V. Roghi, La lettera sovversiva

Leggere don Milani

di Bijoy M. Trentin

Nell’anno del cinquantesimo anniversario della morte di don Lorenzo Milani (LM, 1923-1967) e della pubblicazione di Lettera a una professoressa (LP), sono stati vari i volumi pubblicati su di lui e sui suoi scritti, oltre all’edizione in due tomi, nei Meridiani Mondadori, di Tutte le opere (OO), diretta da Alberto Melloni e curata da Federico Ruozzi, Anna Carfora, Valentina Oldano, Sergio Tanzarella. Tra gli studi, risalta, senza dubbio, quello della storica Vanessa Roghi, La lettera sovversiva. Da don Milani a De Mauro, il potere delle parole (RO), pubblicato dagli Editori Laterza: è la storia a tutto tondo di LP, di quale ne sia stato l’iter generativo e quale ne sia stata la ricezione nel tempo. Con profondità filologica e acribia archeologica, Roghi, negli intrecci della storia della cultura, dell’educazione e dell’istruzione, individua le tappe, le motivazioni e le finalità che hanno condotto alla composizione e alla pubblicazione di LP e vaglia gli usi e abusi che, mediante le molteplici letture, ne sono stati fatti (capitoli: 1. Se la storia non si fosse buttata contro; 2. Barbiana, Vicchio, Italia; 3. Vho e dintorni; 4. Il dibattito sulla lingua; 5. Un canto di fede nella scuola: Lettera a una professoressa; 6. Il libretto rosso di una generazione; 7. La scuola buona; 8. Nel mondo; 9. Santo santino impostore, o del «donmilanismo»).

Appena esce (poco piú di un mese prima della morte del suo autore), il piccolo libro «viene accolto dai linguisti come un prontuario di indicazioni pratiche per una pedagogia linguistica moderna. Dai professori come un vademecum per una scuola alternativa. Dagli studenti come un viatico per la rivoluzione» (RO 115). Roghi analizza e decostruisce le interpretazioni formatesi da súbito e quelle stratificatesi nel tempo degli scritti e della persona di LM, comprese quelle che lo santificano o lo demonizzano, recuperando il senso originario e autentico dell’opera milaniana, non evitando di metterne in evidenza l’attualità, per ciò che concerne l’attenzione alla forza oppressiva o liberatrice della parola, al diritto di ognuno di imparare, all’istituzione e ai compiti della scuola, che molto ha fatto per l’istruzione e la democratizzazione del Paese, ma che davvero molto ancora deve fare (si pensi alla dispersione scolastica, al mancato raggiungimento del successo formativo, e non solo scolastico, per tutti e ciascuno). Nel processo educativo, è considerato fondativo e decisivo il potere trasformativo delle parole: lo «sguardo illuministico [di don Milani] sulla forza dell’educazione è qualcosa che scuote in profondo l’anima, fa riflettere, si pone come un macigno sulle coscienze di chi pensa che la parola sia qualcosa da dare e non da far conquistare» (RO 30).

«Lettera a una professoressa non è altro che la messa in atto di un metodo di ricerca e lavoro che consiste nell’osservare le cose e dare loro un nome. L’inchiesta sociale è rivoluzionaria» (RO 137). Il recupero dell’aderenza tra verba e res, praticato con rigore fin dall’inizio, come mostrano anche le Esperienze pastorali (1958), è continua ricerca in grado di mettere in discussione le disuguaglianze culturali e sociali, senza sconto alcuno: lo slancio utopico non è sterile ascesi, ma tenace tentativo di eliminazione delle ingiustizie che vengono perpetrate nei confronti dei piú indifesi, degli esclusi, di chi non ha mezzi linguistici sufficienti a far fronte ai soprusi dell’affermazione delle disparità. «[…] Il giorno che avremo sfondata insieme la cancellata di qualche parco, installata insieme la casa dei poveri nella reggia del ricco, ricordatene Pipetta [un attivista del PCI], non ti fidar di me, quel giorno ti tradirò. Quel giorno io non resterò lí con te. Io tornerò nella tua casuccia piovosa e puzzolente a pregare per te davanti al mio Signore crocifisso. Quando tu non avrai piú fame né sete, ricordatene Pipetta, quel giorno io ti tradirò. Quel giorno finalmente potrò cantare l’unico grido di vittoria degna d’un sacerdote di Cristo: “Beati i… fame e sete”» (Lettera a Pipetta, OO II.148). Cosí, nel 1950, LM chiarisce che la sua personale missione non potrà dirsi mai conclusa, nella piena conoscenza e consapevolezza delle contraddizioni del mondo.

