Social, sì, ma…

Social, sì, ma…

di di Maurizio Tiriticco

 

Enrico Franceschini e Ilaria Venturi pubblicano su “la Repubblica” dell’11 dicembre 2017 un interessante articolo, “Niente apostrofo siamo social”, in cui descrivono le più frequenti modifiche a cui oggi assistiamo nella parola scritta. Nel sommario leggiamo: “Cambia l’ortografia dalla Gran Bretagna all’Italia. Abbreviazioni ed emoticon cancellano la punteggiatura”. E riportano alcuni esempi, ormai più che diffusi: qual è, po’, cè nè, un’amico, un altro, perche’. E riportano un’affermazione di Massimo Arcangeli, autore di un saggio sulla “solitudine del punto esclamativo”, secondo il quale “la comunicazione digitale amplifica la perdita tra oralità e scrittura”.

Il che mi fa pensare che, in fatto di linguaggio, alle tradizionali modalità comunicative – e differenze – che riguardano il parlare, l’ascoltare, il leggere, lo scrivere, il transcodificare (passare da un codice comunicativo a un altro: disegnare, dipingere, suonare, ecc.), occorre aggiungerne un’altra, quella indotta dai cosiddetti social: ad esempio, l’uso sempre più frequente di WhatsApp (sembra, comunque, che tra breve WhatsApp cesserà il supporto su diverse piattaforme mobili). Insomma, si sta affermando una forma nuova e diversa di scambio comunicativo, che non ha ancora un nome, ma della quale chi si occupa di linguistica a livello scientifico deve tenere il debito conto.

Chi è solito scrivere ed è passato nel tempo dalla carta/penna alla macchina da scrivere e poi al computer conosce bene le differenze che corrono tra la carta/penna, appunto, e la carta stampata. Ricordo le mie fatiche, ai tempi in cui facevo lavori redazionali, quando dovevo sistemare testi manoscritti o scritti con la Lettera22, ai fini della stampa tipografica. Per non dire anche oggi dei tanti testi scritti al computer, nei quali l’autore non usa il mostra/nascondi (quel “mostra tutto” a forma di P maiuscolo rivoltato) e che il redattore deve per forza risistemare prima della stampa.

Fin qui (debitamente senza accento!) si tratta di considerazioni di uso, direi, perfino banali, ma penso che siano necessarie altre considerazioni, che riguardano proprio la lingua e il suo uso, quotidiano e non. Una riflessione mi viene suggerita dai compiti scritti dei nostri studenti. Una prima considerazione riguarda la calligrafia, o meglio la grafia, perché in effetti lo scritto non suggerisce, di fatto, e non trasmette nulla di “bello”!. In primo luogo rilevo l’uso molto diffuso dello stampatello: lettere, quindi, non collegate tra di loro. Com’è noto, la scrittura manuale richiede la continuità tra una lettera e un’altra e lo spazio solo tra una parola e un’altra. Se, invece, si ricorre allo stampatello, questa continuità non esiste! E non so – voglio essere estremamente prudente – quanto questo fenomeno possa corrispondere ad una sorta di discontinuità del pensiero produttivo. In secondo luogo, laddove si usa il normale corsivo, le cosiddette zampe di galline sono assolutamente dominanti. Eppure una volta, per lo meno fino al secolo scorso, il corsivo era veramente un corsivo. Conservo lettere di miei antenati di fine Ottocento e dei primi del Novecento, le quali sono scritte con una grafia corsiva ineccepibile!

Ora non so! Ricordo che nelle mia prima classe elementare la maestra insisteva con le pagine di “a”, di “e”, di “u” e così via, prima di farmi scrivere “ape”, “uva”. “oca”, fino a quella famigerata “aiuola”, che era un po’ la prova del nove per tutti noi poveri alunni! Solo in età più matura ho poi appreso e compreso che tra carta, penna, mano, occhio e cervello corre un rapporto continuo e dialettico e che il saper scrivere non è indifferente al saper pensare.

Concludendo, mi chiedo e chiedo a chi ne sa più di me: questo frenetico digitare sul cellulare ad ogni piè sospinto non finisce con il produrre effetti negativi sulla formulazione stessa del pensiero? La parola scritta, come sappiamo – nonostante le profonde diffidenze che nutriva Platone – non è una semplice trasposizione del pensiero su carta, ma è in grado di indurre e produrre attenzione e riflessioni che in genere non si hanno quando si parla. Quanti insegnanti hanno a che fare con un alunno, sempre pronto a dire la sua, il quale invece, di fronte a una foglio su cui deve comporre un qualcosa, guarda in aria e si morde la penna prima di riuscire a scrivere un esile pensierino!

Insomma! La frenesia scrittoria indotta dai social non rischia di ottundere, con il tempo, quella competenza riflessiva e produttiva che la scrittura in genere – e penso da sempre – provoca e induce? E Massimo Arcangeli ha forse ragione?