Le reti di scuole

Le reti di scuole
Elementi di sviluppo del sistema o sovrastrutture burocratiche

di Gian Carlo Sacchi

 

Con la “personalità giuridica” venivano sanciti i poteri che la legge attribuiva alle autonomie scolastiche, a seconda delle dimensioni quanto-qualitative individuate. Anche se con il passare degli anni gli istituti diventarono sempre più grossi, soprattutto per motivi di risparmio della spesa pubblica, cosa che potrebbe continuare, da messaggi che vengono lanciati sul futuro delle dirigenze, nacque fin dall’inizio la preoccupazione di un rischio autonomistico connesso con la polverizzazione delle istituzioni sul territorio ed il connesso indebolimento dell’azione dei singoli, mettendo a repentaglio la qualità del servizio. Si trattava di immaginare un livello intermedio di rappresentanza al fine di attivare un confronto con gli attori locali.

L’autonomia delle scuole è stata concepita all’interno di un processo di decentramento e dimagrimento dello Stato, che voleva trasferire compiti agli enti territoriali, ma finì per essere il vaso di coccio, tra due potenze, quella statale poco convinta del mutamento di ruolo e quella locale che tentò di impadronirsi delle scuole stesse e comunque manifestando disorientamento e quasi fastidio di avere competitori sul territorio. Un “sistema” delle autonomie avrebbe dovuto costituire il nuovo assetto istituzionale, con il riconoscimento non solo giuridico di quelle scolastiche, come strumento di sussidiarietà orizzontale nel rappresentare le comunità in campo educativo. In tale ottica non si trattava più di avere un governo monolitico, ma un reticolo amministrativo costituito da una pluralità di soggetti pubblici e privati che si raccordano attraverso un’organizzazione a rete, caratterizzata da dinamiche di collaborazione e interdipendenza.

Il decreto che ha cercato di indicare i nuovi orizzonti dell’autonomia sul piano didattico-organizzativo li ha ristretti su quello della governance. Fu introdotto infatti il principio dell’autonomia “funzionale” che manteneva la scuola saldamente all’interno dell’ordinamento statale e per sostenere le debolezze furono introdotte le “reti”. Esse dovevano diventare una scelta organizzativa obbligata ma non obbligatoria, occorreva promuovere da parte delle scuole stesse una cultura di rete come aggregazione spontanea, snella e flessibile, non istituzionalizzata. Doveva fondarsi su un sistema sociale coeso, frutto di convergenti interessi, non costretti in confini geografici, senza una precisa identità giuridica. Il concetto di rete richiama una struttura orizzontale in cui i poteri dei singoli componenti non sono attribuiti attraverso una modalità top down; la pubblica amministrazione è chiamata a sostenere la società nella sua capacità di autoorganizzazione, anche con la costituzione di “centri di servizio”, variamente denominati nei provvedimenti che alla fine del secolo scorso caratterizzavano le diverse autonomie e di cui non vi è più traccia se non in modo vago tra gli impegni delle scuole sul fronte dell’innovazione. Oggi si torna ad identificare tali centri con gli uffici dell’amministrazione, ma sul piano politico si propongono ancora “nuclei per la didattica avanzata” (Movimento 5 Stelle), come articolazioni territoriali individuati d’intesa con gli EELL. Si vuole una “scuola diffusa”, di cui forse già parlava Freinet, un network aperto con i genitori e il territorio.

Il processo culturale e professionale si è rivelato però più maturo di quello politico, a cominciare dall’autonomia “incompiuta”, anche se “fatta salva” dalla riforma del titolo quinto della Costituzione del 2001. A seguito dell’abolizione delle province e della riorganizzazione delle reti-unioni o fusioni dei comuni, potrebbe essere necessario rimettere mano anche alla revisione delle autonomie scolastiche, a seconda se queste propenderanno per il versante locale, entrando cioè in rete con altri servizi, socio-sanitari, i “distretti produttivi”, ecc., o se rimanendo ancorati all’amministrazione scolastica rischiano di essere comprese in ambiti che le porteranno a frantumazione anche nelle stesse città.

