L’egemonia della cultura pubblicitaria sull’educazione e il suo auspicabile declino

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L’egemonia della cultura pubblicitaria sull’educazione e il suo auspicabile declino

di Federico Repetto

 

È molto tempo che è stato abbandonato il dibattito sul presunto potere, da parte dei media, di manipolare il pubblico. Tra le altre, la scuola (marxista) di Birmingham ha mostrato decenni fa come il pubblico sappia ricodificare (reinterpretare) i messaggi secondo le sue esigenze. Ma si parla in genere di un pubblico adulto e unito in comunità culturali coerenti (come i giamaicani neri in Inghilterra, o la classe operaia di una volta). Non del pubblico dei bambini e ragazzi degli anni ottanta, dopo una sconfitta operaia epocale e in un contesto di crisi culturale e politica della sinistra.

Ma neanche in questo caso (che ora affronteremo) il termine “manipolare” è pertinente. Il termine pertinente per i minori è “educare”: quando le ore di tv sono superiori alle ore di lezione, è ovvio che la tv diventi un’importante agenzia educativa, aiutata dalla sua capacità di fornire una gratificazione immediata, mentre la scuola promette solo una gratificazione differita – una promozione sociale, l’accesso a un livello più alto del mondo del lavoro. Promesse che già negli anni ottanta sembravano poco credibili, e poi sempre meno. Ma essere un’agenzia educativa (in questo caso la principale, in competizione anche con famiglia e Chiesa) non rende onnipotenti: l’educazione è sempre un’impresa a rischio, minacciata dalle circostanze più imprevedibili, e in particolare dalla coeducazione tra pari.

Parleremo ora prima dell’apogeo della vincibile egemonia della tv commerciale e poi del suo già iniziato declino.

 

Negli anni della neotelevisione aumenta fortemente la propensione al consumo e l’attenzione alla pubblicità

Il tema del consumismo e della pubblicità soprattutto televisiva come suo fattore propulsivo è stato al centro di grandi polemiche nelle scienze sociali fino alla fine degli anni 70. A partire dagli anni 80, con la diffusione pervasiva del pensiero unico neoliberale, la discussione sui temi di questo tipo è stata praticamente messa da parte.

Contemporaneamente in Italia la “propensione al consumo” aumenta progressivamente e velocemente. L’agenzia Eurisko (oggi Gkf) l’ha monitorata a beneficio degli inserzionisti. Un suo sondaggio del 1993 ci mostra che vari indici di consumismo (impulsività negli acquisti, ricerca dell’ostentazione, piacere nel guardare le vetrine, tendenza ad acquistare cose inutili, o a comprare prodotti nuovi, amore per lo shopping, ecc.) decrescono sensibilmente con l’età: nel confronto tra i ragazzi di 14-17 anni (cresciuti con la neotelevisione) e gli anziani di oltre 64 anni, alcuni indici si riducono ad un terzo o ad un quarto, e tutti hanno una variazione collegata all’età per tutto l’arco demografico considerato: più si è giovani più si è consumisti (Giovani, consumi e consumismo, «Social Trends», 1993, n° 62; per tutti gli altri dati citati in questo articolo cfr. la nota finale).

Se invece guardiamo il primo sondaggio nazionale Eurisko del 1976 troviamo nelle risposte una forte diffidenza verso la pubblicità, le grandi marche, i prodotti industriali, ecc. Gabriele Calvi, il fondatore dell’agenzia, più tardi ha ricordato gli anni ’70 come un’oscura parentesi dopo l’età dell’oro consumistica del periodo pre-’68, tuttavia nella diffidenza del 1976 c’è non solo l’influenza del clima anticapitalistico sessantottino, ma probabilmente anche tracce di una sospettosità contadina o piccolo borghese nei confronti dei grandi oligopoli industriali. Sospettosità che il precedente boom economico forse non aveva eliminato del tutto.

