Istruzione e formazione professionale separati in casa

Istruzione e formazione professionale separati in casa

di Gian Carlo Sacchi

Sarebbe interessante sapere da chi ha scritto l’art. 117 della Costituzione nel 2001 perché ha usato la frase “Istruzione e Formazione Professionale”, che non sembra essere il naturale adeguamento di quell’istruzione artigiana e professionale utilizzata dalla versione più antica e nemmeno una sorta di sincretismo legato ai principi fondanti dei due versanti. Un’interpretazione più politica farebbe ritenere che fosse giunto il momento di spostare il baricentro verso un nuovo rapporto tra realtà formative finalizzato alla costruzione di un robusto indirizzo che fruisse della stabile presenza degli istituti professionali statali a coprire tutto il territorio nazionale, dal momento che il sistema di formazione professionale regionale risente dei diversi livelli di sviluppo delle regioni stesse, ma adottasse da quest’ultimo le strategie didattiche e la maggiore efficacia del rapporto con le imprese.

Un cambiamento di rotta, che allontanasse gli istituti professionali dai tecnici, che per un certo periodo di tempo li ha visti praticamente sovrapposti, anzi modifiche legate all’autonomia li aveva fatti rientrare in un’unica struttura (istituti superiori ad indirizzo…) che la riforma Moratti avrebbe collocati sotto forma di “campus” tra i licei vocazionali. E’ storia infatti che nell’ambito dell’istruzione tecnica le difficoltà degli allievi e la loro provenienza sociale ed economica aveva indotto ad attivare con una maggiore aderenza alle esigenze del territorio corsi biennali e triennali con il rilascio di qualifiche professionali. Il tentativo per anni non riuscito di riformare la scuola superiore ha offerto l’occasione di emancipare tali istituti aggiungendo un biennio post-qualifica per arrivare all’esame di maturità e perfino costituire ordini professionali per i diplomati alla pari dei così detti “periti”. Anche in questo settore iniziò il periodo della sperimentazione assistita come nei tecnici per l’ammodernamento dei curricoli, mantenendone l’autonomia, ma replicandone il carattere di scuola di recupero attraverso il precoce inserimento nel mondo del lavoro. La gran parte degli studenti infatti usciva dopo la qualifica triennale ed ancora oggi siamo in presenza di un notevole insuccesso scolastico al quale si sono aggiunti problemi legati all’integrazione degli stranieri.

La prima occasione per cambiare decisamente strada si ebbe nel 2007, con la legge 40, che da una parte portò notevoli innovazioni, ma che su questo fronte si limitò a conservare la sopravvivenza di detti istituti imponendone la quinquennalizzazione. I dati però si mantennero stabili nelle difficoltà, anzi facevano percepire una certa quale ghettizzazione rispetto agli altri ordini di scuola; gli studenti bocciati preferivano il salto verso la formazione regionale e questi istituti superiori nati oltre che per affinità di indirizzo e per i numeri necessari all’autonomia, anche per cercare di migliorare il sistema di orientamento interno, furono destinati ad aumentare la dispersione.

Ormai della legge 40 se ne può dare una lettura storica, che ci fa dire con certezza che attorno alla salvezza degli istituti professionali ci fu un patto sindacal ministeriale, che impedì qualunque discussione sul loro trasferimento alle Regioni, per la costruzione del predetto sistema allargato e verosimilmente meglio capace di dare discontinuità ad una didattica ritenuta troppo tradizionale, trasmissiva-selettiva, valorizzando la funzione educativa del lavoro e ponendo come traguardo finale l’occupabilità. Il passaggio aveva alle spalle il predetto art.117 della Costituzione, anche se non ancora applicato, che indicava il nuovo contenitore: istruzione e formazione professionale.

In questa situazione la riforma Gelmini cercò di conferire agli istituti tecnici, con relativamente pochi ed ampi indirizzi nazionali, la finalità di portare gli allievi verso una formazione tecnica superiore in rapporto con le grandi imprese e le loro organizzazioni. I professionali vennero caratterizzati per funzioni, in modo da indicare un ingresso precoce nel mondo del lavoro. Era più facile fosse un tecnico a costituire una fondazione per l’istituzione degli istituti tecnici superiori che un professionale, il quale per effetto della flessibilità curricolare offerto dall’autonomia, poteva rapportarsi con la formazione professionale regionale per percorsi validati dalle regioni. Ciò diede origine a progetti sperimentali, ancora oggi in atto, basati sulla così detta sussidiarietà “integrata”, che pone cioè istituti e centri regionali insieme nella gestione dei percorsi didattici, o sussidiarietà “complementare” se i percorsi regionali fossero entrati nell’organizzazione della scuola.

