I CONTESTI DELLA SPECIALE NORMALITA’

PAMELA BIANCO[1]

I CONTESTI DELLA SPECIALE NORMALITA’

 

  1. Premessa

 

La diversità è la norma” e “i diversi non sono più diversi dagli uguali di quanto gli uguali non siano diversi tra loro”. La normalità è costituita da plurime diversità, l’eterogeneità è la normalità. Il mondo multiforme e composito di oggi ha bisogno di tutte quante le sue componenti, perché la vita è dialettica delle diversità e senza diversità non c’è vita, tutto altrimenti risulterebbe livellato ed uniforme. La diversità, racchiusa nella ricchezza delle sue manifestazioni biologiche, culturali, estetiche, sociali, politiche, deve essere oggi considerata come un valore assoluto e indispensabile dell’umanità. Il disabile è testimone manifesto della diversità, sia essa fisica, psichica o sensoriale.

Il diverso è un “altro”, rispetto al quale ogni soggetto è diverso: la dimensione etica della diversità, risiede nella scelta che ciascuno fa della propria vita. Una scelta di partecipazione, di solidarietà, di immedesimazione e di empatia è una scelta di campo che si traduce in proposito educativo. L’etica della diversità è stile di pensiero, testimonianza di umanità, tensione emotiva forte e continua, come ben sanno i docenti che quotidianamente vivono le problematiche del disabile. Presupposto dell’etica della diversità è la cultura dell’integrazione. In questi ultimi anni la presenza del disabile ha dato un decisivo apporto al rinnovamento della scuola, che in questo modo ha saputo mettere in discussione se stessa, è stata in grado, tra tante difficoltà, di cercare nuovi percorsi e procedimenti, di creare una didattica e nuovi profili professionali (dall’insegnante specializzato all’operatore psico-pedagogico). L’integrazione si è così elevata ai livelli di una nuova cultura, intesa come modo diverso di concepire l’educazione, basata su risorse umane più sollecite verso i valori della solidarietà, della collegialità, della corresponsabilità. Con la L. 104/92, l’integrazione non è più un fatto meramente scolastico, ma anche sociale e culturale: coinvolge le comunità e i singoli, modifica gli aspetti normativi e i comportamenti delle persone, produce ed è cultura tout court.

 

2.     La pedagogia speciale e la didattica speciale

 

La pedagogia speciale ha come oggetto di indagine l’educabilità dei soggetti in situazione di handicap. Infatti per comprendere l’origine e la storicità della pedagogia speciale in quanto scienza, si considera la vicenda del ragazzo selvaggio (sauvage) che ne rappresenta il mito fondatore raccontando la parabola esistenziale che conduce un fanciullo dallo stato di natura a quello di cultura traghettato dall’educazione in quanto soggetto educabile. Da questo momento in poi si sviluppa appunto un’idea di educazione e di educabilità, in contrapposizione a quella di ineducabilità, che fa perno sul concetto e sul valore della comunicazione che viene a realizzarsi tra chi educa e il soggetto educabile, in un’ottica interdisciplinare che coinvolge il contributo della medicina e dell’assistenza in generale, entro il quadro complessivo delle scienze dell’educazione.

Il compito principale della pedagogia speciale è comprendere e studiare, eticamente e scientificamente, i “deficit” per consentirne l’accettazione in uno sviluppo degli individui compatibile, e gli “handicap” con l’obiettivo di una loro riduzione, ponendo una particolare attenzione alle reti sociali e ai ruoli professionali coinvolti (l’insegnante specializzato e l’educatore inteso come soggetto delle relazioni di aiuto). In vista della promozione umana, se diagnosi e cura intervengono sulla menomazione, la riabilitazione sulla disabilità, è l’educazione che si occupa dell’handicap, che può riguardare qualsiasi persona in un periodo più o meno lungo della propria vita, e combatte contro ogni stereotipo e pregiudizio. Una delle sue prerogative è lo stretto connubio tra aspetti teorici e aspetti pratici; infatti come dimostra il suo mito fondatore, le persone che hanno bisogni particolari legati a un deficit, vanno vissute e frequentate da vicino e integralmente, nella loro complessità, affinché la ricerca possa evolversi e si possa sperimentare e monitorare, e in prospettiva raccogliere, in una sorta di memoria storica, le buone prassi rispetto a una realtà plurale e comprensiva, in collaborazione con altre scienze (quali le pedagogie, le psicologie, la medicina clinica e riabilitativa) e le varie professioni di riferimento. Dunque non una scienza isolata e chiusa nella torre eburnea dell’accademismo, ma una disciplina pratica, operativa, efficace, che studia come realizzare la presa in carico, la cura e l’aiuto delle persone con bisogni educativi speciali.

Lo statuto epistemologico della pedagogia speciale infatti si basa proprio sull’emergenza di un “bisogno educativo speciale”, e si caratterizza per la sua natura aperta e complessa che la spinge a ricercare sempre possibili soluzioni mirate a migliorare ogni giorno le situazioni di handicap e deficit nell’ottica della integrazione. Lo scopo della cura educativa consiste infatti nel promuovere una migliore qualità dell’esistenza valorizzando le potenzialità di ogni singola persona.

E’ dunque una scienza di ricerca scientifico – operativa le cui conoscenze hanno il loro valore per il significato nascente dalla connessione alla logica dell’integrazione delle diversità, si occupa dell’agire sociale delle persone ed è di natura sistemica e “istituzionale” in quanto il suo raggio di azione si configura come una rete “radicata” che coinvolge più soggetti tra loro cooperanti (scuola, famiglia, asl, enti sociali, contesti extrascolastici). Al centro ci deve essere sempre l’identità personale del soggetto con i “bisogni educativi speciali”, supportato e facilitato a essere nelle condizioni di sapersi raccontare rispetto all’unicità della propria storia, dunque riconosciuto dall’altro da sé, e di conquistare l’autonomia personale nell’essere e nell’agire, la libertà e l’adultità possibile in vista della costruzione dell’identità personale, e realizzare il proprio percorso verso l’integrazione e l’inclusione. La pedagogia speciale, dunque, si caratterizza per l’approccio positivo alla diversità, valorizzando ogni soggetto con le proprie differenze individuali, andando oltre il deficit certificabile, occupandosi significativamente delle esigenze formative della singola persona. Pertanto l’oggetto di indagine è la risposta a livello educativo – formativo ai bisogni educativi speciali, ai problemi delle diversità derivate dalla presenza di deficit, per produrre risposte speciali a problemi specifici in ampi contesti e all’interno di relazioni sociali sempre più vaste e valorizzanti la diversità, tramite interventi educativi speciali, tramite una progettazione finalizzata alla individualizzazione/personalizzazione dei percorsi formativi scolastici ed extrascolastici.