Commenta Calvi nel 1976 (Valori e stili di vita degli italiani. Indagine psicografica nazionale 1976, Isedi, Milano, 1977):

[…] In definitiva, è oggi il 45% degli italiani che preferisce il supermercato al piccolo negozio…

Il grande magazzino ha un’immagine e una desiderabilità più scialbe… due terzi sono netti nell’affermare che non si fiderebbero ad acquistare cose importanti nei grandi magazzini (70%).

Rilevante negli anni ’80-’90 è anche il fenomeno della crescita dell’“attenzione per la pubblicità”: secondo gli indicatori di Eurisko, essa è aumentata quasi ininterrottamente dal 1986 almeno fino al 1995, per un totale del 30% di aumento. Naturalmente, per quanto riguarda la tv, ciò non esclude che molti spettatori che guardavano gli spot lo facessero soprattutto per ragioni estetiche, visto che in questo periodo la pubblicità inventa nuovi linguaggi – e i giovani, destinatari privilegiati, riuscivano meglio degli altri a decifrarli e ad apprezzarli. E non esclude nemmeno che qualcuno di questi giovani esteti andasse alle gigantesche manifestazioni per la pace e l’ambiente. Gli anni ottanta sono un periodo di straordinaria mobilitazione ecopacifista e l’egemonia non è un dato statico e non copre come un tappeto l’intera società.

È interessante la coincidenza tra la crescita parallela dell’“attenzione per la pubblicità” e la propensione al consumo delle giovani generazioni. La cosa è tanto più significativa se si ricorda che l’Italia negli anni ottanta ha avuto il più rapido incremento delle spese pubblicitarie del mondo occidentale avanzato (partendo da un livello molto basso della percentuale di tali spese sul Pil) e, insieme, la crescita più rapida e sregolata delle televisioni commerciali. E tale crescita ha portato alla percentuale di spot più elevata dell’occidente e all’invasione dei programmi da parte delle sponsorizzazioni.

Per concludere citiamo l’opinione trionfalistica del berlusconiano Pilati, nel 1987 (Il nuovo sistema dei media, p. 26):

L’evasione degli spot resta limitata, secondo ricerche specializzate, a quote minoritarie (circa il 30%). Gli atteggiamenti di rifiuto della pubblicità, vivi durante gli anni ’70 in sintonia con il clima ideologico, si dissolvono progressivamente proprio in coincidenza con l’incremento della comunicazione d’impresa e cedono il posto ad un diffuso e partecipe interesse (in alcune fasce, soprattutto giovani, la pubblicità ormai fa moda).

 

La cultura pubblicitaria neotelevisiva e l’educazione

Ma è possibile affermare che gli spot pubblicitari, di breve durata, spesso apprezzati solo per ragioni estetiche, e fissati su di un singolo prodotto, siano portatori di una cultura egemonica? In effetti è solo l’insieme dei palinsesti che può essere considerato una cultura, per quanto abbia contorni articolati e aperti. Tuttavia questo insieme, e in particolare i programmi-contenitore, è progettato per poter ospitare al meglio il messaggio degli inserzionisti.

È forse possibile farsi un’idea di quale sia il centro simbolico della cultura neotelevisiva leggendo le analisi pionieristiche di Francesco Casetti (Tra me e te, ed. Rai, 1988) sui riti neotelevisivi e sui programmi-contenitore. Secondo lui, la neotelevisione commerciale, di cui i “conduttori” sono i rappresentanti e i cerimonieri, entra nella nostra intimità domestica e nella nostra routine abituale, imita i rituali della vita quotidiana e li trasforma in modelli. Il “rituale del commercio” accosta dunque le immagini quotidiane del piccolo commercio al negozio all’angolo, o degli scambi di doni con gli amici, con quelle dello sponsor e della marca, e fa della comparsa dello sponsor un rito quotidiano. Si può aggiungere che questo procedimento serve a rendere accette la grande marca e la grande impresa per associazione (uno dei meccanismi psicologici più usati in pubblicità), associandole appunto con il piccolo commercio della nostra quotidianità: la neo-televisione è stata, si direbbe, il luogo della seduzione soprattutto dei ceti medi produttivi, e anche dei lavoratori con ambizioni di imprenditorialità o di autonomia, da parte dei grandi oligopoli capitalistici.