Dall’altra parte il sistema regionale, che fu difeso più dai soggetti gestori dei centri accreditati che dalle stesse regioni, ha cominciato a prendere il largo; nel frattempo la legislazione aveva legittimato la terza gamba del sistema, cioè la qualifica triennale, il quarto anno per il diploma professionale, la formazione superiore (IFTS) in grado di predisporre i requisiti per il riconoscimento dei crediti universitari. Tale sistema, com’è noto, è versato sulle domande delle imprese e sull’apprendistato, con l’aiuto del Ministero del Lavoro ha inaugurato un altro percorso sperimentale per l’istituzione del “doppio canale” all’italiana, prendendo esempio da quello tedesco.

Ormai gli istituti tecnici erano lontani, penalizzati a loro volta dalla diminuzione di iscrizioni che invece premiavano i licei; le altre due gambe a questo punto avrebbero fatto bene a fondersi per riempire in modo coerente il contenitore indicato dalla Costituzione, la cui applicazione avrebbe potuto offrire norme generali da parte dello Stato (si pensi al repertorio nazionale delle qualifiche ed alle tante linee guida emanate sui due versanti, anch’esse da unificare), affidando la gestione alle regioni, con strumenti di coordinamento a livello di conferenza tra queste e lo stato medesimo. I livelli essenziali delle prestazioni del sistema formativo erano già stati stabiliti nel 2005.

E’ noto che il tentativo di riportare tutto sotto l’egida statale, comprese le “disposizioni generali e comuni sull’istruzione e formazione professionale”, riducendo la legislazione regionale ad organizzare i servizi alle imprese ed alla formazione professionale, non ha avuto esito, lasciando tutto quanto deciso nel 2001, anche se, come si è detto, non applicato in modo esplicito. Il sistema regionale ha così occupato tutto lo spazio, comprendendo la parola istruzione che sembra fare tutt’uno con la formazione, mentre sul piano politico e istituzionale si tratta di due realtà che poteva essere venuto il momento di mettere insieme.

La buona scuola però ha continuato a lavorare sulle tre gambe, riportando alla luce il vaso di coccio, anch’esso in crisi di adesioni ma non di criticità. L’ultima frontiera del sistema scolastico che rischia di essere ancor più dimenticato da un regionalismo di ritorno, che tra referendum e trattative con il governo nazionale, amplierà i poteri delle stesse Regioni, sicuramente considerando anche il rapporto tra formazione e lavoro; una nuova via rispetto alle competenze concorrenti, tutt’ora in vigore, che pur avevano dato tanto spazio alla legislazione regionale nel settore.

Il decreto 61/2017 ha iniziato una discussione su tutti gli indirizzi, anche perché bisognava porre rimedio ad una sentenza del TAR di condanna di un provvedimento che aveva calato le ore negli istituti tecnici e professionali con particolare riferimento alle attività di laboratorio, ma poi ha deciso di occuparsi solo di questi ultimi, ipotizzando invece un raccordo con il sistema regionale, peraltro ancora da scrivere da parte del ministro e il buco nell’istruzione tecnica ancora da sanare.

Si tratterà di favorire i passaggi tra istituti professionali statali e sistema regionale, con un riconoscimento di crediti e sarà costituita una rete nazionale delle scuole professionali, per avere un perimetro più largo e forse più stabile, ma di separati in casa, perché come già succede nelle predette sperimentazioni i due sistemi di governce sono difficili da mettere d’accordo. Mentre è la forma integrata quella preferita dal più alto numero di regioni, secondo una logica di maggiore efficacia dell’organizzazione didattica e che risponde meglio alla congiunzione che sta tra istruzione e formazione, il suddetto decreto 61 agisce nella direzione opposta e cioè nel creare apposite classi con qualifica regionale nella scuola statale.

Concludendo, ci si aspettava una svolta in favore di una forte struttura che messa insieme alla parte alta, cioè all’istruzione terziaria tecnica, avrebbe così ridisegnato un nuovo impianto didattico, organizzativo e di governo che sta a cuore proprio ad una legge che ha fatto del rapporto tra scuola e lavoro uno dei pochi elementi chiari della sua proposta politica, mentre alla fine risulteranno tre debolezze, di cui quella regionale, pur seguendo l’andamento dello sviluppo economico e produttivo del proprio territorio, sarà in grado di acquisire maggiore autonomia ed efficienza. Certo in questo Paese siamo a metà di tutto: sul fronte statale abbiamo una maggiore copertura del territorio, ma una più obsoleta qualità della formazione, su quello regionale una maggiore flessibilità dei curricoli ed abitudine a trattare con le imprese, ma scarsa affidabilità da parte di Enti formativi e Regioni. Si nutrono perplessità che le ambizioni contenute nel decreto 61 possano portare in tempi rapidi ad un miglioramento di questa componente e che da qui si arrivi a diffondere una nuova identità all’intero sistema.