La sua principale finalità consiste nella riduzione dell’handicap, ovvero, nell’adeguata socializzazione del deficit e nella valorizzazione del potenziale educativo di ogni soggetto che trova compimento nella sua integrazione. La pedagogia speciale, come pedagogia della diversità e della complessità, finalizzata alla riduzione dell’handicap si preoccupa dunque di dare delle risposte qualificate in termini educativi e formativi ai bisogni formativi speciali. In questa prospettiva si pone anche la didattica speciale, intesa come didattica specifica, nel senso che, come afferma Canevaro, “gli elementi di didattica generale vanno riformulati ed adattati alla didattica che quei soggetti e quella situazione presentano ed esigono”. La didattica speciale ha come compito principale quello di definire le strategie insegnative e apprenditive specifiche per soggetti in situazione di handicap, in situazione di svantaggio socioculturale, affinché questi diventino autonomi nel pensiero e nell’azione. Quindi si concretizza nell’adozione di un insegnamento individualizzato capace di organizzare un’istruzione articolata in relazione alle esigenze apprenditive dei singoli alunni.

 

 

 

 

  1. I bisogni educativi speciali

 

I bisogni educativi speciali possono essere espressi da un soggetto quando la capacità di apprendimento, in uno specifico ambito o rispetto a una o più competenze, si rivela problematica arrecandogli dei danni più o meno gravi. La problematicità può essere di tipo globale o pervasivo come nel caso del ragazzo autistico, o specifica (dislessia, disgrafia, discalculia), o settoriale (disturbi del linguaggio, del comportamento, da deficit attentivi con iperattività, da deficit motori, cognitivi), permanente o transitoria; e innumerevoli possono essere le cause (organiche, psicologiche, familiari, socio-culturali). Possono presentarsi casi di svantaggio e deprivazione sociale, diversità etniche e culturali, difficoltà familiari, difficoltà psicologiche, difficoltà di apprendimento legate all’ambiente socio-culturale di appartenenza o alle caratteristiche familiari. Possono esserne causa anche la qualità dell’istruzione scolastica e le caratteristiche del soggetto per fattori emotivo – emozionali. La “specialità” di tali bisogni non ha un’accezione negativa né valore di diagnosi-destino in quanto rimanda a uno stato nel quale tutti, in un qualsiasi momento della propria vita, ci si può ritrovare senza per questo dover rinunciare alla personale ricerca di autonomia, di relazione e di socializzazione, di acquisizione di abilità e di competenze soprattutto sociali. Quello di cui gli alunni con bisogni educativi speciali necessitano, sono interventi individualizzati che si traducano in opportuni e adeguati piani educativi e progetti di vita, ma anche, a seconda dei casi, di particolari attenzioni psico – educative perché non sempre è una diagnosi psicologica o medica a comunicarne il bisogno. Affinché questo sia possibile, deve avvenire in un contesto di integrazione e di inclusione, in una relazione educativa che presupponga la presenza di chi questi bisogni è disposto a riconoscerli e a prendersene carico. Oggi la scuola, e nella scuola gli insegnanti sia specializzati che curricolari, è responsabilmente chiamata a saperli riconoscere e a mettere a loro disposizione le risorse necessarie per fornirne le risposte più adeguate. Grazie ai progressi registratisi in ambito legislativo ma anche a livello storico-sociale, è mutato il significato di salute/ malattia. L’OMS, dal 1948 al 1986 ha proposto diverse definizioni, indicando inizialmente la salute come uno stato e poi come un processo. Lo “stato” è per definizione qualcosa di statico, di dato a priori, qualcosa verso cui tendere ma che rimane immutato, qualcosa che non varia al mutare della persona. Per “processo” si intende invece l’insieme di fatti e fenomeni aventi fra loro un nesso. Pertanto la salute, per sua natura, non può che essere un processo in divenire. Il fine, in questo caso, è il benessere a livello fisico, cognitivo, psichico, affettivo e sociale che non dipende solo dal soggetto ma, molto spesso, soprattutto dall’ambiente in cui vive. L’OMS definisce nel 1986 la salute come un processo in costruzione in cui è il soggetto in prima persona a definire cosa sia “normale”, ossia cosa sia per lui “benessere”. Quando vi è difficoltà a goderne, è prevedibile la comunicazione di un bisogno educativo speciale. Decadono pertanto le obsolete e limitanti definizioni di menomazione, disabilità ed handicap precedenti a partire dal processo di revisione dell’ICIDH del 1993 che sfocia in due nuove bozze del 1997 e 1999, per poi essere integrata dall’ICD-10 e dall’ICF. L’ICF (Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute) sancisce una svolta nel processo di revisione del concetto di disabilità e raggruppa gli stati funzionali associati alle condizioni di salute, a livello corporeo, personale e sociale. Appunto, anziché parlare di disabilità e patologia, parla di salute in un’ottica globale/disabilità, e di funzionamento delle persone, per le quali indispensabile è, assieme allo stato delle condizioni fisiche e ambientali, non rinunciare all’autostima, l’identità, la motivazione, lo stare con gli altri (integrati e inclusi) con attività personali e partecipazione sociale. L’ICF fornisce una sorta di mappa che documenta le diverse situazioni di difficoltà degli alunni utilizzando termini neutri, non ideologici e volti in una prospettiva positiva e propositiva. “Speciale” dunque, oltre che “specializzato” deve essere l’insegnante nel saper favorire l’integrazione scolastica di alunni disabili e l’inclusione di alunni con bisogni educativi speciali, aventi diritto a esprimere la diversità del proprio modo di essere e di vivere in quanto “persone”, mettendo a loro disposizione interventi educativo – didattici adeguati alle caratteristiche individuali (da distinguere dagli itinerari di apprendimento individualizzati e personalizzati invece destinati a chi esprime bisogni educativi specifici o particolari ma non legati a situazioni di disabilità e di handicap, comunque bisognosi di risposte educative efficaci).