Le reti comunque non devono essere l’ennesima struttura burocratica, ma l’espressione viva della partecipazione-progettazione delle scuole nei territori. Le ricerche dimostrano che la gestione centralizzata statale ha fallito proprio sul terreno dell’equità; ciò che emerge in maniera chiara è che la decentralizzazione appare come la base di sviluppo della moderna società, caratterizzata da un alto grado di complessità. Per le scuole del terzo millennio è importante entrare in una logica di sistema aperto, realizzare forti sinergie con il territorio e potenziare le azioni di network, aspetto questo che richiama di per sé il concetto di rete. Nell’esperienze in atto, e vedremo come evolverà la situazione con le recenti normative, molte reti prevedono la presenza stabile degli EELL, dov’è un tessuto fiduciario che consente di valorizzare il capitale sociale presente sul territorio. Ma se l’autonomia deve essere completata occorre mettere mano alla governance, a partire cioè alla revisione dei così detti “organi collegiali”.

Diversi tentativi sono stati fatti al riguardo, ma senza esito, ora attendiamo l’esercizio della delega contenuto nella legge 107 che però ha bisogno di un confronto sui presupposti per arrivare veramente al compimento dell’autonomia che la stessa afferma, ma che in concreto desta ancora non poche preoccupazioni, come si dirà in seguito. Nel 2012 un provvedimento veniva varato in sede legislativa dalla Camera, ma rimase lettera morta; esso si muoveva sul versante autonomistico, prevedeva l’autonomia “statutaria”, la redazione di piani formativi territoriali per attività in rete, una rappresentanza delle scuole autonome ai vari livelli territoriali fino al “Consiglio Nazionale dell’Autonomia Scolastica”, come organo di partecipazione e di corresponsabilità tra Stato, Regioni, EELL e Scuole, nonchè di tutela dell’autonomia stessa, assieme alla libertà di insegnamento ed alla qualità del sistema. Alle Regioni la definizione di strumenti, modalità e ambiti territoriali, già indicati dal DPR 288/1998 come elementi di programmazione del servizio.

Non tanto tempo fa (2013)anche l’attuale Ministro Giannini, da parlamentare, presentò un progetto di legge al riguardo, che affidava alle scuole la promozione e la partecipazione a reti, associazioni e consorzi; alle conferenze regionali la programmazione di un sistema educativo, scolastico e formativo, che veniva definito “integrato”. Le Regioni, d’intesa con gli EELL e con le autonomie scolastiche, potevano definire gli ambiti territoriali. Alle conferenze partecipavano i comuni, singoli o associati, l’amministrazione scolastica regionale, le università, le istituzioni scolastiche, singole o in rete, rappresentanti delle realtà culturali, professionali e dell’impresa. Fino alla completa attuazione del Titolo Quinto della Costituzione era l’USR ad esercitare i compiti di controllo (ma il Titolo Quinto, benchè sostenuto da referendum popolare, non fu mai applicato……).

I più autonomisti ancora si imbarcarono nelle “Associazioni” (ASA…), una sorta di ANCI delle scuole. Una ricerca, forse l’unica, realizzata dall’Università di Bressanone, mise in evidenza l’attivismo delle scuole stesse in quella direzione e il totale loro disconoscimento dell’amministrazione scolastica. Un atteggiamento ambiguo ma possibilista da parte delle autonomie regionali e locali.

Le associazioni andavano cercando una configurazione giuridica forte (atto pubblico davanti al notaio) per poter partecipare ai tavoli decisionali della politica scolastica, ma furono combattute e viste più come antagoniste che come interlocutori. L’amministrazione scolastica non ha mai voluto rinunciare alla rappresentanza ed alla gestione delle scuole. Anche sul piano giuridico furono mantenute le prerogative dell’avvocatura dello stato (le associazioni chiedevano di potersi costituire autonomamente in giudizio); nelle conferenze di servizio siedevano i dirigenti dell’amministrazione e non quelli delle scuole. Le reti qui agivano da organismo di secondo livello: reti di associazioni.

Questa situazione ha riguardato alcune scuole del nord del Paese; di loro non si sa più nulla, i sindacati pensavano che dovessero tutelare soprattutto i dirigenti e molti di loro si dimostrarono alquanto individualisti e non animati da spirito associativo.

Ritornava il problema della rappresentanza e per un certo tempo si pensò anche all’ARAN, l’agenzia che sigla i contratti, ma proprio qui si consumò un’altra contraddizione: chi stipulava i contratti per conto dello Stato ai pubblici dipendenti non aveva conoscenza specifica del mondo scolastico e quest’ultimo non veniva coinvolto.