La parola, a cui viene riconosciuta una centralità essenziale ed esistenziale, può essere utilizzata per cambiare il mondo, nel quale ognuno può comprendere gli altri e farsi comprendere: «Io sono sicuro che la differenza fra il mio figliolo e il vostro non è nella quantità né nella qualità del tesoro chiuso dentro la mente e il cuore, ma in qualcosa che è sulla soglia fra il dentro e il fuori, anzi è la soglia stessa: la Parola» (Giovani di montagna e giovani di città. Lettera di un parroco su uno dei problemi fondamentali del nostro tempo, «Giornale del Mattino» 20/05/1956, OO I.1011). Il potenziale democratico che la lingua può attuare si esplica in un principio di uguaglianza: «[…] è solo la lingua che fa eguali. Eguale è chi sa esprimersi e intende l’espressione altrui. Che sia ricco o povero importa meno. Basta che parli» (LP, OO I.761). «Il senso della Lettera non è poter parlare di tutto, bensí poter parlare, alla pari, con tutti» (RO 147). Dunque, per abbattere le disuguaglianze, «serve […] un’educazione linguistica come vera e propria lotta di classe per chi gli ostacoli “se li porta dentro”» (RO 21): soprattutto tra gli anni ’50 e ’70, «parlare di lingua significa fare politica» (RO 84), significa, in un contesto di trasformazioni sociali, schierandosi, ideare e proporre tipi di società differenti, o confermando i divari socio-culturali o intendendo sopprimerli. La modalità con cui LM affronta la questione linguistica è eminentemente politica (LP è, per i genitori, «un invito a organizzarsi» [OO I.685]), è «il rifiuto dell’esclusione dal linguaggio e il rifiuto del linguaggio escludente» (Melloni in OO I.LXI), e, in quanto questione politica, è quindi risolvibile, rifuggendo da riduzioni paternalistiche: «i poveri non hanno bisogno dei signori. I signori ai poveri possono dare una cosa sola: la lingua cioè il mezzo di espressione. Lo sanno da sé i poveri cosa dovranno scrivere quando sapranno scrivere» (Lettera a Nadia Neri, 07/01/1966, OO II.1222).

Quando LM sale a Barbiana per la prima volta (7 dicembre 1954), non vi è nemmeno una strada vera e propria, ma solo una mulattiera, che si percorre, di certo, non agilmente. Non è questo a scoraggiare il Priore («la grandezza d’una vita non si misura dalla grandezza del luogo in cui s’è svolta, ma da tutt’altre cose» [lettera alla madre del 28/12/1954, OO II.326]), che ha come principale preoccupazione quella di avviare la scuola per i «piccoli montanari»: «del resto anche il far scuola produce strade» (lettera all’amico Meucci, 2/3/1955, OO II.350). L’esperienza pedagogica di LM non è esportabile, non è riducibile a ricette didattiche. Ma è tutta la Scuola di Barbiana (LM con i suoi otto ragazzi), in LP, a enucleare un principio pedagogico fondamentale e regolativo, scarno e applicabile, pur nella sua formulazione paradossale e iperbolica: «la pedagogia così com’è io la leverei. Ma non ne son sicuro. Forse se ne faceste di più si scoprirebbe che ha qualcosa da dirci. Poi forse si scoprirà che ha da dirci una cosa sola. Che i ragazzi son tutti diversi, son diversi i momenti storici e ogni momento dello stesso ragazzo, son diversi i paesi, gli ambienti, le famiglie. Allora di tutto il libro basterebbe una paginetta che dicesse questo e il resto si potrebbe buttar via» (OO I.780-1). È dall’immersione nel mondo del prossimo emarginato ed escluso e dalla presa in carica della cura dell’altro che emerge e si impone chiaramente la direzione da seguire: «il cuore della Lettera a una professoressa giace qui, in questa infinita fiducia nella possibilità, nella capacità degli insegnanti di andare oltre l’esperienza, delle cose viste nelle strade, nelle case, nei boschi, trasformandola in conoscenza. Ma andare oltre non significa negare, ignorare cancellare. Significa fare tesoro di ciò che si vede, di ciò che si sa» (RO 97).