La Finlandia ha ragione

La Finlandia ha ragione

di Stefano Stefanel

 

Ultimamente sono arrivate due notizie dalla scuola finlandese: la loro accoglienza da noi è stata come sempre molto distratta, anche se leggendo tra le righe le poche reazioni hanno rivelato bene i sintomi del pensiero italiano sulla scuola. La prima notizia è quella secondo cui i risultati degli studenti finlandesi nelle rilevazioni internazionali per la prima volta dalla loro istituzione sono oggettivamente peggiorati, anche se leggermente. Il peggioramento della Finlandia è stato salutato con poca attenzione, ma quella poca ha mostrato il sospiro di sollievo degli italiani addetti alle cose scolastiche, visto che dimostrerebbe che anche il metodo finlandese non porta lontano. Dall’alto del nostro 28° o 29° nelle stesse rilevazioni riteniamo che avendo pazienza prima o poi il “cadavere” della Finlandia passa. E questo sarebbe il primo segnale del “passaggio”. Questo poi può voler anche dire che è ridicolo rincorrere i finlandesi, che tanto prima o poi ci raggiungono in basso: questo atteggiamento dimostra che non serve a niente che noi facciamo qualcosa per migliorare, visto che il nostro sistema scolastico va bene così com’è e che prima o poi i finlandesi scenderanno al nostro livello. La seconda notizia riguarda l’eliminazione delle materie dal curricolo scolastico, sostituite dagli argomenti. Questa seconda notizia è stata vissuta per un paio di giorni come un’eccentrica curiosità nordica ed è stata bocciata da tutto il sistema scolastico italiano guidato da Benedetto Vertecchi che in un’intervista ha detto che “copiare il metodo scolastico finlandese da noi sarebbe un grave errore” (Repubblica.It del 30 maggio 2017). Non c’è stato bisogno di aggiungere molto sull’argomento, visto che Vertecchi ha interpretato il sentire italico come forse mai in passato: giù le mani dalle discipline! Si può solo aggiungere che non si tratta di copiare la Finlandia, ma di comprendere – eventualmente – il problema nel suo insieme. Poi Vertecchi ha anche consigliato di volgere lo sguardo all’Estonia e allora le strade si divaricano.

Le due notizie lette insieme dicono che i finlandesi giudicano compiuta la loro riforma del 1992 e che decidono di prendere una nuova strada pedagogica ritenendo arrivati i tempi di cambiare. Nel frattempo noi abbiamo fatto una mezza dozzina di riforme senza riuscire a migliorare i nostri risultati e alternando cambiamenti a restaurazioni. Il sistema ritenuto migliore del mondo decide di cambiare nel momento in cui avverte degli scricchiolii. Noi, invece, forti del citato 28° o 29° posto, ad ogni cambiamento mandiamo avanti il TAR, soprattutto quello del Lazio. Loro applicano noi ricorriamo.

 

INTANTO IL NON FORMALE E L’INFORMALE…

Mentre la Finlandia regredisce leggermente e cambia tutto e noi rimaniamo saldi al nostro posto di rocciosa retroguardia ecco che il non-formale e l’informale aggrediscono in modo molto incisivo la nostra curricolarità riempita di programmi vecchi, cartacei e legati non solo alle discipline (comunque una cifra italica), ma addirittura alle classi di concorso e alle graduatorie, cioè a ciò che c’è di più lontano dal mondo reale. La speranza che il non-formale e l’informale possano essere fermati dal formale scolastico ha mostrato e sta mostrando tutta la sua risibile debolezza nella questione di internet e degli smarthphone o degli strumenti simili. Ormai ogni ragazzino dotato di mini-contratto ha più Giga di quanti ne avesse la Nasa quando mandava la gente sulla luna. E quindi anche la questione del wi-fi e della sicurezza informatica sta già da un’altra parte, mentre le scuole ancora discutono su come vietare l’uso dei cellulari, i gruppi WhatsApp dei genitori o altre incursioni del mondo esterne nella scuola.

C’è stato un altro momento nella storia del dopoguerra in cui la scuola si è trastullata col formale mentre fuori l’informale e il non formale stavano cambiando il mondo. Il ’68 nella società ha aperto la strada a quel ’68 nella scuola e nell’università che non ha permesso di lasciare tutto come prima e che ha aperto ad una stagione di riforme scolastiche di grande portata. Si potrà anche ironizzare sul sei politico (che non è stato così diffuso come si racconta), ma la scuola paludata e lontana dai giovani dei primi anni sessanta è esplosa non solo nella contestazione, ma anche nel cambiamento.

Può essere interessante alla luce del rapporto tra le discipline e il mondo reale considerare alcune evidenze del rapporto tra informale, non formale e formale nei vari ordini di scuola.