Le associazioni non volevano essere solo professionali o sindacali, ma esprimere in modo trasversale le esigenze delle autonomie. Bisognava superare la rappresentanza per componenti, si voleva creare qualcosa che riguardasse tutta la scuola in quanto istituzione autonoma. Se i piccoli comuni associati nell’ANCI potevano acquistare forza e far sentire la loro voce, così era ipotizzato per l’ANCI delle scuole, che superava con un’azione dal basso la predetta debolezza. Debole fu la politica che non permise mai l’uscita delle autonomie scolastiche dal contesto della Pubblica Istruzione. L’associazionismo tra le scuole andava compreso negli accordi tra le pubbliche amministrazioni previsti dalla legge 241/1990, ma così non è stato e quindi per esse non fu mai possibile offrire una copertura giuridica e tutto fu ridotto ad associazioni di diritto privato sebbene formato da enti pubblici che pur hanno personalità giuridica.

Con il decreto “semplifica Italia” il governo Monti (2012) si pronunciò a favore del potenziamento dell’autonomia con la costituzione di reti territoriali, attraverso l’intesa in conferenza Stato-Regioni, fino alla definizione di un “organico di rete”.

Una lunga vicenda, quella che si è cercato sommariamente di descrivere, che mette in evidenza non tanto la debolezza delle scuole autonome, quanto dell’autonomia medesima, che in vario modo si è cercato di camuffare con le reti, ora in chiave amministrativa, ora politica, ora didattica.

Il decreto 275 del 1999 dava alle scuole la potestà di promuovere accordi di rete o di aderirvi per il raggiungimento delle proprie finalità istituzionali, a tutto campo, compreso lo scambio temporaneo dei docenti. Sempre ad esse la possibilità di stipulare convenzioni e partecipare ad accordi, a consorzi . Fino a qui , seppur tra non poche contraddizioni, si era andati in un’unica direzione.

Con la legge 107, sebbene gli esegeti di palazzo affermano che c’è continuità, si sancisce che sono gli Uffici Scolastici Regionali, cioè l’amministrazione scolastica, a promuovere la costituzione delle reti. Due tipi di reti: quella d’ambito, composta da tutte le scuole presenti entro un certo confine geografico, definito sempre dagli stessi uffici, e quella di scopo, spontanea, più simile a quella indicata dalla precedente normativa, ma sempre derivante dalla prima. E’ la rete d’ambito che “indica le priorità che costituiscono la cornice entro la quale devono agire le reti di scopo e ne individua motivazioni, finalità, risultati da raggiungere”. L’organico di rete è già predeterminato dal così detto organico dell’autonomia, dentro al quale i dirigenti in futuro potranno scegliere i docenti. La catena del comando, come si direbbe in gergo militare, passa dunque attraverso gli UUSSRR e arriva alla conferenza dei dirigenti scolastici della medesima, assimilata alla conferenza dei servizi di cui alla predetta legge di riforma della pubblica amministrazione, con il “coinvolgimento” dei consigli di istituto.

Con la rete di scopo sarà possibile “coinvolgere” gli EELL, mentre con quella d’ambito si cerca di riportare allo Stato la programmazione della rete scolastica, oggi attribuita alle Regioni. E’ quest’ultima infatti che “definisce le linee generali della programmazione territoriale”. All’epoca del ministro Falcucci i “distretti” potevano svolgere la funzione di ambito, ma almeno c’era una componente partecipativa.

Anche se ampollose sono le competenze affidate alle reti, che questo alla fine sia un miglioramento per l’autonomia delle scuole, con le varie modalità espresse in precedenza, si può avere più di un dubbio, il che sarà senz’altro confermato dall’approvazione del nuovo titolo quinto della Costituzione che sta per essere sottoposto a referendum. Anche lì si parla di fare salva l’autonomia, ma non essendo declinata in modo esplicito nel provvedimento costituzionale, sarà quella che lo stato attribuirà alle scuole.

La rete, lo dicono chiaramente i documenti ministeriali che oggi interpretano la legge, è una “modalità di organizzazione amministrativa del territorio”, che anziché andare verso lo stesso, continua a tenere le scuole ben agganciate all’amministrazione statale. I corsi e i ricorsi, che abbiamo cercato di documentare. Tutto questo sarà davvero una crescita, una migliore sinergia, una maggiore qualità, un rinnovamento per la scuola italiana ? Questa modalità di governo, dirigistica, che arriva fino ai dirigenti scolastici, l’avevamo già provata e l’ultimo ventennio è lì a dimostrare che era necessario cambiare. Ora senza tanti infingimenti torniamo là. Come si dice: ai posteri l’ardua sentenza. Purtroppo delle reti attuate in base all’art. 7 del DPR 275, non sappiamo gran che.