La Buona Scuola un anno dopo

La Buona Scuola un anno dopo
Rovistando tra le ricerche di questo 2016

di Gian Carlo Sacchi

Un anno è trascorso dall’emanazione della legge 107, che passerà alla storia per come il governo Renzi-Giannini l’ha voluta dipingere: la “buona” scuola, volendo esprimere da un lato la considerazione della politica nei confronti del futuro dei nostri figli, come andava ripetendo il presidente del consiglio, ma dall’altro come quella legge fosse di per sé una garanzia, il che resta ancora tutta da dimostrare se non altro per la notevole quantità di decreti ancora da emanare.

Delle azioni compiute in questo anno è stata data ampia comunicazione dal ministero, così come per tutta quanta è stata l’iniziativa governativa; mentre scriviamo il governo è caduto sotto la spinta referendaria, il che non potrà non avere ripercussioni anche su questi provvedimenti, il ministro è stato sostituito e quindi un’ulteriore incognita copre la loro effettiva applicazione.

Come è stato detto fin dall’inizio questa riforma più che occuparsi di teorie dell’istruzione ha cercato di migliorare l’efficienza del sistema, agendo su due leve, quella delle risorse economiche e quella del personale. Com’è noto la macchina si è inceppata, facendo fluire con il contagocce i finanziamenti, imponendo una governance centralistica e causando non pochi disagi nell’assegnazione dei docenti.

Tutto dunque sul versante organizzativo, saldamente in mano all’amministrazione scolastica, la quale però si trova ad applicare un ordinamento i cui orientamenti manifestano una certa incoerenza. Sul piano del curricolo ad esempio si fa ampio uso del termine competenza, ma se si guarda la didattica diciamo di essere abbastanza lontani dalla sua generalizzazione; curricoli centrati sui crediti, soprattutto se realizzati in diversi ambienti di apprendimento, fanno a pugni con gli esami finali ed ancora di più con un controllo nazionale dei risultati.

Tra libertà di insegnamento e meritocrazia non ci può stare solo una procedura di valutazione, ma a monte ci vuole un sistema che sa dove vuole andare e come utilizzare i dati che raccoglie (ormai da alcuni anni l’INVAlSI parla di una forbice tra nord e sud, ma tutto finisce lì, aspettando i “piani di miglioramento”); l’autonomia si riduce alla compilazione del PTOF, per la sua “creativa” attuazione occorre partecipare ai bandi ministeriali e gli organici così detti di “potenziamento” proprio non hanno incontrato la domanda con l’offerta. Alle varie ed eventuali è confinato il rapporto tra le scuole e gli enti territoriali, in un’azione che vuole ricondurre tutto al centro, anche sul versante delle politiche regionali e degli enti locali.

Certo dopo un solo anno non è possibile legare le numerose ricerche a puntuali osservazioni sul nuovo quadro legislativo, ma serve se non altro a collegare le aspettative di diversi soggetti con le possibilità di mettere in atto adeguati interventi.

Uno sguardo panoramico ce le propone DEMOS evidenziando che agli italiani la scuola non sembra tanto buona, la fiducia in essa è calata di 4 punti rispetto allo scorso anno e di 10 punti rispetto al decennio precedente (andava meglio quando andava peggio ?). Cresce la credibilità nei confronti della scuola privata; la distanza si è accorciata a 4 punti, mentre dieci anni fa era di 10. Qui un governo democratico avrebbe dovuto intervenire completando la legge 62/2000 e non limitandosi ad alcuni contributi o utilizzandola come grimaldello per i così detti diplomifici (ma davvero servono ancora i diplomi se si vogliono rilasciare crediti formativi lungo tutto l’arco della vita ?)

