La flessibilità didattica non c’è

da ItaliaOggi

La flessibilità didattica non c’è

L’autonomia scolastica compie vent’anni, tra vincoli burocratici e spazi ridotti

Giovanni Scancarello

L’autonomia resta al palo proprio nella parte in cui avrebbe dovuto produrre i cambiamenti più importanti, la didattica. Una riforma nata per rendere flessibili le scuole perché si adattassero al proprio contesto territoriale e al cambiamento della società, ma che a vent’anni di distanza deve prendere atto di non essere riuscita nell’intento. Poche, infatti, sono le scuole che hanno fatto ricorso alla quota di flessibilità del curricolo e pochissime quelle che hanno ridotto l’ora di lezione per recuperarla in attività opzionali. Colpa di una serie di fattori, a parte il continuo ricambio di governi, ministri e sottosegretari, c’è un problema di cristallizzazione della questione professionale, ma possibili inferenze andrebbero rintracciate anche nella mancata riforma degli organi collegiali e negli annosi problemi dell’edilizia scolastica. All’interno dell’orario annuale delle lezioni, spiega l’Invalsi nel rapporto che esamina i Rav delle scuole, le scuole definiscono l’insieme delle proposte formative che compongono il curricolo di scuola, composto da una quota nazionale, comprensiva delle diverse discipline previste dal corso di studi, nonché da una quota opzionale definita autonomamente dalla scuola, legata agli specifici contesti.

Per ampliare l’offerta formativa le scuole possono utilizzare fino ad un massimo del 20% del monte ore orario annuale per compensare discipline scelte dalle scuole con quelle canoniche del piano di studi, o possono ridurre la durata delle lezioni rispetto ai tradizionali 60 minuti, recuperando risorse tempo per realizzare ore aggiuntive di insegnamento.

Le scuole primarie preferiscono ampliare l’offerta formativa in orario scolastico (62% delle scuole) con l’intervento, ad esempio, di esperti esterni durante le normali ore di lezione, al contrario nelle scuole secondarie di primo grado la tendenza è quella di ampliare l’offerta formativa soprattutto al di fuori delle attività ordinarie, con interventi pomeridiani opzionali. Quasi tutte le scuole secondarie di secondo grado ampliano l’offerta formativa fuori dell’orario curricolare (97% dei licei, 94% degli istituti tecnici e 89% degli istituti professionali). Il ricorso alla riduzione dei minuti di lezione per realizzare unità didattiche aggiuntive ha interessato invece un numero residuale di scuole (inferiore al 2% nella primaria, intorno al 6% nella secondaria di primo grado, compreso tra il 3 e il 5% nella scuola secondaria di secondo grado). Ricorrono alla flessibilità del curricolo, fino al 20% di compensazione, soprattutto gli istituti professionali (media 38%), meno di un terzo delle scuole del primo ciclo (28%), un quarto dei tecnici (26%) e meno di un quarto dei licei (23%).

In ogni caso non si può dire che la flessibilità abbia fatto breccia nel cuore della scuola italiana. Per altro ciò ha determinato il fatto che, come accade soprattutto alle secondarie di secondo grado, molta parte dell’ampliamento dell’offerta formativa extracurricolare finisca per essere pagata dalle famiglie, finendo per istituire una sorta di modello di scuola statale quasi-privata, almeno per ciò che riguarda le opzionalità.

Le scuole infatti possono realizzare attività extracurricolari opzionali che contribuiscono ad arricchire la proposta formativa rivolta agli allievi, su contributo aggiuntivo da parte delle famiglie (ad esempio corsi pomeridiani di lingua, teatro, musica, attività sportive). I fondi per l’ampliamento dell’offerta formativa, spiega l’Invalsi, risultano ridotti negli ultimi anni. Per altro tali fondi vanno a coprire soprattutto le spese di funzionamento organizzativo (coordinamenti, referenze ecc.) anche a causa dell’assenza di quadri intermedi istituzionalizzati e contrattualizzati, di cui, ad esempio, ad esempio le funzioni strumentali al Pof rappresentano un timido esempio ma che comunque sono state anch’esse oggetto di pesanti tagli di budget negli ultimi anni.

La flessibilità organizzativa rappresentava il core business dell’autonomia organizzativa a sua volta pilastro dell’autonomia scolastica. L’articolo 21 della riforma Bassanini del ’97 parlava di autonomia organizzativa per la realizzazione della flessibilità, «anche mediante superamento dei vincoli in materia di unità oraria della lezione, dell’unitarietà del gruppo classe e delle modalità di organizzazione e impiego dei docenti, secondo finalità di ottimizzazione delle risorse umane». Ma evidentemente, a vent’anni di distanza va preso atto che niente di tutto questo si è realizzato, se non in casi del tutto eccezionali. Mentre quel «superamento» del blocco burocratico tra curricolo e apprendimento non c’è stato, è proprio l’idea burocratica di curricolo che ne è uscita rinforzata, solo per fare un esempio, si pensi al ritorno ai voti numerici alle primarie.

Può essere complicato rispondere, sarà compito della ricerca sociale andare a sondare le motivazioni e le decisioni che hanno prodotto un simile immobilismo da parte delle scuole. Ma si possono comunque azzardare alcune ipotesi, alcune relative al rapporto di lavoro degli insegnanti e alla cristallizzazione, poi diventata vero e proprio blocco, della contrattazione, altre connesse alla mancata attuazione della riforma degli organi collegiali territoriali del 99; ma non si può nemmeno escludere l’incidenza dei fattori logistici e dell’edilizia scolastica: chissà infatti se, pur disponibili ad attuare la flessibilità soprattutto in orario curricolare, le scuole non abbiano rinunciato per mancanza di spazi, in scuole oltretutto sempre più stipate di alunni, come avvenuto con la riforma del dimensionamento del 2011.