Quello del commercio è secondo Casetti il rituale dominante (insieme a quello dell’“incontro” e dell’”ospitalità”). Ovviamente tutti i rituali e i patti comunicativi della neotelevisione trattano lo spettatore assolutamente alla pari, come autonomo nelle sue scelte. Ma poiché i piccoli spettatori seguono anche i programmi per adulti, anche loro sono trattati come se fossero realmente autonomi e responsabili.

La tv dunque forma attraverso il suo linguaggio e il suo simbolismo, e costruisce, come direbbe Lakoff, i frame del suo pubblico. La sua azione naturalmente non è affatto irresistibile, se altri formatori alternativi propongono altri linguaggi e messaggi credibili. La sua efficacia è in relazione con la presenza educativa dei genitori o la loro assenza (per scelta di vita o per costrizione economica) e con la loro competenza mediatica, con l’influenza della scuola, del gruppo dei pari, della Chiesa, ecc.

 

Il nuovo millennio: calo della fiducia nella pubblicità e nella televisione

Già il Quinto Rapporto Censis-Ucsi sulla comunicazione in Italia, che paragona i dati del 2005 con quelli del 2001, individua un trend negativo per quanto riguarda la fiducia nella pubblicità da parte dei cittadini. Le opinioni negative sulla pubblicità (è invadente, alimenta una concezione consumistica della vita nei bambini, è diseducativa) aumentano per quasi tutti quanti i media nel periodo 2001-2006, mentre quelle positive (è una fonte insostituibile di finanziamento, aiuta nelle scelte di acquisto) per lo più diminuiscono. Il record negativo è detenuto nel complesso dalla tv. Nel caso specifico del fastidio per la sua invadenza, questo nel 2001 era al 47,2% per quanto riguarda la tv, e sale fino al 52,3% nel 2005, ma è proprio Internet che la batte, passando dal 42,5% al 57,8%.

Nel 2005 si ammette che la tv “aiuti nelle scelte d’acquisto” solo per il 14,1%, (contro il 17,8% del 2001): un livello simile a quello del sondaggio Eurisko del 1976 (il 14,4% tra i giovani). Gli altri media considerati (radio, quotidiani ed Internet) hanno addirittura un punteggio inferiore.

È poi singolare che la convinzione chela pubblicità sia indispensabile per il finanziamento della tv” (la domanda non distingue tra private e Rai) scenda dal già basso 29,9% al 21,8%. Negare questa necessità economica non sembra proprio logico parlando delle tv private, e questo assomiglia tutto sommato ad una protesta contro la troppa pubblicità – in nome della gratuità della Rete?

La tendenza ostile nei confronti della pubblicità in tv sembra in parallelo con il calo continuo di fiducia nelle televisioni in quanto istituzioni, che risulta dai rapporti Iard sui giovani: la televisione pubblica nel 1996 arriva a qualche punto oltre il 50%, mentre nel 2004 scende al 36% circa; la televisione privata dal 45% scende al 32% circa. Ciò avvalora l’idea di chi – come Enrico Menduni – pensa che la partecipazione diretta di Berlusconi alla politica abbia fatto diminuire la fiducia nella sua tv. E la Rai evidentemente è vista sempre più come espressione diretta dei partiti. Già in questo periodo ci sono poi i sintomi di un appannamento dello “splendore” passato della tv generalista e di una disaffezione del pubblico nei confronti dei suoi programmi, che anche secondo gli analisti tendevano a peggiorare.

Il rapporto osserva anche che il notevole aumento dell’insofferenza per la funzione diseducativa della tv, particolarmente diffuso tra le madri e tra le persone adulte e più istruite, sia una reazione alla “strategia delle agenzie pubblicitarie, che mai come in questi anni hanno indirizzato i loro messaggi ai bambini, individuati come persone in grado di incidere notevolmente sulle scelte d’acquisto familiare”. Tuttavia probabilmente c’è una tendenza alla reazione contro la saturazione pubblicitaria dei media di tutti i tipi, che si manifesta particolarmente contro la tv, la cui qualità a partire dalla fine degli anni 90, come si è detto, è andata diminuendo. Anche prima che Sky e Internet insidino direttamente la sua centralità, si avvertono gli scricchiolii del sistema della tv generalista.