L’appannamento dell’immagine della scuola non è ritenuta colpa degli insegnanti: i cittadini sono con loro, specialmente quelli della primaria. I deficit registrati riguardano i finanziamenti pubblici, soprattutto per la didattica e l’inadeguatezza degli edifici. Non c’è dubbio che i soldi siano aumentati, ma sembrano dispersi in mille rivoli e non arrivano in maniera significativa alle scuole, che non sanno ancora dello school bonus per l’autofinanziamento, mentre per l’edilizia si cercano risorse da altrettanti mille rivoli mettendo i comuni nella condizione di spendere poco e in maniera frammentata (le zone terremotate insegnano).

A livello di percezione piove sul bagnato: la buona scuola piace meno a quei cittadini che hanno un elevato grado di istruzione e questo determina un peso crescente dei genitori in difesa dei figli. Forse è il caso di riprendere il “patto di corresponsabilità educativa”.

Le principali attenzioni dell’opinione pubblica sono rivolte al rapporto con il mondo del lavoro, premiare il merito soprattutto degli insegnanti ed alla loro formazione. Per il primo obiettivo non si può non constatare positivamente l’impegno a far seguire obbligatoriamente agli allievi un consistente pacchetto orario di stage aziendali. Ciò in relazione non solo agli indirizzi professionalizzanti, ma alla capacità formativa di un’attività esercitata in situazione, in altri contesti di apprendimento e con metodologie attive, che non siano quelle ancora troppo consegnative della scuola. Le scuole si sono date molto da fare per trovare partner nel mondo del lavoro, ma anche nel sociale in senso lato, anche se secondo un’indagine della CGIL mancano ancora circa il 2% di studenti soprattutto al sud e il 4% ha svolto tali attività in imprese simulate. Le indicazioni ministeriali prevedevano la presenza di figure tutoriali ed attività pre-stage e post-stage. Ma vista nel suo complesso l’esperienza appare ancora poco integrata in una strategia pedagogica, a cominciare dalla sintonizzazione con il curricolo ed il piano dell’offerta formativa e con la rete tecnico-professionale che la legge 107 ha cercato di tessere sul territorio (poli tecnici, ecc.). Difficile pensare che questo possa assomigliare al doppio canale tedesco in cui sono gli alunni-apprendisti che con un salario compiono esperienze didattiche anche in azienda (con la presenza dei lavoratori nella direzione aziendale), da noi i soldi pubblici che finiscono più o meno direttamente nelle imprese non ritornano nemmeno in termini occupazionali (In Italia crescono i NEET). Una giustapposizione tra le indicazioni nazionali per i licei ad esempio e le esperienze di alternanza non riescono ad assicurare nemmeno una formazione generale funzionale ed il dibattito se il liceo debba guardare all’uomo e al cittadino oppure al lavoratore non è ancora chiarito.

Per quanto riguarda il premiare il merito c’è bisogno di parecchio cammino; le esperienze osservate si rivolgono perlopiù ad attività aggiuntive, di carattere organizzativo, mentre risulta difficile un’autovalutazione sulla qualità dell’insegnamento, che non voglia essere indagata attraverso i risultati degli apprendimenti degli allievi e che voglia incentivare non solo i singoli ma anche un lavoro collegiale, che costituisce il fondamento della didattica. Volendo andare a vedere cosa è successo nelle recenti prove INVAlSI, sono anni infatti che si dice della forbice territoriale tra nord e sud: ci si aspettava una ricaduta sui meccanismi premiali ? Lo stesso dicasi per la secondaria di secondo grado per quanto riguarda le aree disciplinari. Si può già intervenire al riguardo sul “valore aggiunto” o si deve aspettare la valutazione esterna delle scuole ? Allo stesso modo per i risultati della ricerca internazionale PISA, relativa agli studenti quindicenni, sulla dislocazione territoriale e gli indirizzi di studio. L’Italia si trova sotto la media in tutte le materie indagate (lettura, matematica e scienze)e non ha migliorato rispetto alle edizioni precedenti. Pochi gli studenti che si trovano nei livelli elevati e molti in quelli bassi. In matematica si sta consolidando però un certo miglioramento.

