Cassazione: psicologo a scuola senza consenso è violenza privata

PrimaDaNoi del 19-09-2017

Cassazione: psicologo a scuola senza consenso e’ violenza privata

LA SENTENZA. La Corte di Cassazione (Sez. 5, n. 40291/17) ha recentemente riaffermato il rispetto della responsabilità genitoriale, attestando che uno psicologo a scuola senza il consenso dei genitori è una “violenza privata”.
Non solo, trattandosi di un’attività svolta da pubblico ufficiale, la mancata registrazione nel protocollo dell’istituto, e poi il diniego alle domande dei genitori circa l’esistenza della relazione finale, rappresentano un falso per soppressione.

La Quinta sezione penale della Cassazione (sentenza 40291/17, depositata ieri) ha annullato il proscioglimento del Gip di Arezzo nei confronti di due dirigenti scolastici, due insegnanti e della stessa psicologa, tutti portati a giudizio dai genitori di un bimbo di sette anni con presunti problemi comportamentali. Gli insegnanti avevano chiesto, in particolare, la consulenza del medico durante le ore di lezione per osservare , pur dissimulando l’attività, l’atteggiamento relazionale dell’alunno. Al termine dell’analisi, durata due mesi. il medico aveva stilato una relazione di cui i genitori avevano sentito parlare, solo a fine anno scolastico, durante un colloquio con l’insegnante. Da lì la richiesta di accesso agli atti, puntualmente negata – come l’esistenza stessa della relazione – dai due dirigenti scolastici passatisi l’incarico a cavallo degli anni interessati.

La sentenza ha riscosso l’entusiasta approvazione di parecchi cittadini, professionisti della scuola, associazioni a tutela dei minori e genitori. Lo stesso Ordine degli Psicologi, ripetendo ciò che il CCDU ha sempre sostenuto, ha commentato in una nota: «La Corte di Cassazione ha ribadito quanto è già previsto nelle procedure professionali degli psicologi, i quali operano sempre nei contesti minorili col consenso dei genitori e nell’esclusivo interesse del minore».

Vincenza Palmieri, fondatrice dell’Istituto Nazionale di Pedagogia Familiare, che da anni ribadisce la necessità di un intervento sulla didattica, e condanna con forza l’approccio medicalizzato che ha investito la scuola a seguito della L. 170 sui DSA (i cosiddetti Disturbi Specifici dell’Apprendimento – dislessia, disgrafia, discalculia e disortografia), si è occupata personalmente di interventi concreti in favore di bambini e famiglie vittime di abusi diagnostici e, nel corso di una Conferenza Stampa congiunta con la Senatrice Enza Blundo sul tema «DSA e abuso diagnostico a Scuola – Gli interventi istituzionali verso il cambiamento annunciato», aveva riaffermato l’urgenza di una riforma.
Secondo Palmieri la sentenza della Cassazione rappresenta «Un risultato che afferma un punto di vista irrinunciabile: il rispetto della Genitorialità, della Scuola deputata a istruire e formare e non a fare test «predittivi» del disturbo che «sarà», della dignità delle Professioni. La Legge 170 sui DSA deroga su questo e nelle sue linee guida introduce anche screening e valutazioni, dando origini ad equivoci interpretativi. La Cassazione, con questo, fuga i dubbi: «interesse del minore e consenso dei genitori».
«Vediamo tutti i giorni i danni causati sui bambini dalla legge 170, soprattutto per quanto concerne il diritto all’apprendimento» – dichiara Antonella Marzaroli, ex insegnante elementare, Responsabile Nazionale contro la Medicalizzazione della scuola del CCDU Onlus.

«La sentenza della Cassazione rafforza quanto noi sosteniamo da anni: le linee guida sui Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA) stanno trasformando gli insegnanti da esperti della didattica in una sorta di psicologi clinici che osservano i bambini per individuare i sintomi di questi disturbi inseriti nel Manuale Diagnostico Statistico – il testo sacro della psichiatria. Questa sentenza rafforza i nostri dubbi di legittimità su alcuni aspetti della legge 170 già criticati da più parti in relazione al rischio di medicalizzazione della scuola. Secondo la Cassazione, infatti, la mancanza dell’esplicito consenso da parte di chi è legittimato a prestarlo «integra certamente una compressione della libertà di autodeterminazione del soggetto passivo».