 

  1. La progettazione individualizzata nell’ottica della «speciale normalità»

 

Se si osserva che un allievo apprende con difficoltà, sarà ridotto per quell’allievo il livello dell’attesa, senza preoccuparsi di esplorare le cause che fino a un certo momento gli hanno impedito di conseguire risultati migliori. […] Se da un allievo ci attendiamo poco, è probabile che otterremo ancora meno”. Vertecchi fa riferimento all’ “’effetto Pigmalione”, noto anche come effetto Rosenthal, derivante dagli studi classici sulla “profezia che si autorealizza”: se gli insegnanti credono che un alunno sia meno dotato, lo tratteranno, anche inconsciamente, in modo diverso dagli altri; il soggetto interiorizzerà il giudizio e si comporterà di conseguenza; si instaura così un circolo vizioso per cui l’alunno tenderà a divenire nel tempo proprio come l’insegnante lo aveva immaginato. Ma perché un alunno può riscontrare difficoltà di apprendimento? Qual è la sua storia personale? Qual é il suo stile di apprendimento? Lo stile cognitivo? Il tipo di personalità? Lo stile linguistico? Quello comunicativo in generale? Ha difficoltà emotive? Relazionali? Assume comportamenti problematici? Le cause sono personali? Legate al contesto? La spia del problema è l’attenzione? La proibizione? La minaccia? L’attacco alla persona? L’incoerenza? L’insegnante di fronte a bisogni educativi specifici o particolari deve andare oltre la “percezione”; altro è l’osservazione e l’empatia. Deve garantire una relazione di aiuto che va ben oltre quella prettamente didattica, educativa, pedagogica. Deve anzitutto avere fiducia nelle potenzialità di ogni singolo alunno, presenti sempre in chiunque, malgrado le difficoltà, e comprendere lo scarto tra ciò che è in grado di fare da solo e ciò che riesce a fare se supportato dall’insegnante e da altre figure di riferimento, compagni di classe compresi. Ovviamente questo può avvenire solo all’interno di un’organizzazione aperta e favorevole al riconoscimento delle diversità, alla integrazione e alla inclusione, e non certamente classificando e categorizzando i soggetti per disturbi e deficit. Pertanto fondamentale è l’azione realizzata strategicamente sul contesto e sulla rete sociale, con l’obiettivo di migliorare le prestazioni del soggetto in questione senza la pretesa o l’illusione di risolvere il deficit, di eliminare ogni forma di dipendenza e promuovere l’autonomia, di sviluppare quelle abilità sociali che potrebbero in seguito maturare in competenze laddove si riveleranno spendibili in situazioni diverse dal contesto nel quale sono state apprese. L’insegnante deve conoscere l’alunno integralmente e olisticamente per poter valorizzare le potenzialità e avere una considerazione in positivo delle sue difficoltà, e poter definire il progetto educativo costruito sui vertici dell’essere, della possibilità e del dover essere. C’è una netta differenza tra l’individualizzazione (il dare a tutti, in modo diverso, lo stesso, che è uguale e ripetibile: obiettivi comuni) e la personalizzazione (l’aiutare ciascuno a costruire il proprio, che è unico e irripetibile: obiettivi differenziati). La prima mira alla alfabetizzazione culturale, dunque alla uguaglianza delle possibilità per costruire le competenze fondamentali, la seconda è finalizzata allo sviluppo delle potenzialità, alla valorizzazione delle differenze per l’eccellenza cognitiva. La progettazione individualizzata implica il superamento e l’abbandono del didattismo che prevede un modello unico di alunno, il pensiero convergente, all’interno di uno spazio educativo rigido e in classi chiuse con insegnante unico; l’approccio deve essere centrato sull’apprendimento, tenendo conto che ogni soggetto è portatore di una storia e di un vissuto personale, riconoscendo la risorsa del pensiero divergente e degli stili cognitivi differenziati. Plurali devono essere anche gli spazi educativi. Il modello di riferimento deve essere quello ecologico – sistemico: il soggetto è considerato sulla base della intelligenza, dell’ambiente e della storia di vita. Variabili caratteristiche dei differenti modelli sono il tempo, il tipo di verifica, la valutazione. La dimensione formativa garantisce il superamento di qualsiasi situazione contraddistinta da difficoltà solo se i percorsi offerti sono mirati e differenziati, e finalizzati allo sviluppo di potenzialità e capacità in rapporto ai processi di apprendimento e ai processi motivazionali del singolo alunno. La scuola, tramite la progettazione individualizzata, deve promuovere l’adattamento, inteso come processo di maturazione e di apprendimento all’interno del quale il soggetto ha messo in atto un cambiamento in positivo, acquisendo abilità di espressione del sé, di comunicazione, di affermazione del sé, di soluzione di problemi interpersonali.

La progettazione realizzata dagli insegnanti, a partire dall’analisi della situazione di partenza, deve prevedere la definizione degli obiettivi, la selezione dei contenuti, la scelta e l’organizzazione di metodi e di attività, la scelta e l’organizzazione di materiali e di strumenti, la realizzazione dell’intervento, la valutazione. Inoltre deve prevedere, laddove se ne presentasse la necessità, attività di consolidamento, attività di recupero, attività di approfondimento, attività di sostegno, attività compensative, attività di arricchimento, attività diversificate in relazione più che ai livelli, alle identità personali e socio-culturali dei singoli alunni. In sintesi, è solo attraverso una programmazione individualizzata che l’insegnante specializzato può costruire la “speciale normalità”, arricchendo tecnicamente la normalità delle attività tenendo conto di aspettative, obiettivi e prassi di ogni alunno, ai fini dell’apprendimento e della integrazione., adattando metodi, materiali, mediatori e situazioni didattiche, valorizzando i compagni di classe, la scuola, il territorio, sulla base di specifiche domande: chi insegna? Su cosa si lavora? Come si apprende? Come si interviene sui comportamenti problema? In una sola parola: EDUCARE.