Interessante i dati IEA-TIMSS in matematica e scienze per la quarta elementare e la terza media. Nella scuola primaria siamo al di sopra della media, mentre nella scuola secondaria di primo grado c’è una retrocessione, il benchmark è volto al basso e prevale l’obiettivo della conoscenza sull’applicazione (come fare a raggiungere le competenze ?) Il vantaggio è dei maschi sulle femmine, ma queste ultime garantiscono una maggiore stabilità negli studi di lunga portata.

Per la formazione dei docenti la buona scuola inizia un suggestivo percorso, sia per quanto riguarda i docenti neoassunti, che però devono ancora sintonizzarsi con le nuove tipologie contrattuali, sia per il piano della formazione in servizio, obbligatoria, che comunque dovrà ricevere adeguati input dalle innovazioni che si dovranno produrre sulla formazione iniziale. Si è cercato di trovare una mediazione tra la totale libertà del docente, che deve comunque mantenere la libertà di insegnamento, ed essere regolata dalla deontologia professionale, e la promozione della qualità del sistema. Insomma il docente è libero dentro ad un quadro di priorità che viene definito dal ministero e “accompagnato” dagli USR e dalle reti in gran parte definite dall’amministrazione.

L’importante che la scuola venga agganciata alla ricerca e si dia particolare enfasi alla documentazione. La scuola infatti deve recuperare la sua dimensione di ricerca a partire dalla raccolta e divulgazione delle buone pratiche; si tratta di collaborare con l’università e le diverse agenzie scientifiche e le associazioni professionali, ma la ricerca della scuola è propria, perché è finalizzata al “professionista riflessivo”, al cambiamento, all’apprendimento, alla costituzione delle “comunità professionale”(tenere insieme teoria e pratica).E’ interessante come la formazione andrà ad alimentare il “portfolio professionale” che conterrà tra l’altro le “unità formative”, in grado di validare la partecipazione dei docenti anche per l’assolvimento dell’obbligo. Esso sarà necessariamente alla base non solo di un personale “piano di sviluppo professionale”, ma di tutte le operazioni che potranno riguardare la carriera del docente (bilancio delle competenze).

Il piano è un documento complesso, fornisce indicazioni per quanto riguarda gli obiettivi dell’intervento formativo e gli indicatori di qualità ed efficacia, rimandando la definizione degli “standard professionali”. Molto affollata sembra la parte delle priorità, comprensiva dei numeri di docenti che si ambirebbe coinvolgere, più adatta quale supporto metodologico ai curricoli che sul fronte della formazione dei docenti. Una raccolta di teorie e strategie didattiche che sembrerebbero intercambiabili e che richiederebbero un più disteso approccio progettuale. Tale piano, a cadenza triennale, si accompagnerà con le celte strategiche del sistema di istruzione e formazione e sarà collegato con il sistema nazionale di valutazione.

Dulcis in fundo la carta elettronica del docente, di non facile gestione, che rischia di isolarlo ancora di più dalla realtà locale e ne fa un consumatore culturale.

Secondo il monitoraggio della Commissione europea il sistema scolastico italiano sembra aver fatto dei giganteschi passi in avanti, in quanto vengono elencati i diversi interventi contenuti nella legge 107. Peccato che però si tratti di provvedimenti che non sono ancora stati applicati e in molti casi ancora nemmeno adeguatamente regolamentati. Per l’UE si considera fatto se sono previsti i finanziamenti, ma anche qui le cifre per noi sono abbastanza ballerine, cambiano da una finanziaria all’altra rispetto a ciò che viene effettivamente erogato, oltre a considerare le materie in concorrenza con le regioni.