  • Scuola dell’infanzia. E’ la scuola che meglio regge alla pressione dell’informale e del non formale. E non potrebbe che essere così, visto che un semplice formalismo didattico non riuscirebbe a far fronte alla pressione delle aspettative educative delle famiglie e della società; l’azione didattica per sfondi integratori e campi d’esperienza è la migliore risposta che la scuola italiana sia riuscita a dare alle esigenze sociali, cultuali ed educative. E’ un peccato che quella scuola non abbia saputo spingere la sua ricerca didattica ed educativa almeno fino alla primaria, rimanendo una riserva di ottime insegnanti, eccellenti pratiche in un ciclo che però si chiude.
  • Scuola primaria. La scuola primaria ha la tendenza a farsi travolgere dall’informale e dal non formale, perché non riesce a distinguerlo. Il suo forte rapporto con la realtà dei bambini le fa credere di essere fuori pericolo. Invece il pericolo c’è eccome. La scuola primaria per sua natura non è disciplinarista, ma le maestre lo stanno diventando e ritengono virtuoso insegnare per tutta la vita le stesse discipline. Il mondo esterno non è disciplinare e l’approccio del bambino al sapere deve essere di tipo olistico e non specialistico. Se infatti si chiude il mondo dentro le discipline quando i bambini sono piccoli (6-8 anni) può accadere che questo mondo non venga riconosciuto e la strada del rapporto tra conoscenza e realtà sia in salita. La scuola primaria può agire per strutture unitarie e la tendenza alla divisione appare veramente una scelta perdente, capace soltanto di rendere teorico ciò che è per sua natura pratico.
  • Scuola secondaria di primo grado. E’ il segmento debole del sistema scolastico italiano, ma non si ritiene tale. La battaglia per il web e sul web è stata persa in partenza. La scuola “media” ha cercato di arginare l’accesso al web facendo fortilizi a difesa dei libri di testo. In realtà è successo e sta succedendo che l’informale e il non formale del web stiano devastando la crescita culturale degli adolescenti intervenendo in maniera scomposta nel complicato meccanismo dello sviluppo e dell’apprendimento, che troppo spesso non riesce ad essere guidato dalle scuole.
  • Scuola secondaria di secondo grado. Lo scontro tra formale e informale e non formale è diventato titanico e l’ingresso dell’alternanza scuola lavoro anche nei Licei ha reso fortissimo l’elemento di confronto con l’esterno. Inoltre la battaglia col web è stata persa in maniera netta, così come l’URSS a suo tempo perse la guerra fredda con gli USA. L’URSS stava ancora facendo le parate del 1° maggio sulla Piazza Rossa mentre l’Occidente americanizzato era diventato una società in cui i consumi sociali sembravano illimitati. Si pensi però anche a questioni molto semplici come le certificazioni linguistiche, che hanno reso inutili e spesso nocivi i voti nelle lingue comunitarie e hanno creato un condizionamento non-formale dentro i formalismi dei programmi di lingue.

La scuola italiana in tutte le sue componenti non riesce a mettere in relazione la prepotenza del suo sgangherato disciplinarismo nozionistico e mnemonico con i cattivi risultati dei suoi studenti. Inoltre scambia i suoi studenti migliori (i liceali) come frutto di sistema e non come selezione culturale di una scuola falsamente egualitaria. Se infatti i migliori alunni del primo ciclo vanno ai Licei classici o scientifici; quelli subito sotto vanno agli altri Licei e ad alcuni Tecnici; quindi a scendere si scelgono gli altri Tecnici e i Professionali e poi si va nel girone infernale della Formazione professionale ci si può consolare definendosi democratici, ma in realtà si stanno applicando meccanismi selettivi così forti e definitivi, che quelli delle bistrattate società orientali basate sui test d’ingresso sono al confronto molto più aperti e alla portata di tutti.

L’inclusione non può avvenire con i Licei italiani (tra i migliori del mondo) da una parte e tutto il resto del sistema secondario che produce dispersione, difficoltà e ineguaglianza dall’altra. Inoltre sarebbe interessante analizzare la selezione di certi licei, che si permettono di avere una dispersione alta pur avendo accolto gli studenti migliori richiamati da azione di orientamento in entrata molto aggressive.

 

LE DISCIPLINE SONO IL MEZZO

Le discipline sono il mezzo e diventano il fine solo per coloro che entrano nell’alta specializzazione disciplinare propria degli studi universitari. Quindi questa ossessione italiana per le discipline nella scuola (soprattutto in quella dell’obbligo) è l’elemento principale che determina la dispersione e il distacco col mondo reale:

  • costringere gli studenti ad essere tuttologi fino a 19 anni è una pratica perdente, resa surreale da esami di stato conclusivi congegnati in maniera dannosa ed inutile;
  • piegare il mondo dell’informale e del non formale al formale delle classi di concorso è subordinare la crescita della mente sociale e culturale dei giovani ai livelli occupazionali.

 

Luigi Berlinguer con il POF e l’autonomia aveva tentato di portare la scuola fuori dal suo formalismo, ma era stato costretto a lasciare la riforma a metà: aveva abolito i programmi ministeriali sperando che dal basso arrivasse la spinta a redigere curricoli legati ad esperienze e territorio e invece c’è stato un ispessimento del sapere sugli obsoleti libri di testo e sui vecchi programmi ministeriali. L’attuale Governo sta cercando di spostare il focus della scuola verso l’informale e il non formale (Piano Nazionale Scuola Digitale, Rapporto di Autovalutazione, Piano di Miglioramento, Progetti nazionali, Fondi Pon), ma lo fa senza toccare la questione delle discipline. La strada è finlandese, il metodo italiano: penso ne verrà fuori un disastro.

I finlandesi hanno comunque una profonda ragione: dopo 25 una riforma deve essere rivista dalle fondamenta. Le discipline sono una struttura culturale utile e necessaria per capire il mondo globalizzato veicolato dal web, ma non possono rimanere strutture chiuse e collegate all’occupazione dei docenti, che per loro natura cercano di chiudere il mondo dentro i propri confini.

L’abolizione delle discipline dal curricolo sta in questo rapporto ineludibile con l’informale e il non formale, che deve essere padroneggiato per non portare a forti squilibri. Tutti i progetti PON porteranno 3 miliardi di euro nelle scuole per farci entrare l’informale e il non formale. Ma le scuole se ne sono accorte oppure pensano che la Finlandia sia comunque fredda e poco popolata?