K. Reichs, Ossa di ghiaccio

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Reichs o del bene della verità

di Antonio Stanca

Il genere del thriller medico ha creato l’americana Kathy Reichs, docente di Antropologia forense presso l’Università di Charlotte, nel North Carolina. Qui ha pure l’ufficio di Antropologia forense mentre in Canada, a Québec, è impegnata presso il laboratorio di Scienze giuridiche e di medicina legale. Sono attività che le hanno procurato numerosi riconoscimenti e molti inviti a tenere conferenze in tante parti del mondo.

E’ nata a Chicago nel 1948, ha sessantanove anni, ha scritto opere specifiche, tecniche, e da quando aveva quarantanove anni, nel 1997, ha cominciato a scrivere di narrativa. Il romanzo d’esordio è stato Corpi freddi e già allora la Reichs aveva mostrato quella che sarebbe stata la sua maniera di essere scrittrice. Dal suo lavoro di antropologa forense, dai suoi esami di persone morte, di cose distrutte in seguito a gravi avvenimenti come sciagure, catastrofi dovute alla violenza della natura o dell’uomo, avrebbe ricavato il contenuto delle sue narrazioni. Delle sue esperienze professionali si sarebbe alimentata la sua scrittura. Non nel senso che le avrebbe riportate, che ne sarebbe stata il loro documento poiché sempre capace si sarebbe mostrata la Reichs di costruire intorno a quegli avvenimenti, a quelle riesumazioni ed alle conseguenti sue scoperte e rivelazioni, delle trame nelle quali la realtà sarebbe risultata trasfigurata in modo da ottenere significati che erano propri della scrittrice, che le provenivano dalla sua formazione, dalla sua personalità, da quanto si agitava in lei indipendentemente dalla sua professione.

E’ una moralità, una spiritualità quella della Reichs che va oltre il caso ogni volta presentato nei romanzi, che le fa superare quanto di orrido, di macabro i suoi occhi sono costretti a vedere durante il suo lavoro e la fa tendere verso un ideale di vita diversa da quella rovinata dalla violenza, del singolo o della collettività, dalle stragi, dalla morte, dal male. Quella che la spinge a cercare la verità tra quanto è rimasto dopo eventi disastrosi è un’accensione che non risale solo alla sua professione ma anche alla sua vita, al suo bisogno di conoscere, sapere quanto è accaduto nei pensieri, nell’intimo di chi quell’evento ha vissuto. Per questo è diventata scrittrice, perché con la narrazione le sarebbe stato possibile realizzare quel che il suo spirito chiedeva, costruire, cioè, intorno al caso in esame una vicenda che lo arricchisse delle supposizioni, dei dubbi, dei sospetti, dei pensieri, dei timori che la scrittrice credeva di poter attribuire a chi ne era rimasto vittima. Di tutto quanto, cioè, non si era visto perché nascosto nell’animo.

Una scrittrice celebre in America e nel mondo è diventata la Reichs per la sua capacità di ricavare dall’indagine scientifica di un corpo senza vita i caratteri, i segreti, l’anima di chi quel corpo aveva avuto, le cause occulte delle sue azioni, per la sua volontà di fare della verità finale un motivo per riflettere, capire, imparare, un bene dal quale altri sarebbero derivati. Propositi umanitari, civili, sociali animano la scrittrice, la spingono a ricercare con tanta passione quelle verità che sarebbero rimaste lontane, oscurate, ignorate se non ci fosse stata lei a mostrarle, esibirle come una vittoria del bene ed una sconfitta del male.

Per ottenere questi effetti di verità sorprendenti, di rivelazioni clamorose la Reichs ha pensato che il thriller sarebbe stato il genere migliore e la dottoressa Temperance Brennan il personaggio più idoneo ad esserne la protagonista perché in lei l’autrice si sarebbe immedesimata, da lei avrebbe fatto interpretare la sua vita, le sue esperienze.

Tutto questo c’è pure in Ossa di ghiaccio, romanzo scritto dalla Reichs nel 2015 e pubblicato quest’anno in Italia per conto della casa editrice Rizzoli di Milano con la traduzione di Massimo Gardella.

Qui la dottoressa Brennan-Reichs, è stata chiamata per fare l’autopsia e altri esami particolari del cadavere della giovane alpinista americana Brighton Hallis. E’ stato trovato sul monte Everest dopo tre anni dalla morte. Dalle indagini parallele della polizia si saprà che aveva fatto parte di un gruppo di cinque amici che si erano proposti di scalare l’Everest, di raggiungere la vetta più alta del mondo da soli senza servirsi di una guida. Erano riusciti a compiere l’impresa ma ne erano tornati solo quattro che dichiaravano di non sapere cosa era successo a Brighton, di averla vista l’ultima volta poco prima della cima del monte impegnata a soccorrere una scalatrice solitaria. Pertanto non sapevano se fosse morta per una caduta in un crepaccio o per congelamento o perché aveva finito la riserva di ossigeno.

Ma saranno, come sempre, gli esami che la Brennan condurrà in maniera minuziosa, scrupolosa, particolareggiata, ripetuta, sulla salma della giovane alpinista, sarà la sua prolungata, meticolosa attenzione a quel cadavere a far sapere che non era quello della Brighton bensì quello dell’alpinista solitaria che gli altri credevano avesse avuto bisogno di soccorso. Questa si chiamava Viviana Fuentes e ad ucciderla, colpendola e lasciandola morire assiderata, era stata la Brighton che, a sua volta, in un’altra scalata sarà fatta morire da un amico comune alle due, Damon James. Quindi Brighton e Viviana si conoscevano ed entrambe erano amiche di Damon. Tra i tre era in corso un “affare losco”, un affare di un milione di dollari e in un primo momento Brighton e Damon avevano pensato di eliminare Viviana per godersi da soli la somma. Poi lui aveva pensato di eliminare Brighton per diventare il solo beneficiario di tanto denaro.

Era questa la verità ultima e la Brennan vi era giunta partendo dagli esami compiuti nel suo laboratorio sul cadavere di Viviana, inizialmente scambiato per quello di Brighton. Aveva pure svolto all’esterno un lavoro d’investigatrice venendo a contatto con persone sospettate, indagando fra gli amici, i parenti delle vittime, tra possibili testimoni dell’accaduto, operando, cioè, come la polizia e insieme alla polizia.

Un’altra vittoria sarebbe stata per lei quest’ultima verità, un’altra volta avrebbe sconfitto il male, in questo caso quello della cupidigia e della menzogna, avrebbe mostrato come non si può resistere alla verità, alla giustizia, avrebbe invitato a perseguirle, le avrebbe indicate come il solo modo per migliorare la vita, la storia.

Coinvolgente fin dall’inizio è il romanzo, affascinato si sente il lettore dai paesaggi insoliti, dalle atmosfere suggestive, dai luoghi, dalle luci, dai colori, dal senso di primitivo, di selvaggio, di incontrollato, d’imprevisto, di pauroso che può offrire una montagna come l’Everest. Partecipe si sente del continuo, inarrestabile processo che le ricerche della Brennan innescano, insieme a lei gli sembra di avanzare verso quella verità che, pur apparendo oscura, irraggiungibile, finirà col chiarirsi, col testimoniare che è destinata a vincere.