  1. L’insegnamento individualizzato

 

In questa logica è un dato ormai consolidato in letteratura la necessità dell’adozione di un insegnamento individualizzato. La stessa recente normativa scolastica recepisce tale indicazione e dispone la redazione dei cosiddetti PSP, Profili di Studio Personalizzati. L’insegnamento individualizzato consiste nell’adattare l’insegnamento alle caratteristiche individuali degli alunni, nel rispetto dei diversi ritmi di apprendimento, dei diversi stili cognitivi, delle diverse intelligenze, organizzando contesti educativi e didattici flessibili e ricchi di opportunità di realizzazione personale, al fine di garantire un’uguaglianza delle opportunità formative. Nell’insegnamento individualizzato rientrano tutte quelle strategie individualizzate/opzioni didattiche che, partendo dai bisogni reali dei singoli allievi, strutturano percorsi di insegnamento/apprendimento in grado di modificare le situazioni di svantaggio, differenziando gli interventi per dare di più a chi ha di meno. Se, infatti, la scuola trattasse tutti gli alunni allo stesso modo, non farebbe altro che riprodurre le differenze di partenza; occorre, invece, che, in un’ottica di valorizzazione delle diversità, sappia fare parti disuguali per garantire una sostanziale equivalenza di risultati, divenendo così una “scuola uguale per tutti ma diversa per ciascuno”. Pertanto è necessario prevedere percorsi didattici articolati, in cui gli obiettivi sono gli stessi per tutti gli alunni anche se possono variare i loro livelli di conseguimento, e percorsi didattici differenziati, in relazione sia agli obiettivi che alle metodologie e alle tecnologie. Quando in classe gli alunni disabili, svantaggiati ed eccellenti sono impegnati rispettivamente nelle attività di sostegno, compensative, di arricchimento, gli altri alunni, i normodotati, possono essere impegnati in specifiche attività di consolidamento e di approfondimento.

6.     Le strategie

 

Tra le possibili strategie, fondamentali sono i tipi di insegnamento mediato da pari, i metodi cioè collaborativi che facilitano l’aiuto reciproco, la coesione sociale e l’imparare insegnando, dunque consentendo al disabile la reale integrazione: Cooperative Learning; Brainstorming;Tutoring; Peer Teaching. Il lavoro di gruppo (Cooperative Learning) rappresenta il luogo privilegiato delle relazioni interpersonali e rappresenta un’occasione per comunicare, apprendere e produrre. Il lavoro di gruppo ha lo scopo di incrementare qualitativamente l’attività dei singoli, favorendo la socializzazione e la soddisfazione di esigenze emotive, quali ad esempio, il bisogno di difendersi dall’ansia, di riuscire a collaborare, di trovare sicurezza, di essere accettati. Nel gruppo, ciascuno partecipa secondo il proprio stile personale e ciascuno rappresenta un’occasione di stimolo e di verifica per gli altri (Vygotskij). Al centro del gruppo vi è la ricerca, in quanto è all’interno del gruppo che sono individuati i problemi, formulate le ipotesi e verificati i risultati. In questo contesto, il compito dell’insegnante diventa quello di coordinare il lavoro e di organizzare le attività, di favorire lo sviluppo delle dinamiche positive funzionali alla coesione del gruppo e di filtrare quelle negative. Il lavoro di gruppo, mai lasciato al caso, prevede una progettazione delle attività, organizzando in maniera flessibile i tempi e gli spazi, predisponendo mezzi e materiali utili per la strutturazione delle attività di gruppo. Il Braistorming (la tempesta del cervello) consiste nel richiedere agli alunni di intervenire liberamente senza preoccuparsi di dire cose esatte o meno su una domanda – stimolo, proposta dall’insegnante. Questa strategia è utilizzata allo scopo di esplicitare la matrice cognitiva, ovvero il quadro delle conoscenze possedute dagli alunni, prima fase della programmazione per concetti. Il Tutoring è una strategia particolarmente efficace per favorire l’integrazione degli alunni in situazione di handicap. Consiste nell’affidare a uno o a più alunni specifiche responsabilità di tipo educativo e didattico. Si articola in diverse fasi: la preparazione specifica dei tutors; la simulazione dell’esperienza in una situazione controllata con la supervisione dell’insegnante; l’attuazione dell’esperienza;il feedback immediato (diario di bordo); la messa a punto di eventuali modifiche per interventi successivi; la rotazione dei tutors.

Questa strategia ha promosso uno spirito collaborativo molto produttivo, consentendo al tutor di imparare insegnando, agli alunni affidatigli di ricevere un’istruzione individualizzata, al docente di avere più tempo per gestire il rapporto educativo globale. Il Peer teaching consiste nell’affidare la realizzazione di compiti a studenti che sono alla pari come capacità cognitive. Gli alunni sono divisi in piccoli gruppi, discutono e formulano ipotesi.

 

  1. Disabilità e Progetto di vita: la promozione dei ruoli sociali adulti, aspetti psicologici e adultità

 

