 15 marzo 2010, nn. 87, 88 e 89”.

Forse le scuole possono attendere! Anche le commissioni forse possono attendere! L’Europa stessa forse può attendere! Ma i nostri giovani no! Non possono attendere! Loro assolutamente no!


 

[1] Da non confondere con il Consiglio dell’Unione europea né con il Consiglio d’Europa, che sono altre istituzioni.