Per gli anni successivi, l’undicesimo rapporto Censis-Ucsi sulla comunicazione, pubblicato nel 2013, ci fornisce dati interessanti. Internet prima di tutto ha costretto le aziende a ripensare il tradizionale rapporto unidirezionale dall’alto in basso con il potenziale cliente, e a tentare di instaurare un rapporto diretto e personalizzato. Naturalmente non bisogna dimenticare che, se questo da un lato può aiutare le aziende radicate sul territorio, dall’altro aumenta ulteriormente le spese pubblicitarie, in ultima analisi avvantaggiando a livello nazionale (e globale) le grandi marche, che, con la loro disponibilità di capitali, possono comprare i dati necessari dai diversi database e praticare su grande scala il marketing personalizzato. In tutti i casi, «il 36,6% degli italiani che hanno accesso a Internet dichiarano di essere entrati in contatto con un’azienda che commercializza prodotti o servizi di loro interesse negli ultimi due mesi». In realtà in vari casi si è trattato di un rapporto in gran parte verticale: di essi il 19,9% è entrato nel sito aziendale (in questo caso, se l’iniziativa è dell’utente, non bisogna dimenticare che essa nasce dalla pubblicità e dalla fama dell’azienda stessa), l’11,7% ha ricevuto delle e-mail commerciali ed ha risposto, l’8,2% è andato sulla pagina Facebook dell’azienda e l’1,2% sul suo canale YouTube, il 6,6% è stato contattato dal call center dell’azienda. Esistono anche risposte che configurano iniziative dell’utente di tipo più apertamente critico, come le discussioni sui prodotti svolte in blog e forum tematici, ma si tratta solo del 3,4%. Un altro 7,7% ha visitato pagine Facebook e Youtube sui prodotti create dagli utenti.

Agli intervistati viene poi chiesto quali tipi di aziende sentano più vicine a loro. Naturalmente in tempi di crisi è prima in classifica la risposta «quelle che offrono prodotti a buon mercato» (55,5%), seguita da «quelle i cui prodotti vengono acquistati da sempre nella mia famiglia» (40,2%); viene dopo ancora «quelle che utilizzano parte degli utili per attività sociali» (29,8%). Queste risposte austere richiamano un po’ il sondaggio Eurisko del 1976. Alla passione per il web resta comunque qualche briciola: «quelle che mi danno la possibilità di interagire attraverso Internet» ha il 14,3%, «quelle che ottengono apprezzamenti degli utenti su Internet» il 10% e «quelle molto attive su Internet (sito Web, pagina Facebook, ecc.)» l’8,7%.

Veniamo ora a un punto importante. Quando si chiede: «al momento di procedere ad un acquisto, quali dei seguenti fattori risultano decisivi nell’orientare la sua scelta?», la risposta «l’affidabilità del marchio aziendale» è scelta solo dal 43,1% dei 14/29enni, e la percentuale aumenta per ogni scaglione d’età fino ad arrivare al 59% tra i 65-80enni. Se confrontiamo questi dati con i dati Eurisko dei primi anni ’90 troviamo che adesso i più fiduciosi nel mondo dei consumi capitalistici sono i più vecchi, mentre allora erano i più giovani. Anche la risposta “il consiglio degli amici”, che fa riferimento in modo forte al mondo della vita, è scelta dal 41,3% dei 14/29enni contro il 21-22% di tutti gli altri. Il 19,6% dei giovani risponde “i pareri dei consumatori trovati su Internet” (dato medio: 14,7%). Ciò non significa che i giovani siano dogmaticamente dipendenti da Internet: solo il 6,7% (un po’ meno della media già bassa del 9,3%) è propenso a ispirarsi per i suoi acquisti alle “informazioni aziendali trovate su Internet”; inoltre solo il 6,1 sceglie basandosi sulle “informazioni ricavate dalla pubblicità” (in generale): anche questo dato ci ricorda piuttosto il sondaggio del 1976 che quelli degli anni ’80-’90.

