Perchè insegnare in inglese significa difendere l’italianità

da la Repubblica

Perchè insegnare in inglese significa difendere l’italianità

L’insegnamento in lingua inglese nelle nostre università è stato, anche di recente, oggetto di accesi dibattiti e polemiche. Sostanzialmente unanime la levata di scudi a difesa dell’italiano, che ha avuto anche riflessi giudiziari.

Alberto Mantovani

L’insegnamento in lingua inglese nelle nostre università è stato, anche di recente, oggetto di accesi dibattiti e polemiche. Sostanzialmente unanime la levata di scudi a difesa dell’italiano, che ha avuto anche riflessi giudiziari.

È DI fine febbraio il semaforo giallo della Consulta, la cui sentenza stabilisce che sono leciti i corsi di studio in lingua inglese, purché in misura residuale rispetto all’offerta complessiva dei singoli atenei.

Un’apparente uniformità di vedute da cui la mia si discosta: sulla base non di principi astratti, bensì della mia esperienza di medico e scienziato che ha lavorato all’estero, e — soprattutto — di docente che, in Humanitas University, insegna in inglese nell’ambito in un corso di laurea internazionale in Medicina. Un corso seguito da una quota importante — circa il 40 per cento — di giovani non italiani. È sulla base di questo mio vissuto che credo che il miglior modo di difendere e promuovere l’italiano — e i talenti italiani — sia insegnare in inglese, per lo meno nei contesti appropriati.

In primis, dunque, in ambito scientifico.

L’inglese è infatti la lingua della Scienza. Così come il greco e il latino sono stati, in passato, la koinè, ossia la lingua comune ed accettata della cultura classica: nessun autore spagnolo, africano o inglese si sarebbe mai sognato di metterlo in discussione.

Insegnare in lingua inglese in ambito scientifico è importante innanzitutto per il bene stesso dei nostri ragazzi. In un recente Keystone Symposium tenutosi negli Stati Uniti, quattro dei nostri ragazzi — posso dirlo con orgoglio! — sono stati selezionati per le presentazioni orali, superando un vaglio estremamente severo. Deve far riflettere però il commento del mio collega e amico Michael Karin, che ha ospitato nel suo laboratorio diversi italiani che si sono fatti onore fra giovani di tutto il mondo: «Bravi i ragazzi italiani. Peccato parlino male l’inglese». Un’opinione purtroppo condivisa a livello globale: i nostri ragazzi, di certo non meno bravi dei colleghi del Nord Europa, affrontano la competizione internazionale con un’arma spesso spuntata, perché hanno meno familiarità con la koinè della scienza.

Non sottovalutiamo, poi, il fatto che una forte componente internazionale a livello dei corsi universitari sia un valore aggiunto anche per i nostri studenti: li abitua a respirare l’aria del mondo, ad uscire da una dimensione provinciale e a vivere in un ambiente più stimolante, aperto al confronto con coetanei di culture diverse, ampliando gli orizzonti. E come attirare giovani da tutto il mondo nei nostri atenei se non insegnando in inglese?

Opporsi all’insegnamento in lingua inglese per difendere la cultura italiana è dunque, a mio avviso, profondamente sbagliato. Anzi, è vero il contrario. Accogliere da tutto il mondo giovani talenti, portarli a studiare nel nostro Paese dove restano per anni è in assoluto il modo migliore per promuovere la nostra cultura. Mentre studiano in inglese, infatti, questi ragazzi vivono in Italia, accanto agli italiani. E quando mettono in pratica le nozioni acquisite — gli studenti di Medicina, ad esempio, passano dalle aule alla clinica, a contatto con i pazienti — hanno comunque imparato l’italiano, perché usano la nostra lingua nella vita di tutti i giorni, al di fuori dell’insegnamento. Passano nel nostro Paese i momenti liberi andando a teatro, al cinema, ai concerti. Mangiano ed apprezzano il nostro cibo, imparando a distinguere un Parmigiano vero da un Parmesan.

Fanno conoscenze, costruiscono legami duraturi con il nostro Paese, amicizie che si porteranno dietro per la vita. Assorbono e respirano la nostra cultura ed i nostri valori in tutto e per tutto, per anni. E, quando torneranno nei rispettivi Paesi d’origine, contribuiranno a diffonderli.

Chiudere le porte al mondo non aiuta affatto a difendere la nostra cultura. È bene invece aprirle ed attirare i migliori talenti, che arricchiscono il Paese che li ospita e favoriscono la crescita scientifica di quello da cui provengono. L’insegnamento in lingua inglese, all’interno di corsi altamente qualificati, è dunque il modo migliore con cui possiamo non solo difendere, ma anche promuovere l’italianità.

L’autore è direttore scientifico Irccs Humanitas e docente di Humanitas University