Mobilità e sostegno: le tre dimensioni della buona inclusione

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da Tuttoscuola

Mobilità e sostegno: le tre dimensioni della buona inclusione

137 mila insegnanti di sostegno, 5 miliardi di spesa annua solo per il personale, una grande tradizione nell’integrazione e nell’inclusione. Una cultura pedagogica e un investimento economico e sociale che avrebbero dovuto rendere il nostro paese un modello ancora oggi studiato e riconosciuto in ambito  internazionale. Di fatto, però, non è così.

Se è vero che l’Italia vanta l’indiscutibile merito di aver aperto per prima nel mondo le porte delle scuole agli studenti con disabilità, possiamo anche affermare che la qualità e l’organizzazione dell’integrazione degli alunni con disabilità è non solo diseguale, affidata alla fortuna di trovare il contesto “ortodosso”, ma in troppi casi lontana dai livelli minimi accettabili.

Questo dipende da diverse cause che possiamo suddividere in organizzative, didattiche e relazionali. Le tre dimensioni ovviamente si influenzano reciprocamente e non hanno contorni distinti e netti, ma sono una causa e insieme conseguenza dell’altra.

Nella dimensione organizzativa poniamo tutto ciò che riguarda la struttura dell’ambito inclusivo: numero degli insegnanti di sostegno, presenza di aule e laboratori riservati ad alunni con disabilità, modalità di comunicazione con le famiglie, struttura del tempo e dei tempi scolastici.

La dimensione didattica si riferisce alla capacita di accogliere, strutturare e migliorare i percorsi di personalizzazione e individuazione di insegnamento-apprendimento. Ci riferiamo alla capacità della scuola di situarsi all’interno di una dimensione che vede i poli opposti nell’effetto delega, che affida completamente l’alunno con disabilità alle figure “specializzate”, o nell’accoglienza diffusa, che si caratterizza per un grado elevato e costante di attenzione da parte di tutte le figure presenti nell’istituzione scolastica (docenti curricolari, di sostegno, collaboratori scolastici, personale di segreteria).

La dimensione relazionale si riferisce alla capacità della scuola di creare un contesto caratterizzato da relazionicalde” e affettivamente significative, nelle quali tutti gli alunni si sentono, o meno, accolti e accettati. Comunemente si crede che salendo di ordine e grado la scuola debba divenire sempre più centrata sugli apprendimenti e meno sulle relazioni; questo fenomeno però non solo è sbagliato, ma rischia di rovinare il lavoro di accompagnamento emotivo che la scuola normalmente realizza nei primi ordini.

Lavorare con alunni con disabilità richiede dunque un grande sforzo organizzativo, didattico e relazionale, che se ben condotto, porterà a un livello di accoglienza e di qualità elevato per tutti gli alunni. In caso contrario, quando la scuola non ha cura di queste dimensioni, a rimetterci non saranno solo gli alunni con disabilità, ma tutti. La qualità dell’integrazione è dunque una spia del livello di qualità dell’accoglienza e della competenza generale della scuola stessa.

Livelli minimi

Per promuovere percorsi inclusivi di qualità è indispensabile tenere in considerazione alcuni parametri minimi che garantiscono il funzionamento stesso della struttura scolastica.

Tra di essi non possiamo non considerare la dimensione della continuità didattica dell’insegnante di sostegno, caratteristica per un verso essenziale e indispensabile, ma per un altro continuamente messa a dura prova da una perenne disorganizzazione a livello nazionale, prima ancora che locale.

Perché la continuità

Sappiamo che le persone con disabilità sono tutte diverse e l’errore peggiore che possiamo fare, come docenti ed educatori, è quello di procedere per luoghi comuni, per cui le persone con sindrome di Down sono tutte allegre e simpatiche, le persone con autismo geniali, e così via. Ogni persona, a prescindere dal proprio funzionamento, è caratterizzata da punti di forza e di debolezza, che i contesti sono in grado di far crescere o diminuire. Considerato questo aspetto, non possiamo però anche non riflettere sull’importanza della figura dell’insegnante di sostegno, che per ben funzionare deve essere stabile, al centro di relazioni, preparato e professionale. Questo vale in genere per tutti gli alunni, ma soprattutto per chi, a causa delle sue difficoltà di funzionamento, con più fatica riesce a stabilire relazioni e rapporti interpersonali.

Quando un nuovo insegnante specializzato sul sostegno arriva a scuola, c’è grande attesa, sia da parte del corpo docente, che del dirigente scolastico, ma soprattutto da parte della famiglie degli alunni con disabilità, che intravedono in lui la persona che più di altre si prenderà cura del figlio. Su questa figura viene riversato un intenso carico emotivo, immediatamente i genitori si chiedono se possono avere il telefono o una mail di riferimenti, ci si dà appuntamento per raccontare le caratteristiche del figlio, le sue difficoltà, cosa ama fare, ciò che lo infastidisce, come renderlo felice. Ciò che la norma prevede attraverso le “carte” (la diagnosi funzionale in primis, seguita dal Profilo Dinamico Funzionale), molto più spesso si realizza attraverso un incontro carico di emotività e aspettative. Ad interrompere questo circolo di attese ed aspettative arriva purtroppo molto, troppo spesso la notizia che il docente, spesso dopo un breve periodo, lascerà quella scuola.

Quando arriverà un nuovo docente specializzato, spesso dopo un periodo in cui l’alunno con disabilità è rimasto senza una figura di riferimento, tutto dovrà necessariamente ripartire dall’inizio. Incontro, attese, emozioni, aspettative, paura, rischio di abbandono.