Per i fattori di scelta dell’acquisto, la riposta più frequente è: “il prezzo conveniente”, con il 71,8%, un dato impensabile negli anni ’80-’90. E anche qui i più giovani sono di qualche punto sopra la media. Questa risposta ci ricorda però che, per quanto l’evoluzione del sistema formativo mediale abbia un peso importante, ci sono fatti strutturali, come la crisi globale finanziaria e la mancanza di denaro e di prospettive di lavoro, che incidono ancor di più.

Passiamo ora ad esaminare l’atteggiamento dei preadolescenti, che mostra dei cambiamenti ancora più interessanti in termini di distacco emotivo dal mondo dello spot e della tv. Anche i preadolescenti (studenti di scuola media) molto presto si sono collegati con Internet, senza grandi differenze rispetto agli adolescenti. Nel 2003, secondo un’indagine nazionale svolta annualmente per conto della Società Italiana di Pediatria con la consulenza di Carlo Buzzi, già il 63,7% degli studenti delle medie dichiarava di navigare su Internet. Secondo gli intervistati del 2011-2012, il 69,6% si connetteva tutti i giorni, mentre nel 2013-2014 si trattava dell’80%. La percentuale di chi dichiarava di non farlo mai passava dall’1,4 allo 0,8. Nel 2011-2012 il 79,8% affermava di avere un profilo su Facebook, percentuale lievemente scesa nella successiva rilevazione, probabilmente per la saturazione del social medium e la diffusione di nuove app.

Quanto ai dati sull’ascolto televisivo, dopo un periodo di ondeggiamenti, i ragazzi che dichiaravano di guardare la tv più di tre ore al giorno scendono dal 31% nel 2005, al 24,6% nel 2007, al 22,9% nel 2010, al 17,3% nel 2011-2012, al 13,6% del 2013-2014 (tuttavia certi programmi tv sono seguitissimi via Internet e commentati in gruppo).

In tutti i casi quella che sembra proprio diminuita è la capacità della pubblicità di risvegliare il desiderio della merce. Gli intervistatori dal 2004 hanno chiesto ai ragazzi se “capita loro di desiderare cose viste nella pubblicità in tv”. Mentre in quell’anno le risposte positive erano il 95,2%, e “desidero spesso” raggiungeva il 58,7%, nel 2006 le risposte positive scendevano al 90,8%, nel 2008 all’89,2%, nel 2010 all’88,6, mentre la risposta “spesso” si riduceva allora addirittura all’11,6%.

Parliamo ora dei modelli di consumo delle diverse età giovanili, dai preadolescenti in su. Se ovviamente la crisi economica ha aumentato la tendenza al risparmio, in realtà già da diversi anni il loro stile di acquisto è orientato verso i costi bassi. Come osserva un’esperta del marketing giovanile (Marzia Istria, Marketing dei teen agers, Lupetti 2010), sono loro «i protagonisti di quella rivoluzione low cost dei consumi, oggi prepotentemente alla ribalta». Essi, attraverso la Rete possono «accedere a un intero universo low cost: dai viaggi ai consumi culturali, dalla telefonia alle nuove tecnologie». Per non parlare della musica e della moda “indie”, cioè indipendente, non legate alle grandi star o ai grandi brand, o anche del baratto (swap, per il quale esistono appositi servizi on line), del riciclo e dei servizi Internet gratuiti. In questo target, propenso alla sperimentazione, la fidelizzazione alla marca è più difficile. È molto diffusa nell’abbigliamento e nell’oggettistica anche la mescolanza abituale di prodotti di lusso e non di lusso, di marca e non di marca.

 

Qualche conclusione politica

Si potrebbe ipotizzare che la stessa diffidenza che riguarda la pubblicità, amplificata, riguardi anche la politica spettacolo, che ne è per così dire un’applicazione, e la politica in generale. Essa ha certo origine in un atteggiamento antipolitico che è da tempo nel nostro costume, ed è anche una naturale reazione al comportamento poco credibile dei nostri ceti politici – sia di quelli che hanno un effettivo potere, sia di quelli che non ce l’hanno. Oltre a queste circostanze, la diffidenza verso la politica e le istituzioni deriva certo dalla situazione oggettiva: la politica nazionale è impotente rispetto alla crisi, nonché alle decisioni prese dalle varie istituzioni sovranazionali.

