L’insegnamento di Umberto Veronesi

L’insegnamento di Umberto Veronesi

di Maurizio Tiriticco

“Ho definito la medicina moderna come un insieme di tre componenti: scienza, arte e magia, dove la scienza è il pensiero ideativo, il saper risolvere; l’arte è il saper fare, l’uso della tecnologia; e la magia è la capacità di influenzare la mente del paziente perché lo si conosce e lo si ama.” Umberto Veronesi.

 

umberto_veronesi“Basta chiamarli malati: nella medicina del futuro ci sono solo persone”. E’ il titolo di un intervento – l’ultimo – che Umberto Veronesi ha scritto per presentare “Secondo Natura”, la giornata organizzata da Repubblica Salute il primo dicembre a Bologna sul tema dell’umanizzazione delle cure e della medicina. L’intervento è stato pubblicato da la Repubblica il 31 novembre. Giova ricordare, a sottolineare la particolare sensibilità di Umberto Veronesi, che quando, con il secondo Governo Amato, fu Ministro della Salute, dall’aprile 2000 al giugno del 2001, volle istituire la “Giornata del Sollievo”, finalizzata a “promuovere la cultura del sollievo dalla sofferenza fisica e morale in favore di tutti coloro che stanno ultimando il loro percorso vitale”. L’iniziativa è tuttora replicata ogni anno.

Veronesi ha sempre coltivato e sostenuto la cosiddetta “umanità in ospedale”. In effetti molto spesso il medico cura la malattia più che il malato. Veronesi, invece, ha sempre pensato che la malattia non è altra cosa rispetto al cosiddetto “stato di salute”, e che non è sempre facile diagnosticare con esattezza lo stato e il livello del male come non è facile diagnosticare il livello della salute. In altri termini esiste più il malato che la malattia. Un’attenzione particolare Veronesi l’ha sempre dedicata ai malati cosiddetti “senza speranza”, per i quali occorrono attenzioni particolari. Si tratta, appunto dei malati verso cui l’attenzione e la cura medica a volte vengono ad attenuarsi o a mancare, in considerazione del fatto che abitualmente si considera che “ormai non c’è nulla da fare”.

Ma il “nulla da fare” per Veronesi non è mai esistito. Anzi, egli ha sempre sostenuto che tra medico e malato, al di là del fatto che il primo rilascia ricette e il secondo assume medicinali, deve sempre istituirsi un rapporto di empatia. Si tratta di una delle prime e più interessanti metodologie di aiuto nei confronti del malato sviluppata negli anni Quaranta dallo psicoterapeuta americano Carl Rogers, autore, appunto del volume “Client-Centered Therapy: Its Current Practice, Implications and Theory”,. London: Constable, 1951, pubblicato in Italia da Giunti con il titolo “La terapia centrata sul cliente”. Trattasi, tuttavia di un “cliente” che di fatto è una “persona”. Si tratta di un approccio che Veronesi ha fatto proprio. Ciascun soggetto, sano o malato, è in primo luogo una persona: si tratta di un approccio che permette di superare la distanza che in genere corre tra gli aggettivi “sano” e “malato” e tra “medico” e “paziente”, in funzione del fatto che ciò che è centrale non è tanto la patologia quanto la fisiologia: in altri termini non tanto il male o il malato quanto la persona in quanto tale. L’applicazione della metodologia rogersiana, ovviamente corredata da tutte le intuizioni di uno scienziato dalla sensibilità di un Veronesi, ha permesso a quest’ultimo di adottare una metodologia – ed è qui uno nei nuclei importanti e fondanti del suo approccio – che sollecita il “cliente” ad avviare un percorso di auto-comprensione mediante il quale è il “cliente” stesso a riuscire a comprendersi meglio e a migliorare il suo stato. In altri termini, non esiste in assoluto la separazione che da sempre siamo abituati a considerare tra stato di salute e stato di malattia, tra soggetto sano e soggetto malato.