Nel frattempo la scuola prosegue e gli alunni con maggiori fragilità, proprio coloro i quali avrebbero diritto a ricevere più attenzioni specializzate, rimangono senza un progetto personalizzato e attenzioni mirate.

Con questo non intendiamo dire che la responsabilità del benessere degli alunni con disabilità spetti esclusivamente all’insegnante di sostegno, tutt’altro. Il ruolo dell’insegnante di sostegno è assimilabile alla funzione di un regista, che promuove relazioni significative e aiuta tutti gli attori a dare il loro meglio. Se manca il regista, il film è sconclusionato. In tante scuole però si girano film senza registi, nel quale gli alunni più fragili rischiano di diventare comparse, o nei casi peggiori, solo spettatori.

I rischi

Quali sono i rischi della mobilità dei docenti di sostegno? Se abbiamo detto che il buon funzionamento della scuola inclusiva passa per una cura della dimensione organizzativa, didattica e relazionale, possiamo immaginare, per ognuna delle aree prese in considerazione, i rischi dovuti alla continua mobilità dei docenti.

Dimensione organizzativa

Spesso si sottovaluta la dimensione spazio temporale, quando si riflette sulla qualità dell’inclusione. Ci riferiamo in questo momento alla costruzione dell’orario scolastico. Quando c’è la possibilità, la scelta dell’orario dell’insegnante di sostegno dovrebbe considerare la classe di appartenenza, per evitare, ad esempio, che un docente che proviene dalla dimensione scientifica sostenga l’alunno con disabilità nelle discipline umanistiche e viceversa. A causa dalla continua mobilità di figure con curricola anche molto diversi tra loro, questa attenzione viene completamente resa vana e ciò che sarebbe dovuto essere frutto di una precisione visione organizzativa, diventa casualità. Di conseguenza le competenze curricolari dei docenti di sostegno vengono completamente annullate e, ad emergere, è il solo ruolo di persona esperta, quando lo è, sulle dinamiche inclusive. Peccato.

Dimensione didattica

La normativa scolastica considera il docente specializzato sul sostegno come contitolare della classe. Significa che il docente curricolare è titolare della buona riuscita dell’inclusione dell’alunno con disabilità, esattamente come il suo collega di sostegno, e quest’ultimo, è titolare, come il suo collega curricolare, della progettazione didattica dell’intero gruppo classe. Non è possibile distinguere l’ambito curricolare e del sostegno, in quanto estremamente connessi. Quando i docenti di sostegno sono vittime dell’eccessiva mobilità, viene meno la costanza e il riferimento per tutta la classe e il livello di qualità si abbassa per tutti.

Per quanto riguarda gli alunni con disabilità, non avere un riferimento costante significa perdere la persona che cura l’organizzazione didattica, che è alla base dell’apprendimento, soprattutto nei contesti difficili. Ogni persona apprende con uno stile personale proprio e, senza una guida, il rischio è di non si apprendere affatto.

Dimensione relazionale

L’ambito emotivo/relazionale è forse l’aspetto più delicato e strategico, quando si parla di qualità dell’inclusione. Le più recenti riflessioni in ambito psicopedagogico confermano che le dimensioni motivazionale e relazionale sono alla base di qualsiasi processo di apprendimento. Detto in altre parole: impariamo meglio e di più quando ci sentiamo accolti, riconosciuti, valorizzati. Per gli alunni con disabilità, soprattutto se severa, questo è maggiormente vero. Così come le loro famiglie, essi hanno bisogno di tempi di conoscenza più lunghi, di occasioni anche informali, di entrare in profondità. Prima di affidarsi è necessario fidarsi e dunque conoscersi.

Ad ogni cambio docente, un rapporto muore, l’ennesimo adulto di riferimento, così come si era materializzato nella vita dell’alunno con disabilità, scompare. Sono molti gli adulti che si relazionano con bambini con disabilità: oltre ai docenti e genitori abbiamo spesso terapeuti, logopedisti, psicologi, educatori, in alcuni casi capi scout e allenatori sportivi. Ogni adulto con uno stile, un approccio, richieste e motivazioni diverse. Al centro di questo mare magnum il bambino, che dovrebbe essere centro di una rete di sostegno è investito dalle più diverse, e spesso incongruenti, richieste. Invece di essere sostenuto, il bambino può naufragare.

Le buone relazioni richiedono tempo e affiatamento. Puntualmente quando ci si inizia a conoscere, l’insegnante viene sostituito… e tutto ricomincia daccapo.

Insomma, la battaglia per l’inclusione è prima di tutto una battaglia di civiltà. Non basta assicurare semplicemente il diritto a frequentare la scuola di tutti, per costruire una comunità inclusiva. È invece indispensabile creare le condizioni organizzative, didattiche e relazionali affinché la scuola possa diventare una comunità accogliente e competente[1], come sostiene Fiorin.

Senza la continuità didattica dei docenti, considerata come prerequisito fondamentale, ogni speranza di costruire comunità professionali attente ai bisogni degli alunni con disabilità rischia di risultare vana. È necessario dunque un’inversione di rotta, un ripensamento completo dell’organizzazione che tuteli i diritti degli alunni, soprattutto di chi presenta difficoltà e fragilità maggiori.

[1] Fiorin I., Scuola accogliente e scuola competente, Editrice La Scuola, Brescia, 2012