F. Stoppa, La costola perduta

Francesco Stoppa, La costola perduta
Le risorse del femminile e la costruzione dell’umano

di Piervincenzo Di Terlizzi

Una tra le questioni più rilevanti che ogni istituto scolastico si trova ad affrontare nello scorrere dei giorni è quella delle ragioni di tenuta della scuola come comunità. Non più (a dire il vero da quadi vent’anni, ma cosa sia l’autonomia scolastica è ancor lungi dall’essere consapevolezza di dominio comune) emanazione di una filiera gerarchica, in un momento storico di forte ridefinizione di quali siano gli elementi che uniscono le comunità (dai comuni all’Unione Europea), le nostre scuola sono esperienza vissuta e laboratorio di relazione sociale. In questo contesto di cui ognuno ha cognizione nei rapporti quotidiani, è sono utili gli strumenti di riflessione e pensiero che aiutino a focalizzare le nuove questioni.

In questo senso, va segnalato un testo che è nelle librerie da pochi giorni, ed ha già avuto importanti recensioni: si tratta del nuovo saggio dello psicologo pordenonese Francesco Stoppa, La costola perduta (Vita e Pensiero, pp. 197, euro 16 ). Muovendosi dalle solide premesse della propria formazione lacaniana, in una dimensione di apertura metodologica che lo porta ad integrare la lettura antropologica e sociologica di alcuni miti della tradizione culturale occidentale, nonché a chiamare in causa opere antiche e recenti del nostro patrimonio artistico, Stoppa sviluppa la propria riflessione attraverso alcuni intensi capitoli, che possono essere agevolmente affrontati -ed è grande merito della scrittura rigorosa dell’autore- anche da un lettore non specialista del discorso psicanalitico.

La riflessione che Stoppa conduce si origina da due racconti fondamentali, quello della Genesi ed il mito platonico di Penia e Poros, ed attraversa le condizioni con le quali l’umanità si riconosce in comunità, a partire dal beneficio decisivo costituito dalla sua proiezione nel campo della storia, apportato dall’esperienza femminile, che rompe l’immobilismo logico della mentalità del maschio, il quale in proprio risulta, per citare un’immagine del libro, un “patito del quieto vivere”.

Il punto di arrivo del saggio è uno sguardo sulle condizioni di costruzione di una comunità umana che si possa dire tale a pieno titolo: essa accoglie al suo interno, non come dato di fatto ma quale condizione ineliminabile e sempre chiamata al dinamismo, la propria incompletezza, i propri vuoti, quei margini che aprono alla vita che l’autore coglie, nella mirabile pagina di avvio, nella Madonna del parto di Piero della Francesca: il dono femminile è, per usare parole di Stoppa, la consapevolezza del carattere strutturale della mancanza, la ribellione ad ogni fissità univoca, e per questo segnata di frequente dalla scriteriata perdita della qualità umana delle cose, che è propria, invece, dell’ordine fallocentrico.

Nella filigrana dell’avvincente riflessione dell’autore è quasi naturale avvertire l’appello alla manutenzione e alla cura di quanto renda possibile e agibile l’esperienza vitale del vivere in comunità, all’insegna dell’inevitabilità dell’apertura e dell’illusorietà della scorciatoia della chiusura: un ulteriore regalo che questo prezioso testo reca a chi s’immerge nelle sue intense pagine; uno stimolo per chi, in quell’organizzazione che risulta essere, secondo uno classica definizione, a legami deboli, che è la scuola, s’impegna nella costruzione di relazioni vitali e significative nel mondo della complessità.