Prendendo in esame la disabilità nella sua connotazione biologica e sociale, occorre studiarne le funzioni psichiche, sposare una visione olistica del soggetto che la vive, cogliere le sue interdipendenze con l’ambiente e le tematiche psicologiche in corrispondenza delle fasi evolutive, perché persona e deficit non sono la stessa cosa, la persona disabile non si identifica con i suoi problemi. Infatti per comprendere integralmente la disabilità, occorre relazionarla ai contesti di vita (famiglia, scuola, mondo del lavoro), e non solo alla diagnosi e alla riabilitazione. Occorre inoltre che congiuntamente, in stretta e propositiva collaborazione, figure professionali sociali, della sanità e della scuola, e famiglia, concorrano alla progettazione di puntuali e individualizzati percorsi educativi e riabilitativi (a partire dal PEI) e alla costruzione del progetto di vita della persona disabile come sua proiezione “adulta” nel futuro. Come sottolinea Ianes, deve essere un “equilibrato funzionamento collettivo” garantito dagli interventi educativi, sociali e riabilitativi, finalizzato a migliorare la qualità della vita del disabile e al raggiungimento dell’autonomia. Nelle prime fasi di vita, infatti, il bambino è completamente dipendente dai suoi genitori, ma negli anni deve acquisire le abilità necessarie per condurre una vita il più possibile autonoma. L’autonomia, oltre ad essere la base per avere rispetto e stima in se stesso, è il pre-requisito per il processo di integrazione e di inclusione della persona. Comprensibili sono le difficoltà che incontrano i genitori di un figlio disabile al momento della sua nascita: possono provare sentimenti di shock e di delusione, perché quel bambino è diverso da quello desiderato e immaginato; ma tra incredulità, protesta, rabbia, disperazione o sensi di colpa, all’elaborazione del lutto devono seguire l’accettazione e l’adattamento. Realizzando e riorganizzando il proprio progetto di vita, devono imparare ad accettarlo e soprattutto devono pensarlo capace di diventare grande, nutrire aspettative per il suo futuro, sorreggendolo nei progressi e accettandone gli insuccessi, evitando di sostituirsi o di iper – proteggerlo, pena l’infantilizzazione e l’iper – protezione, con un’impossibilità per il soggetto di sperimentare la sua vita da “grande” e maturare, nell’assunzione di ruoli sociali adulti, la propria “adultità possibile”. Una tappa importante, ma al tempo stesso molto delicata, è l’adolescenza, fase durante la quale il disabile si trova tra due mondi: da un lato il mondo familiare, protettivo che lo sostiene e di cui non può fare a meno, dall’altro gli amici, i coetanei che “rivendicano” continuamente la propria indipendenza. I genitori devono saper gestire questa altalena, accompagnando il figlio nel mondo dei grandi e non considerarlo un “eterno bambino”. “La famiglia diverrà depositaria dinamica del possibile, sarà uno stabile sostegno del poter essere”, ossia fonte di risorse per la crescita del bambino diversamente abile se saprà garantire “distanziamento educativo” e “separazione” fino al conseguimento di una sua identità stabile e adulta. La maniera più efficace e concreta per farlo, è prevedere per lui prospettive di emancipazione e di indipendenza, amarlo e desiderare vederlo crescere, evolvere, migliorare la propria autostima: sviluppare al meglio le sue risorse in funzione del miglior progetto di vita possibile. Accompagnare il figlio alla propria autonomia e indipendenza è il miglior modo, dunque, per progettare il “dopo di noi”. Si può iniziare a farlo intervenendo su aree educative in vista di un’autonomia, affinché “impari a cavarsela” a partire dall’abbandono della logica del “mi aiuti” a favore dell’incarico e dell’assunzione di ruoli sociali anche molto semplici: la comunicazione, l’orientamento, il comportamento stradale, l’uso del denaro, l’uso dei servizi e dei mezzi di trasporto, la frequentazione di corsi operativo – laboratoriali all’interno dei quali possa esperire in termini di saper fare e saper essere, mettendo alla prova abilità e capacità, in seguito spendibili anche nel mondo del lavoro, la gestione degli spazi in casa, l’uso del telefono e del cellulare.

Ovviamente la famiglia non può farcela da sola ma va sostenuta, sviluppando e tenendo attiva una rete di comunicazione e di servizi validi e competenti in modo preventivo, dai primissimi anni di vita del disabile perché “la condizione adulta si costruisce nell’infanzia. Perché ci sia un buon viaggio esistenziale, bisogna che ci sia una buona partenza”; l’età adulta deve essere preparata sin dalla nascita tramite percorsi educativi, affettivo – relazionali, esperienziali che mirino a rispondere ai bisogni di normalità dell’infanzia, base per un’adeguata risposta ai bisogni di normalità riscontrabili in età adolescenziale e adulta. La vita adulta è una fase in cui si possono raccogliere i frutti del lungo percorso che ha accompagnato la vita del disabile e quella dei suoi genitori, se si è fatto riferimento in questo lungo cammino ad un progetto di vita. Progettare non significa prevedere il futuro, ma individuare gli obiettivi da raggiungere, i possibili ostacoli, le strategie e i passi da compiere per giungere allo sviluppo di tutte le potenzialità che un soggetto possiede. Il progetto non si deve basare su semplici ipotesi prive di fondamento, ma è opportuno considerare tutte le caratteristiche dell’individuo e gli aspetti dell’ambiente in cui vive. È partendo da queste dimensioni che si può pensare ad un progetto di vita in cui si ponga come protagonista, con il supporto di genitori, fratelli, medici, psicologi, educatori, terapisti. Il progetto di vita, infatti, deve partire dalle esigenze e dalle aspettative della persona a cui il progetto è rivolto, e non viceversa. Il progetto di vita deve iniziare dalla nascita e percorrere tutte le tappe della sua esistenza, individuando ciò che è utile al soggetto, al suo benessere e al miglioramento della qualità della vita. “Il progetto di vita…è una costruzione che si realizza giorno per giorno non per una persona, ma con una persona, che può essere abile o diversamente abile, mettendo a frutto tutte le risorse delle reti sociali che il territorio offre e sollecitando il nascere di ulteriori occasioni quando queste si dimostrino deficitarie”.

 

  1. Affettività, sessualità, integrazione sociale: il ruolo della famiglia e della scuola. Azioni congiunte e prospettive reticolari.

 

