Il mio 8 settembre 1943

Il mio 8 settembre 1943 *

di Maurizio Tiriticco

Ad Ostia – pardon, al “Lido di Roma”, ma solo ancora per poco – i soldati in servizio, rimasti senza alcun ordine, si dissolsero e se la filarono. La caserma della Guardia di Finanza IX Maggio – data della proclamazione dell’Impero… quale impero, ormai? – e il Collegio IV Novembre si svuotarono di tutti i militari e degli allievi che c’erano. E i tedeschi in un paio di giorni occuparono caserma e collegio. E occuparono anche tutti gli uffici pubblici, civili e militari, della cittadina. Avvertivamo tutti la sconfitta, la fine di un’epoca, di un mondo. Non eravamo più padroni in casa nostra. Che cosa sarebbe successo? Non c’era più neanche il tempo per pensare. Occorreva solo sopravvivere, nel disfarsi lento e progressivo di ogni tessuto sociale e civile. Poi sapemmo che a Roma si combatteva, che c’erano stati dei morti, e che alla fine i tedeschi avevano avuto la meglio. E sapemmo anche che gli Americani – o chi per loro, perché nel loro esercito c’erano soldati di tutte le razze… mercenari lautamente pagati, ci dicevano – erano sbarcati nello stesso giorno a Salerno, a Reggio Calabria, a Taranto. E stavano risalendo sulla Penisola, invadendo il… Sacccro Territttorio della Patttriaaa… la retorica fascista era sempre altisonante…

Ormai le notizie certe, ufficiali, potrei dire, le avevamo da Radio Londra, sempre più ascoltata, e sempre più con tutti gli accorgimenti del caso. Non c’erano più i fascisti, non c’erano più le autorità civili, ma c’erano i tedeschi e questi veramente ci mettevano paura. Da sempre li vedevamo come marciavano, sempre impettiti, anche in libera uscita… sempre con un viso severo, quando non era arcigno, e sapevamo della loro disciplina di ferro con i loro superiori, e del loro disprezzo nei nostri confronti: noi ariani tollerati, non puri, quindi da trattare sempre dall’alto in basso, se non peggio. In seguito su “La Storia”, di Elsa Morante, ritrovai quel modello di soldato in Gunther, quel campione del sesso che sempre alla caccia di casini, non esitò a violentare Ida, la maestrina protagonista del romanzo.

Ed erano restii a darci qualunque confidenza. Con loro c’era poco da scherzare. E fu un’intuizione felice. Solo a guerra finita sapemmo delle stragi che avevano compiuto, e di civili soprattutto. E a noi di Ostia, dopotutto, ci andava ancora bene. Ma erano solo i primi giorni della occupazione tedesca.

Intuimmo che non era stato concluso un armistizio, ma che ci eravamo letteralmente calati le braghe – l’armistizio era senza condizioni – e che in effetti eravamo nelle mani dei tedeschi. La verginità democratica forse l’avevamo restaurata, ma dopo vent’anni di dittatura dovevamo dimostrare al mondo e ai nuovi alleati che non l’avremmo mai più perduta. Qualche pensiero alto in un momento così pesante e difficile potevo anche permettermelo. Ma la situazione era troppo avara e non me lo permetteva…

Ciò che più mi sconvolse, ci sconvolse, fu la fuga del Re. O meglio, del re. Basta con le maiuscole. Basta con Vittorio Emanuele, Re d’Italia e non più d’Albania… e non più Imperatore d’Etiopia… A proposito, che succedeva in Albania? E che succedeva in AOI??? Mah. Ormai il re lo chiamavamo Pippetto e senza alcun titolo regale. Avevamo solo tanta rabbia. Ci sentivamo traditi. Noi traditi fin da quando aveva affidato il governo a Mussolini. E fino a quando glielo tolse: perché aveva tradito anche il Duce, quando lo sbatté in galera. A proposito, che ne era del Duce? Mah. Il casino era totale. Un regno senza re, un esercito senza stato maggiore, un paese allo sbando. Quante maiuscole erano cadute nel giro di una notte. E aggiungi la fame… e la paura delle bombe… da una parte e dall’altra ormai.

E il re senza maiuscola tradì anche il suo popolo. Quando fuggì da Roma con un corteo di macchine per la via Tiburtina verso Pescara, ripiegando poi verso Ortona e poi di lì a Brindisi con la corvetta Baionetta. A Pescara erano già saliti sulla nave Badoglio e lo Stato maggiore. A Ortona salirono il re e il suo seguito. Si ebbero scene raccapriccianti. Indegne per personaggi di alto lignaggio. Urla e improperi. Bestemmie e minacce di ricorrere alle armi pur di salire sulla corvetta. Che non era un transatlantico. E il Rex, fermo a Trieste. Che tristezza. Un re su una corvetta. Tutti volevano imbarcarsi per primi per paura di rimanere a terra. Anche perché il comandante accettava solo viaggiatori “civili” pari al numero dei salvagente a disposizione. E i carabinieri? A terra. Rimasero a terra. In effetti, sono un’arma di terraaa… I carabinieri, l’arma “nei secoli fedele” per eccellenza, che dovettero scortarlo lungo il viaggio per timore che il loro re si imbattesse con i tedeschi. Fedeltà fino all’ultimo. E gli andò bene al nostro re. La Fortuna era certamente dalla sua. Non dalla nostra, purtroppo. Lo Stellone d’Italia era tutto per Pippetto. E noi NON SAPEVAMO NIENTE. Sapemmo tutto dopo. A cose fatte. Che schianto. Mi era caduto il Duce e mi era caduto pure il Re… d’Italia e di Albania e Imperatore d’Etiopia.

Negli anni seguenti certa storiografia avrebbe giustificato la scelta della “fuga”. Occorreva salvare il Governo, quello con la G maiuscola. E nel Meridione, che veniva giorno dopo giorno liberato – od occupato secondo i fascisti impenitenti – c’erano gli ex nemici a riceverlo: i nuovi amici! Gli Alleati! E anni dopo ci raccontarono pure che il figlio Umberto, l’erede al trono, il Principe di Piemonte, alto e bello con moglie e figli, voleva restare a Roma. A fare l’eroe. Per un guizzo di onestà? O perché la moglie, Maria Josè del Belgio – di tutt’altra pasta rispetto ai Savoia, anche antifascista, come poi si seppe – si rendeva conto quale fango si stava rimestando? Mah. I grandi interrogativi della storia…

*   da “Balilla Moschettiere, memorie di un antifascista”, Book Sprint Edizioni 2015

Roma, 8 settembre 2017… dopo 74 anni