Anche l’INVAlSI nell’analisi dei “processi di funzionamento delle scuole” richiama i nobili principi presenti nei vari documenti che dal livello centrale si espandono nei piani delle scuole, in quanto spesso rappresentano vincoli dettati dal fluire delle risorse economiche statali (con decreto del ministro infatti si citano gli ambiti oggetto di finanziamento diretto alle scuole e da appositi bandi ministeriali si traggono soldi per l’innovazione). E ancora una volta si insiste sulla piena autonomia delle scuole, che l’Istituto Nazionale non definisce; si limita a citare una novità, quella delle reti di scuole che richiamano come in passato l’adesione spontanea (reti di scopo),al fine di potenziarne l’attività didattica o amministrativa, ma che ora possono nascere solo all’interno delle “reti di ambito”, o tra ambiti diversi, che hanno un valore di programmazione del servizio controllato dall’amministrazione, mentre prima era di competenza regionale (vediamo che ne sarà dopo l’esito referendario che mantiene le competenze concorrenti tra stato e regioni). La differente partecipazione all’esperienza delle reti, si dice nel documento, avviene in determinate aree geografiche (la regione che ha più reti è il Veneto)e ciò lascia presupporre che via stata maggiormente che in altre la condivisione di un tipo di approccio che vede il servizio formativo come sintesi del lavoro svolto da una molteplicità di soggetti presenti nel territorio, chiamando anche le regioni stesse a finanziare tali progetti. Si nota che in passato le reti di scuole potevano a loro volta far parte di consorzi o associazioni territoriali, oggi più genericamente ma meno efficacemente detti “accordi con l’esterno”. A questo riguardo le autonomie locali hanno un ruolo più importante nel nord-est. Se si considera che la partecipazione dei genitori è bassa un po’ ovunque (e qui aspettiamo ancora un decreto sulla riforma degli organi collegiali) le differenze che emergono nelle scuole sono relative alle diversità territoriali. E qui sarebbe proprio il caso che anziché pensare di irretire centralisticamente l’azione si cercasse di applicare efficacemente il principio di sussidiarietà verticale e orizzontale, magari utilizzando meglio i fondi europei particolarmente consistenti nelle regioni meridionali.

Ci viene detto che il 79% delle scuole attiva gruppi di lavoro per i rapporti con il territorio, mentre sarebbe utile in partenza attivarli con il medesimo e questo anche al fine della valutazione non tanto velleitariamente premiante, ma funzionale al vero miglioramento.

Sorprende dunque che nel recente “atto di indirizzo” per l’amministrazione la politica non citi minimamente il territorio, anche per quanto riguarda l’augurabile potenziamento delle “scuole aperte”. E’ il territorio infatti fonte di apprendimento non formale ed informale, utile ad accompagnare una formazione lungo tutto l’arco della vita. Un altra grande assente è la formazione permanente degli adulti, diminuita dello 0,8% nel 2015, raggiungendo il 7,3%, mentre il livello UE è del 10,7%. Si è parlato in una recente legge (92/2012) di apprendimento integrato e si sono promesse le linee guida per la certificazione delle competenze non formali ed informali.

Nello “sguardo” dell’OCSE si pone il problema del finanziamento pubblico, inadeguato nel nostro Paese, soprattutto per quegli alunni che presentano necessità didattiche diverse: crescono i finanziamenti privati, per lo più a carico delle famiglie degli studenti, ad iniziare dalle tasse universitarie, ma l’idea del nostro governo è dare impulso all’autofinanziamento del sistema reperito attraverso il predetto school bonus.

Gli adulti immigrati hanno un livello di istruzione particolarmente basso, ma le disuguaglianze a questo proposito si estendono a tutta la popolazione. In Italia, più che altrove, si dice nel rapporto, il livello di istruzione dei genitori influenza gli studi dei figli.