In questo quadro, quanto conta il declino della tv generalista e l’avvento di Internet e dei social media nel mutamento dell’atteggiamento verso la politica?

Indubbiamente questo avvento ha significato un aumento del senso di indipendenza e un rafforzamento dei processi di coeducazione delle nuove generazioni.

Ma forse in qualche modo si sta anche sbriciolando – contro gli scogli della competizione globale e della crisi – il paradigma dell’educazione e della costruzione di se stessi come opera d’arte incoraggiato dal consumismo estetizzante degli anni ’80 e ’90. La cultura pubblicitaria (i palinsesti televisivi – ma anche i testi dei periodici – costruiti in funzione della pubblicità) educava per sua natura al consumo, anche se veicolava insieme i miti attivi del successo (possibilmente grazie all’aspetto e alla seduzione), dell’uomo che “si fa da sé”, del “capitalista di se stesso”. Questi due tipi di messaggio, edonista e produttivista, già tra loro contraddittori, non potevano reggere di fronte alle dure repliche della crisi. E la risposta alla crisi del vecchio sistema dei media, di cui la politica spettacolo è parte, appare sempre meno credibile e sempre più ridicola: ce lo chiede l’Europa, lo vogliono i mercati.

Le nuove generazioni sono state ben presenti nella nuova stagione di movimenti verso il 2007-2011. Ma i movimenti non hanno trovato un’adeguata risposta a sinistra in una soggettività politica strutturata. Il clima attuale sembra così stagnante e depresso e la fiducia nella politica attiva a qualunque livello e con qualunque soggetto è di nuovo scesa fortemente, mentre si diffonde sempre più in modo strisciante un sentimento di protesta anti-istituzionale e antipolitica.

L’impressione che se ne ricava è che la diffidenza verso la pubblicità e verso la politica spettacolo sia estesa anche alla maggior parte delle forze politiche, anche a quelle che condividono gli obiettivi dei movimenti.

Dopo il suo momento di massimo successo nel 2013 perfino il M5S perde voti in termini assoluti a causa dell’aumento dell’astensionismo, e chiunque vinca le elezioni politiche rischia di trovarsi di fronte ad una cittadinanza disgustata e assolutamente diffidente verso le istituzioni, una parte della quale è sensibile ai richiami di forze radicali che propongono politiche nazionaliste e xenofobe, mentre la prospettiva di una guerra è incombente.

Il problema dell’educazione e delle trasformazioni culturali in una situazione del genere rischia di essere messo all’ultimo posto. Dobbiamo cercare di reagire comunque a una nuova strategia educativa che si va disegnando nella legge sulla Buona Scuola. Di fronte all’insensatezza attuale del modello del consumo come costruzione estetica del Sé, Renzi propone la subordinazione culturale della scuola all’offerta capitalistica di lavoro e alla cultura aziendale. In particolare l’alternanza scuola-lavoro, come osserva Acciarini in questo stesso n°, è spesso vuota di contenuti di apprendimento tecnico, ma buona per imparare ad adeguarsi alla gerarchia aziendale (lo studente addetto alle fotocopie), legata com’è a ciò che offre qui ed ora il mercato locale del lavoro. Laddove la risposta più plausibile alla competizione globale sembrerebbe essere invece una formazione generale e flessibile, ad alto contenuto di conoscenza.

 

NOTA SULLE FONTI

I dati e le analisi Eurisko cui alludo non sono facilmente reperibili. Ampie citazioni e precisi riferimenti si trovano nella tesi on line http://tel.archives-ouvertes.fr/tel-00690917 e nel mio Cultura pubblicitaria e berlusconismo, Aracne 2015, a cui rimando anche per gli altri dati e analisi sommariamente presentati in questo articolo.