Sul “valore aggiunto” di una scuola e di un dirigente

Sul “valore aggiunto” di una scuola e di un dirigente

di Gabriele Boselli

 

In una società in corso di deistituzionalizzazione/liquefazione come la nostra tutte le organizzazioni di diritto pubblico o privato (più le prime che le seconde) hanno bisogno, oltre a qualche risultato effettivo, di dati utili ai grossi apparati retorici che servono ai committenti delle ricerche. Si individua così ciò che conta ma nessuna tabella di dati può far individuare quello che vale nelle scuole: cultura, creatività, amore per l’altro.

 

L’esigenza di un simulacro di rendicontazione

Le organizzazioni devono comunque “provare” entro un arco di tempo breve che ai finanziamenti ricevuti dall’organizzazione corrisponda un valore aggiunto apportato dalla stessa. Naturalmente il valore non è sempre quello corrispondente ai reali interessi della società generale ma solo a quelli che i referenti supremi dell’organizzazione avvertono come utili a loro; valori attinenti ai campi in cui un contributo positivo sia della qualità e della quantità attese nonchè rappresentabili entro un rapido tempo di rendicontazione.

E’ così, per non fare che qualche esempio, per la sanità, l’esercito e la giustizia: la prima “proverà” il suo valore con il numero delle visite, del tempo di attesa degli esami e delle operazioni svolte ma non con le guarigioni, dimostrabili nelle patologie più importanti solo dopo un certo numero di anni; il secondo  con il numero di nemici uccisi o fatti prigionieri, di solito fornito sorvolando sulle proprie perdite e i danni ai civili e al patrimonio naturale e storico; la terza sul numero e sulla datazione delle sentenze, non sulla loro capacità di realizzare un’idea di giustizia.

La lotta per la sopravvivenza e il potere si combatte principalmente sul piano dell’immagine e a tal fine i numeri e i cosiddetti “dati” accuratamente reperiti selezionati o semplicemente  evocati sono decisivi.

 

Il cerimoniale dei “dati”

Una rappresentazione della realtà si persegue anche attraverso i dati ma per essere utili questi devono essere trans-formati, alter-ati, fatti altro da ciò che  potrebbe portare acqua al mulino altrui. I dati di cui disponiamo (sia empirici che non-empirici) non sono mai originari; se ve ne fossero, il relativo processo di conoscenza violerebbe la loro originarietà. Anche dopo le operazioni di messa in parentesi e di riduzione, “i dati non sono i dati della cosa” (per dirla con Italo Mancini), dati in assoluto ma i dati sono dati a qualcuno da qualcun altro, in un certo luogo e tempo, con oneste o disoneste intenzioni, entro campi di significato che perennemente li ricostituiscono, come ha ben mostrato il pensiero ermeneutico da Ricoeur a Gadamer ai fenomenologi heideggeriani di casa. Quello che vede un ricercatore davanti a lui non è il dato ma quel che è stato dato a lui; certo lo leggerà anche in vista della ricerca che si è impegnato a fare. Di fronte, intorno e un poco dentro a noi non stanno le cose ma i fenomeni e tra i fenomeni prevalgono per forza di massa quelli secondari, colti e selezionati da una organizzazione e dai suoi lavoratori entro un certo vissuto del vissuto complessivo della società. Lo stesso se la “cosa” che mi è data da valutare è un militare, un dirigente medico, un alunno, un dirigente scolastico, una qualsiasi istituzione. I fenomeni massicciamente rilevabili e corrispondenti all’ideologia del momento, non le cose né i fatti, configurano l’immagine e producono effetti.

