Finché rimarrà l’ultimo dei solitudinarizzati

Finché rimarrà l’ultimo dei solitudinarizzati

di Vincenzo Andraous

Ogni giorno, giornali e televisioni, ci informano di comportamenti trasgressivi, dirompenti, devastanti, che investono l’esistenza dei più giovani, ragazzini, adolescenti, giovani adulti esacerbati, ci raccontano una quotidianità che solo apparentemente sta a significare un’età scombinata dal ribellismo e dalla fascinazione della regola infranta, della mano stretta a pugno, degli aggettivi scambiati per sostantivi. C’è qualcosa di più e soprattutto in meno dentro questi atteggiamenti spavaldi, continuamente contaminati dalle giustificazioni e dalle attenuanti calate all’ultimo momento. Di certo non è un buon servizio che noi adulti ben allineati e ordinati offriamo loro. Accade sovente che per una sorta malcelata di qualunquismo, di sempre meno tempo a disposizione per i propri pargoli, di presunzione e una qualche vanità, è implicito declinare ogni eventuale responsabilità, in fondo sono problematiche che non ci appartengono, al limite sono impatti e cadute che colpiscono l’altro, gli altri, quelli dall’altra parte della nostra coscienza. Viene furbescamente bene affermare che questa gioventù è cosa ben diversa da quella nostra, “questi” rappresentano il dardo scagliato dalla paura dell’insignificanza, a ruota quindi l’assenza di qualsivoglia comprensione per una pausa, c’è soltanto la spinta, la scossa al basso della schiena. Forse però, forse, c’è pure dell’altro, non solamente l’irresponsabilità di un’azione seppure reiterata, di un male imposto, senza fremito di pietà.

Forse c’è dell’altro, cioè una prossimità ottusa e conclusa che non aiuta, non accompagna per giusto verso, non rende l’idea di una solidarietà costruttiva, quella che affianca, che accetta la fatica e il sudore, passo dopo passo, una gamba avanti l’altra, un piede affaticato dopo l’altro, il braccio intorno alle spalle, fino alla stretta di mano. Forse c’è veramente un’assenza persistente in questo cammino, percorso, un’assenza primaria di attenzione, soprattutto di cura, nei riguardi di chi arranca e inciampa, un’assenza ingiustificata e colpevole, nel non percepire i segnali, i suoni, i rumori, fin’anche i silenzi che non accettano ulteriori sottomissioni o accantonamenti.

Giovanissimi padroni del momento rubato, degli attimi incendiati, del presente così malridotto da significare un futuro privo di responsabilità. La roba e i beveroni come oasi in cui ritrovarsi, il sesso usato come pietra sopra ogni fiore, il gioco e l’azzardo per rifocillarsi nell’inevitabile scivolone.

Ogni ragazzo sta pronto come una molla all’avventurarsi, è poco propenso a rimanere fermo sulle gambe ad aspettare. Spesso dall’altra parte del ponte non c’è nulla ad attendere il nuovo arrivato, non c’è nessuno a rallentarne la corsa, a tentare di ammorbidire i toni. Permangono i cumuli di aggettivi, di sostantivi, appesi al cappio delle più misere parole. Dietro, oppresse e tumefatte, stanno le emozioni, imbrigliate e sconosciute. Una sassata di rimbalzo all’altra, finchè non rimane nuovamente l’ultimo solitudinarizzato a pagare il dazio più alto.