Sono considerazioni a cui Veronesi è giunto anche perché non ha mai pensato che c’è da una lato una mente e dall’altra il corpo, da un lato lo stato di benessere, dall’atro il male. La medicina moderna “non potrà più curare una persona senza sapere chi è, cosa pensa, cosa crede e in che cosa spera. Cioè, senza considerare il malato nella sua complessa unità di corpo e di mente. Bisogna tenere presente che il dolore che la malattia provoca nel corpo, fortunatamente sempre più spesso ha una durata molto limitata. La sofferenza, nella mente, può rimanere presente a lungo. Non possiamo quindi considerare un malato guarito solo quando esce dall’ospedale e la sua malattia è regredita, scomparsa o comunque sotto controllo; dobbiamo fare in modo che possa ritrovare anche la sua dimensione di vita dopo la malattia. In un certo senso è sorprendete cha la medicina abbia atteso tanto tempo ad orientarsi in questa direzione” (ibidem, in la Repubblica del 31 novembre).

La cosa che mi sorprende del pensiero e dell’azione di Umberto Veronesi è il fatto che ciò che lui pensa del medico – mutatis mutandis – può valere, anzi vale, anche per l’insegnante. E non è affatto un caso che la ricerca di Carl Rogers, fondata sulla terapia centrata sul cliente è trasferibile su un insegnamento che sia centrato, appunto, sull’alunno. In effetti, “la trasposizione in ambito educativo dei principi e criteri psicopedagogici è operata dallo stesso Rogers, che considera i principi della terapia centrata sul cliente non suscettibili di combinarsi con mete educative autoritarie. L’insegnante, come il terapeuta, è caratterizzato da un atteggiamento empatico nei confronti dei componenti del suo gruppo-classe, dalla sua capacità di comunicare con autenticità e genuinità, dall’accettazione, dalla fiducia nella possibilità di autosvilupparsi dei suoi allievi… La condizione principale per raggiungere nella classe scolastica un clima accettante sta nell’impegno dell’insegnante a comunicare in modo non autoritario e ad accompagnare una siffatta comunicazione verbale con effettive ed autentiche pratiche non autoritarie”. Si veda Alba Porcheddu, “Insegnamento e comunicazione”, pag. 84, Giunti & Lisciani Editori, Teramo, prima edizione 1984.

Tutta la ricerca pedagogica, internazionale e italiana, dalla fine del secolo scorso ad oggi ha sempre insistito e insiste sulla necessità di un rapporto insegnante/alunno in cui quest’ultimo non sia oggetto indiscriminatamente di lezioni frontali, ma soggetto stimolato a ricercare, scoprire, inventare, produrre. L’insegnamento attivo ormai è sollecitato da ogni ricerca psicopedagogica e dalla stessa amministrazione della scuola… e non solo nel nostro Paese. I richiami ad una didattica attiva, ad una didattica laboratoriale costituiscono ormai indicazioni che ritroviamo in tutti i documenti di riordino dei nostri cicli di istruzione.

E non solo! Abbiamo assunto come categorie fondanti per il lavoro dei nostri alunni e dei nostri insegnanti le indicazioni che ci sono suggerite da Edgar Morin in “Les sept savoirs nécessaires à l’éducation du futur”, Unesco- Paris, 2000, dei quali è importante riportare il secondo e il quinto: 2 – insegnare a cogliere le relazioni che corrono tra le parti e il tutto in un mondo complesso; 5 –insegnare a navigare in un oceano di incertezze attraverso arcipelaghi di certezze.

Concludendo, anche se Umberto Veronesi ci ha lasciato, la sua eredità di scienziato e di “uomo” darà senz’altro i suoi frutti. Nel suo libro “l’ombra e la luce”, pubblicato nel 2008 da Einaudi, Veronesi scrive: “Questo libro ripercorre la mia vita lungo la strada più tortuosa e allo stesso tempo più affascinante. In fondo tutti i medici, più o meno coscientemente e coerentemente, si dedicano a comprendere il male. Io ho semplicemente provato a fare qualcosa di più. Prima da studente, poi da medico, da ricercatore, e ancora da direttore di ospedale e persino da politico, ho scelto di sfidare il male. Perché, per combattere il cancro, non basta affrontare la malattia, bisogna anche scacciarne i fantasmi. Insieme con la patologia, bisogna capire e attaccare i suoi simboli: ciò che si ha paura a nominare, ciò che nasce dentro di noi per distruggerci, ciò che non si può evitare, ciò che non porta redenzione, ciò che non ha un perché. Questo libro non è un altro libro sul cancro. È piuttosto un dibattito sulla percezione del benessere e del dolore attraverso la nostra mente e il nostro corpo.”