Lo studio della storia dell’immagine della scuola specie degli ultimi anni –cui ha dato un contributo determinante l’INVALSI- evidenzia come la verità non sia approfondita penetrando le superfici di datità ma costruita da chi mostra le cose, da quali cose decide di mostrare, dai criteri di rilevanza, di successione, di organizzazione decisi. E mostra che è il soggetto inquadrato nell’organizzazione preposta alla valutazione a configurare poi la cosa secondo se stesso, le sue vicende, la sua intenzionalità; a produrre una rappresentazione nuova, a fare altre le cose mostrando di analizzarle. Anche quando questi sia convinto di operare disinteressatamente l’ “apparire della scuola” o di un dirigente è un apparire a me, qui, ora, nei limiti – appunto – in cui la cosa è offerta differentemente e diversamente a ciascuno di noi. I dati non riguardano il qual essere delle ma sono elementi per la costruzione di un’immagine utile alla committenza della ricerca.

L’invito husserliano a far spazio alle “cose” è abbastanza seguito nelle singole scuole, piuttosto trascurato nelle università (ancillae potestatis), tranquillamente ignorato dalle organizzazioni ufficiali del sistema nazionale di valutazione. La società generale è sommersa di dati, tanti dati quanti ne servono a velare e torcere la sostanza a beneficio dell’immagine utile ai detentori del potere.

 

Il caso della valutazione dei dirigenti

Dopo un periodo di entusiasmo di alcune di queste, ANP in particolare, le organizzazioni dei dirigenti scolastici stanno prendendo le distanze e opponendosi all’ormai avviata macchina di valutazione dei loro iscritti. Finchè questi valutavano i “loro” docenti, distribuendo premi e indirettamente castighi, alcuni sperando di mettere i “dipendenti” in soggezione tutto bene; le difficoltà sono cominciate quando si è concretamente apprestata la macchina per valutare i DS.

Cooptati i dirigenti in un (illusorio) sistema di potere, preso atto della forza delle loro organizzazioni e della irrilevanza mediatica di quelle dei docenti, individuando nei primi una leva di controllo della docenza, per i gruppi che da vent’anni hanno preso il controllo del MIUR non ha più gran senso vessarli con pratiche assurde come quelle originariamente previste nelle loro Linee guida.

La valutazione dei dirigenti sarà di fatto neutralizzata, come pare già assodato per quel che riguarda i riflessi economici, e questo è certamente un bene: la grande maggioranza dei dirigenti scolastici è composta di persone di cultura (sinora non presa minimamente in considerazione). I migliori amano studiare, hanno molto da dire e da dare, non vedono gli insegnanti come dipendenti e sanno intrattenere (non “gestire”) con essi relazioni armoniche. Non amanti del prepotere, cercheranno di cavarsela con 107 e 2609 consapevoli che millenni di pedagogia come scienza filosofica fanno ritenere il docente -a parte i casi clinici- soggetto non mortificabile e sottoposto solo alla Scienza e alla Legge.

 

Conclusioni

—Non si può inquadrare come “valore aggiunto” di una scuola solo quello che emerge dai dati raccolti dell’Invalsi. In questi non emerge la qualità ma solo la quantità, in una gamma peraltro ristretta di risultati poco significativi e non rilevativi degli effetti dello sviluppo di quelle capacità critiche e creative in cui le scuole italiane mi sembrano eccellere.

—Il “valore aggiunto” di un dirigente è dato dalla intera sua personalità e non è individuabile attraverso la rilevazione di una limitata gamma di prestazioni. Anche l’approccio reputazionale è poco significativo in quanto dipendente dalle capacità autorappresentative, quando non istrioniche.

—Il concetto di rendicontazione del valore aggiunto va comunque omaggiato in quanto “politicamente corretto” e del resto ovviabile con efficaci argomentazioni di cattiva retorica come quella che gli esorcismi numerologici rendono possibile.

 

Letture consigliate

Roberta De Monticelli, Carlo Conni Ontologia del nuovo. La rivoluzione fenomenologica e la ricerca oggi, Bruno Mondadori, 2008

Beatrice Bonato Sospendere la competizione, Mimesis, 2016

Da guardare, di Franco de Anna, La rendicontazione sociale, l’autonomia scolastica, la valutazione su Scuolaoggi