La questione cruciale per valutare lo stato di salute del sistema educativo è l’abbandono, soprattutto se precoce, il che determina una dispersione da parte del sistema stesso. L’UE ha posto come limite per il 2020 un tasso di abbandono sotto il 10%. Eurydice fin dal 2015 aveva offerto alcune indicazioni: potenziare l’orientamento, aumentare la flessibilità e la permeabilità dei percorsi di istruzione e ridurre il tasso di ripetenza. Per quanto riguarda primi due possiamo dire che nella legge 107 si fa leva soprattutto sui rapporti con il mondo del lavoro. E’ evidente che lo sforzo massimo deve tradursi nell’aiutare i giovani a costruire il proprio progetto di vita, che a volte coincide con il lavoro, ma altre volte il lavoro non c’è o c’è la frustrazione dell’insuccesso o di una scelta sbagliata. Tutto ciò dovrebbe vedersi nella scuola media in un laboratorio orientativo, da prolungare con un approccio personalistico anche nei primi due anni del secondo ciclo, che poi costituiscono l’assolvimento dell’obbligo di istruzione, ma anche qui iniziano ad entrare altrettanto precocemente le aziende con i rischi di cui si è detto. La flessibilità è aumentata anche se non compaiono ancora gli studenti come attori delle proprie scelte e sulle ripetenze le opinioni restano molto controverse. Da un lato rimane in vigore il decreto Gelmini sulla valutazione “sommativa” degli alunni e dall’altro si parla di competenze e crediti. Un fatto è certo, le risorse che si impiegano per far ripetere l’anno sono ingenti e potrebbero essere meglio impiegate per scoprire attitudini e orientare. La ripetenza è una delle principali cause dell’abbandono e non migliora le prestazioni scolastiche.

Due modelli a confronto: in Emilia Romagna (2014) la dispersione è inferiore alla media nazionale per effetto di un percorso “integrato” tra istruzione e formazione professionale, che allarga le opportunità e non le canalizza precocemente, in un sistema più inclusivo, lasciando sempre aperte le porte del rientro e del riorientamento. Questo sta risultando molto importante per gli alunni di cittadinanza non italiana. Nella città metropolitana di Milano (2014-15) la dispersione è molto elevata negli istituti tecnici e professionali, ma non sono disponibili i dati dell’eventuale passaggio alla formazione professionale regionale che si pone come canale parallelo alternativo a quello scolastico.

Separare precocemente gli studenti sulla base dei loro risultati ha un forte impatto negativo su coloro che vengono inseriti in percorsi che non corrispondono al loro potenziale o alle loro aspirazioni e ciò innesca un circolo vizioso nelle aspettative di insegnanti e studenti, e questi ultimi che si trovano nel percorso sbagliato diminuiscono l’autostima e la motivazione.

La dispersione, dicono Save the Children e FGA, colpisce soprattutto studenti che provengono da contesti familiari e sociali deprivati o che sperimentano la “povertà educativa”. Per contrastarla quindi non basta l’azione isolata della scuola o magari qualche progetto anche finanziato dal ministero, ma occorre una rete territoriale che si interessi soprattutto del futuro di questi giovani. Servono politiche che favoriscano un ambiente di apprendimento stimolante (il valore aggiunto) e la personalizzazione dei processi formativi. Fare scuola fuori dalla scuola, diceva De Bartolomeis, osservare i propri allievi in ambienti educativi diversi dalle aule scolastiche, lavorare in un contesto formativo non formale, serve ad impostare in maniera più efficace l’attività didattica, oltre che migliorare il rapporto docente-studente. La scuola è un punto focale che coinvolge attori di diversa natura e in grado di valorizzare saperi e vissuti dei singoli e restituisce al territorio buone pratiche di “progettazione partecipata”, realizzando a livello locale quelle migliorie di cui le stesse scuole hanno bisogno. Esse infatti sono “antenne territoriali”, ma l’abbandono precoce limita le opportunità e riduce la partecipazione, che incidono negativamente sulle generazioni future.

La ricostruzione del secondo dopoguerra e lo sviluppo dovuto al così detto boom economico vedevano la richiesta di istruzione come capace di potenziare la “società della conoscenza”; un tempo gli istituti tecnici avevano aziende e laboratori capaci di innescare processi di innovazione sui territori, oggi avviene il contrario, è il sapere aziendale che entra nelle scuole e “adotta” le classi accompagnandole nel loro percorso formativo. La scuola infatti non è più l’unico canale di conoscenza e di sviluppo delle abilità, rischia di essere abbandonata per obsolescenza o per non saper interpretare il cambiamento.