L’integrazione sociale è determinante nella qualità della vita di ciascuna persona, perché consente di sentirsi parte della comunità, di vivere e condividere esperienze emotive e cognitive con gli altri, che tra l’altro svolgono un ruolo decisivo nel processo di costruzione del sé. Integrare significa “promuovere la persona dell’altro ad essere se stessa, a mantenere la sua identità e ad espandersi progressivamente verso un rapporto d’intimità, d’amore e di collaborazione”. L’integrazione sociale delle persone disabili ha negli ultimi anni raggiunto buoni risultati in vista del raggiungimento della autonomia. Certamente la mediazione operata dagli insegnanti è in grado di trasformare l’inserimento in integrazione poiché l’educazione permette lo sviluppo sano e corretto della personalità. Durante l’infanzia e la fanciullezza, la costruzione della personalità del soggetto si relaziona con le figure adulte (genitori, insegnanti, figure educanti) mentre ancora secondario è il rapporto con i coetanei. A questa età, alla costruzione della personalità contribuiscono l’integrazione scolastica (che coincide con quella sociale se la famiglia non tende ad emarginare, per un senso di iper – protettività, il proprio figlio disabile), iniziative e ulteriori attività educative promosse dal mondo extrascolastico pur sempre mediate da figure specifiche (il lavorativo, il tempo libero, lo sport, l’associazionismo). Superata la fanciullezza però, le differenze tra normodotato e soggetto portatore di deficit si accentuano: a livello somatico, nella crescita corporea e nelle competenze motorie, emerge l’immaturità (con particolare riferimento alla sessualità); a livello psichico, i confini del sé non sono ben definiti e strutturati e spesso ne consegue un’organizzazione borderline della personalità. Spesso in maniera difforme e disarmonica procedono la maturazione affettiva, quella cognitiva e quella sociale. Durante la preadolescenza e l’adolescenza, in generale si rimodella e rinnova il processo di costruzione di identità della persona e significativamente importante è avvertita l’esigenza del confronto con i pari, i coetanei, il gruppo, e il distacco dalle figure genitoriali. Cambiano i bisogni e i comportamenti e spesso i genitori e gli educatori non sono preparati ad affrontarli. L’adolescente disabile vive con maggiori difficoltà questo periodo delicatissimo e problematico della propria esistenza; infatti consapevole del proprio deficit, avverte il confronto con l’altro da sé tutto in negativo, con senso di inferiorità; la diversità diventa fattore di ansia, angoscia, senso di inadeguatezza e vulnerabilità. Fondamentale è l’intervento congiunto della famiglia e della scuola in quanto principali agenzie educative, perché l’educazione può fungere da incremento all’identità dei soggetti in formazione e migliorare le abilità sul piano affettivo, cognitivo, relazionale, comunicativo, comportamentale. Il periodo adolescenziale rappresenta un punto critico per l’integrazione scolastica e sociale: gli adulti devono capire come mediare passaggi così delicati tanto da configurarsi come snodi per lo sviluppo successivo; devono mettere a punto approcci, strategie, percorsi individualizzati con la consapevolezza di fungere da modelli di sviluppo, dunque di essere responsabili della strutturazione futura dell’identità dei ragazzi. Devono inoltre favorire l’adattamento inteso come processo di maturazione e di apprendimento a livello comportamentale (capacità di conformarsi alle norme sociali; riconoscimento e rispetto delle regole); sociale (capacità di sviluppare reti sociali); personale (capacità di ricoprire un proprio ruolo all’interno di un gruppo). Dunque scuola e famiglia, realizzando azioni congiunte e definendo prospettive reticolari entro le quali sono compresi anche il gruppo dei pari e l’extrascuola, devono costruire intese e sinergie a vantaggio della formazione e del progetto di vita delle persone diversamente abili, articolandolo in molteplici e diversificati sostegni e aiuti radicati nella rete eco-sistemica in cui il soggetto diversamente abile non solo manifesta i suoi bisogni, ma attivamente, utilizzando i personali potenziali, contribuisce a definire il possibile scenario di soluzioni (gli interventi psico-educativi possono essere realizzati da medici di base, ginecologi, psichiatri, psicologi, operatori dei servizi socio-assistenziali). Scuola e famiglia devono attuare interventi di prevenzione di forme di isolamento sociale, di stigmatizzazione (tra stereotipi e pregiudizi), di negazione di bisogni e desideri. Estremamente complesso e delicato è il discorso relativo alla sessualità: spesso il disabile vive, per estrema protezione da parte della famiglia, in una sorta di mondo ovattato, un limbo nel quale si muove come un essere asessuato e desessuato, un Peter Pan, come dalle fiabe condannato a non crescere mai, senza diritto di amare ed essere amato, costretto alla repressione e alla negazione del piacere. Malgrado gli innumerevoli progressi e le aperture culturali, purtroppo nel campo della sessualità sussistono tuttora numerose barriere; l’argomento sesso-amore per disabili, genitori e addetti ai lavori resta un tabù, argomento da scandalo, oggetto da condanna morale. Occorre distinguere con evidenza tra genitalità e sessualità perché non si banalizzi la sessualità a puro esercizio genitale o si possa credere che la soluzione al problema possa essere rappresentato dalla legittimazione del ricorso ripetitivo alla masturbazione e alla prostituzione. La sessualità implica creatività, ricerca del piacere, incontro tra due anime prima che tra due corpi, relazione, crescita, scambio, reciprocità. Nella sessualità convergono tante dimensioni fondamentali per la crescita e l’evoluzione della persona: biologica, cognitiva, emotivo -affettiva, comunicativo -relazionale, socio-culturale. Scuola e famiglia devono pertanto contribuire al miglioramento della qualità della gestione del tempo libero e dei contesti di inserimento, favorendo occasioni di incontri, interazioni sociali, relazioni interpersonali. Complessa è l’attuazione di programmi di educazione all’affettività e alla sessualità e la realizzazione di percorsi formativi -informativi: devono ovviamente essere individualizzati tenendo conto di specifiche abilità e specifici deficit, dei livelli di sviluppo e di maturazione raggiunti; se necessari, devono prevedere interventi anche repressivi e punitivi ma preferibili sono quelli che valorizzano gli aspetti emotivo -affettivi della sessualità. Nell’educazione alla sessualità, scuola e famiglia vanno coinvolte per prevenire l’iperprotezionismo, l’emarginazione e l’isolamento, devono capire come devono gestire le situazioni problematiche e come invece promuovere la maturazione psicologica globale dei disabili fino all’attivazione dei processi di integrazione scolastica, sociale e lavorativa. Come sottolinea Dixon, un buon programma di attività educative, deve far lavorare sulle capacità comunicative, le relazioni affettive, il linguaggio del corpo, l’autostima, la cura di sé, il senso di responsabilità, la contraccezione, l’igiene sessuale, la gravidanza, il parto, la genitorialità. Deve cioè essere un’educazione integrale, che abbraccia tutte le sfere della persona perché lo sviluppo sessuale non può prescindere dallo sviluppo della personalità nel suo insieme.

 

  1. Il profilo dell’insegnante per il sostegno

 

Secondo quanto previsto dalla legge 104/92 l’attività dell’insegnante di sostegno specializzato è rivolta alla classe in cui è iscritto un alunno in situazione di handicap. Insieme ai docenti della classe, identifica i bisogni educativi speciali dell’alunno e attraverso il gruppo operativo d’istituto, propone e costruisce, insieme alla famiglia, il piano educativo individualizzato dell’alunno. Ha anche il ruolo di facilitatore della comunicazione e della relazione tra i docenti, l’alunno in situazione di handicap, gli alunni della classe e altri soggetti interessati alla integrazione quali famiglia, personale ASL, educatori, assistenti all’autonomia e alla comunicazione, quanti insomma costituiscono le “reti di sostegno”. L’insegnante di sostegno, oltre ad assumere la contitolarità delle sezioni e delle classi in cui opera, partecipa alla programmazione educativa e didattica, alla elaborazione e alla verifica delle attività di competenza dei consigli di interclasse, dei consigli di classe e dei collegi dei docenti. Le azioni di cui è responsabile sono insegnare alla classe, individuare i bisogni educativi speciali dell’alunno diversamente abile e degli alunni, progettare e gestire. Inoltre è responsabile della realizzazione degli interventi, dell’esecuzione eseguire del monitoraggio in itinere, della proposta e della realizzazione delle modifiche al P. E .I. , delle azioni sulle relazioni, dell’attivazione dei processi comunicativi, della valutazione. In tal modo dunque assume la contitolarità. Per quanto riguarda la didattica, da ordinaria, come rileva Dario Ianes, deve farsi speciale, non attraverso ingredienti inafferrabili, magici e artistici, non riproducibili dai comuni mortali ma attraverso dimensioni operative precise, quali il riconoscimento delle differenze e la conoscenza dei bisogni educativi speciali, la progettualità individualizzata e aperta alla vita adulta, l’efficacia relazionale e cognitiva, la collaborazione tra i compagni di classe. Queste quattro dimensioni della didattica possono rappresentare anche le caratteristiche fondamentali del profilo professionale dell’insegnante per il sostegno che non deve mai dimenticare che …il punto vero non sta nell’integrare una particolare categoria di alunni nelle classi normali ma nel far crescere delle comunità scolastiche che rispondano ai bisogni educativi e sociali di ciascun alunno”.(Stainback e Stainback 1993) I compiti della scuola, e in particolare dell’insegnante per il sostegno, non possono e soprattutto non devono situarsi solo all’interno della relazione docente – alunno ma devono allargarsi al macrosistema: solo allora la scuola diventa, come sottolinea Andrea Canevaro, “una comunità di apprendimento” dove funzionano le “reti di sostegno”, in un sistema complesso di risorse coordinate per l’integrazione, in cui vi è incontro e collaborazione fra più figure educative di riferimento, interne ed esterne alla scuola, per rispondere alla molteplicità dei bisogni educativi di tutti gli studenti. E’ l’insegnante per il sostegno che per primo deve “munirsi di una filosofia” quella dell’integrazione e di una metodologia di lavoro. Il lavoro di rete consiste proprio in un modello d’intervento che si basa sull’integrazione e non sulla sovrapposizione di competenze e di professionalità, e comporta un coordinamento a più livelli, con una definizione precisa di ruoli, di metodologie e di responsabilità tra le diverse professioni coinvolte, e la condivisione e costruzione comune di obiettivi e di procedure. Questo è il compito necessario per costruire un intervento che, attorno alla metafora della rete, ricomponga le diverse risposte istituzionali e comunitarie nel rispetto dell’unità della persona con peculiari bisogni e potenzialità.

 

  1. La valutazione dell’attività didattica di sostegno per l’integrazione degli alunni in situazione di handicap.

 

Oggi la scuola è strutturata secondo una triplice dimensione, quella filosofica, quella dell’arte e quella della scienza. La dimensione filosofica è necessaria perché il docente riflette per sé e rileva nella pratica educativo – didattica un’idea di uomo. La dimensione dell’arte serve in quanto si deve far dialogare nello stesso tempo con sapienza e disinvoltura la padronanza delle discipline e la didattica insieme con la competenza comunicativa. La dimensione della scienza è fondamentale in quanto l’approccio didattico non è casuale ma progettuale, perché prevede un sistema di riferimento in funzione del quale si devono compiere delle osservazioni sistematiche, ipotesi di lavoro e di attuazione di percorsi da sottoporre ad una continua verifica con la necessaria documentazione per un ulteriore studio, interpretazione e ricerca. Pertanto l’insegnante è “colui che insegna, capace, cioè, dell’atto di mostrare e di tradurre la realtà in rappresentazione”; non è un semplice dispensatore di conoscenze ma è chiamato, insieme alla scuola, a ordinare e strutturare le conoscenze stesse; è decisivo a tal fine che, nella piena gestione del ruolo e delle funzioni che svolge, egli sia in grado di progettare e pianificare interventi educativi mirati, con efficacia ed efficienza, tramite l’attivazione di processi di apprendimento e di istruzione di qualità, di comunicazione e di relazione adeguati e flessibili (che siano di tipo reale, virtuale, mediato e indiretto), di osservazione scientifica e sistematica, e di conduzione e gestione di gruppi anche eterogenei, nella piena valorizzazione di tutte le persone componenti una classe. E’ dunque indispensabile saper organizzare un percorso didattico adeguato. L’operazione implica l’organizzazione dell’insegnamento e delle attività correlate lungo un segmento temporale che abbia un inizio ed una fine, laddove esso implica l’organizzazione di conoscenze ed apprendimenti lungo tutta la linea del percorso didattico. Il programma didattico deve includere l’identificazione di fini e mezzi; in termini operativi l’identificazione di singoli obiettivi e dei mezzi per raggiungerli; deve inoltre implicare la capacità di conseguire i fini che si perseguono nel percorso didattico attraverso la realizzazione di obiettivi raggiungibili operativamente. Si fa riferimento ovviamente a un intervento di tipo intenzionale, cioè capace di spiegare i comportamenti assunti tramite uno specifico sapere teorico multidisciplinare, che si avvale principalmente della conoscenza didattica ma anche di quella di psicologia dello sviluppo e pedagogica, e che miri a produrre un cambiamento, uno sviluppo in coloro che sono coinvolti e partecipano attivamente nella relazione che si pone tra l’insegnamento e l’apprendimento, rendendoli autonomi, in grado cioè di prendere decisioni e di agire con coscienza e responsabilità. Mettere in atto la capacità di dialogo e conoscere metodologie didattiche ed educative specifiche, aiuta l’insegnante a usare al meglio la sua professionalità per imparare a comunicare con la classe, ad attuare interventi efficaci. Infatti sarebbe erroneo ritenere che nel rapporto didattico apprende solo una parte (quella del discente o dello studente) mentre l’altra parte (già sapiente) si limita ad insegnare. L’esperienza insegna che un buon insegnante si forma dopo anni di pratica e che apprende dal suo “essere insegnante” a migliorare sia il rapporto con gli studenti che il proprio ruolo di didatta. Esistono complesse e diversificate teorie sull’apprendimento le quali hanno messo in luce come esso sia strettamente legato a un notevole numero di fattori che lo condizionano o ne costituiscono aspetti importanti, quali, per esempio, l’interesse, il bisogno, l’aspettativa, la motivazione, l’interazione, l’attenzione, la memoria, le capacità, la gratificazione. L’insegnante che vuole promuovere l’apprendimento dei propri alunni, più riesce a far leva su questi fattori, più riesce a ottenere buoni risultati. Tra l’altro un buon docente si pone anche dalla parte del discente per comprendere gli effetti e l’efficacia della propria “pratica” di docente. Se a tali scopi si pone come fondamentale, in termini di formazione, l’esperienza diretta che consente di realizzare e maturare all’interno della scuola, tramite l’osservazione e la partecipazione attiva alle attività didattiche scolastiche ed extrascolastiche, l’esperienza concreta e diretta la si fa ogni giorno, in ogni ambiente (lavorativo, scolastico, extrascolastico, sociale) se si possiede una spiccata sensibilità e un’analitica capacità di osservazione. Per un docente di sostegno è necessario vivere quotidianamente la realtà del disabile, non solo teoricamente, poiché solo il raffronto su campo e l’interazione consentono di acquisire nuovi elementi e maturare esperienza per affrontare meglio le situazioni critiche che si potrebbero riscontrare in futuro. Occorre inoltre considerare le potenzialità e le risorse che gli alunni, e in generale le persone disabili posseggono e che a volte palesano e altre volte è necessario facilitarne l’espressione: è fondamentale dare loro fiducia, sostegno, sicurezza, garantendo un apprendimento significativo graduale e continuo e sostenendoli nella crescita del loro essere persona, in vista di una integrazione e di una inclusione sociale a tutti gli effetti. Il cammino che una persona disabile deve compiere è lungo e faticoso, ma progettare la sua vita è un dovere cui tutti siamo chiamati per consentire loro una buona qualità della vita, che è la meta cui tutte le persone, con o senza disabilità, devono tendere: è il fine principale di qualsiasi progetto di vita. Anche la scuola non deve limitarsi agli aspetti didattici ma riferirsi ad una persona che sta diventando adulta e andare verso una vita autonoma il cui monito potrebbe essere “Pensami adulto”. Esiste dunque sempre una possibilità di vita adulta, autonoma e indipendente per le persone disabili. La scuola non deve dimenticarlo e si devono contrastare quelle pregiudiziali posizioni, quei comportamenti, quei modi di relazionarsi con i giovani, gli uomini e le donne con disabilità pensandoli eternamente bambini. Urgono progetti educativi dinamici, attenti ad elevare la qualità dei potenziali intellettivi, del sapere, della coscienza intenzionale rispettando la persona e la qualità della sua vita in relazione ai suoi bisogni fisici ed esistenziali; progetti finalizzati a valorizzare le diversità, le identità, l’originalità di ciascuno riconoscendole come risorsa, creando occasioni e appuntamenti per sviluppare le potenzialità cognitive e affettive. Dai lontani anni Settanta, dalla chiusura delle scuole speciali e l’inserimento degli alunni disabili nelle scuole normali, tra innumerevoli problemi legati all’inadeguata preparazione di docenti e dirigenti, molto tempo è passato e molte conquiste sono state fatte. Oggi la situazione è molto cambiata ma per garantire la vera integrazione c’è ancora molta strada da percorrere: integrare non vuol dire assimilare l’identità del gruppo nel quale il soggetto è inserito ma “è persona integrata quella persona che conserva una propria identità diversa dalle altre e con il suo posto nel gruppo”. Occorre riflettere sulla complessità del ruolo del docente che opera con delicatezza e responsabilità su un sistema dinamico di variabili muovendosi sul piano delle risorse umane; educare un ragazzo all’interno della scuola significa considerarne la persona nella sua interezza e nel suo vissuto personale e familiare, dunque saper ricorrere a varie forme di educazione ecologica globale e integrale. La presenza di alunni “speciali” nelle classi costituisce una preziosa “occasione” perché la scuola cambi e si ripensi come strumento di successo formativo per tutti, apportando vantaggi per i disabili, tutti gli alunni della classe e l’intera comunità scolastica ed extrascolastica e cercando sempre di conciliare armonicamente le esigenze didattiche di individualizzazione e quelle relazionali di socializzazione, pena nuove forme di emarginazione, impegnandosi non nel “fare altro” ma nel “farlo in altro modo” in vista della valorizzazione della “speciale normalità”.

 

  1. Bibliografia

 

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  1. Di Nicola V., “Persone con disabilità’ verso i ruoli sociali adulti: identità’ e risorse” in L’integrazione scolastica e sociale, vol. n. 6/2, Erickson, Trento, 2007

 

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  9. Rosenthal R. , Jacobson L., 1992, Pygmalion in the classroom, Expanded edition, Irvington (New York)
  10. Rubaltelli M. M., La diversità è la vera opportunità, 2005

[1] PAMELA BIANCO, laureata in lettere moderne, abilitata e specializzata, è docente a t. i., esperta di didattica delle diversabilità. Il presente testo è la rielaborazione di un suo lavoro sull’integrazione dei diversabili